martedì 14 dicembre 2010

MODA & MODI: il pizzo fa magie

Emma Watson l'ha scelto per lasciarsi alle spalle una volta per tutte l'Ermione di Harry Potter. Ha tagliato la chioma color miele fino a ridurla a una zazzeretta alla Twiggy e si è avvolta in pizzo nero, con trasparenze ben distribuite, per segnare un importante rito di passaggio: dall'apprendista maghetta all'attrice "adulta", dal castello di Hogwarts al boudoir. Pizzo cifra della stagione, trasversale alle generazioni: anche J.K. Rowling, la mamma letteraria di Ermione, ha voluto velare di chantilly nero le maniche dell'abito indossato per la prima londinese dell'ultimo film della saga miliardaria, "Harry Potter e i doni della morte". Chic e di moda, declinato in mille dettagli e varianti, quest'anno finalmente "metabolizzato", dopo la collezione anticipatrice di Prada del 2008, che è rimasta un esercizio di stile raffinato ma un po' gelido. A cavallo tra 2010  e 2011, pizzo fa serata, fa occasione, fa festa, ma, con abbinamenti meno convenzionali, si porta anche ogni giorno, soprattutto quello di cotone che ricorda le tende di una volta e che non disdegna di far capolino da sotto il
cardigan tricottato. E visto che oramai il gioco del royal wedding inglese ha contagiato tutta la stampa planetaria, perchè sottrarci e non ricordare che proprio catturando la lingerie nera di Kate da sotto l'abito di pizzo indossato sulla passerella di una sfilata universitaria, William ha iniziato la lunga e intermittente strada che lo ha portato alla capitolazione.
A vincere è la misura. Sensualità, piuttosto che sessualità. J. K. Rowling ha fasciato le braccia, altre, hanno preferito bordare di pizzo la scollatura della schiena, il décolleté, i guanti, gli inserti sulle scarpe o sulla borsa. Ad alleggerire l'enfasi della trama è l'abbinamento spiazzante: una camicia vedo-non vedo sulla gonna a tubo di lana, o sui pantaloni di  pelle, l'abito protetto dal golf e comunque mai, se la trama è sottile come una ragnatela, indossato senza una sottoveste, color carne o in una tinta a contrasto. Solo Dita Von Teese insiste nel divertissement erotico del burlesque, per tutte le altre è un vintage discreto, da baule della nonna. Gli stilisti propongono in alternativa il tulle ricamato, dall'effetto tatuaggio sul corpo, o il pizzo di cotone, più spesso e coprente, che si presta ad accompagnare diverse ore del giorno: un vestito intero, indossato con scaldacuore e scarpe basse durante il giorno, può diventare più tentatore verso sera con il tacco e un coprispalle che rivela qualche centimetro di pelle in più.
La parola d'ordine della stagione è comunque il bon ton, i colli, i fiocchi, le rushes, le gonne a corolla, le cinture in vita proiettate da "Mad Men", la serie televisiva cult in America di cui a fatica ci siamo accorti anche noi, direttamente sulle passerelle di questa stagione. Pizzo sì, allora, ma senza esagerare, evitando l'effetto vedova del Sud o vedova nera. E anche nei colori ci si può sbizzarrire: polvere, crema, mou. Il bianco è molto suggestivo, per diciottenni che vanno al ballo delle debuttanti.
@boria _a

                                   Emma Watson alla prima londinese di "Harry Potter e i doni della morte"

martedì 30 novembre 2010

MODA & MODI: c'è Kate e Kate

 Kate quando era ancora la "signorina" Middleton
Povera Kate, con quegli incredibili cappelli come dischi volanti, che tra qualche mese avrà la ventura di atterrare, insieme al suo borghesissimo sangue, tra i velenosi e appannati Windsor. Se già le future spose sono sotto stress, figurarsi lei, placida ragazzona figlia di miliardari fattisi da sè, che dovrà reggere il confronto con la suocera icona, quella Diana del cui fascino, nel figlio, nonostante gli incoraggianti tentativi della stampa, è difficile trovare la benchè minima traccia. Il guardaroba della signorina Middleton, di qui ad aprile, sarà il più scrutato del pianeta, ogni sua scelta registrata, ogni sua preferenza agognata da pletore di stilisti in cerca di quindici minuti di notorietà. E ogni suo passo falso passato al microscopio, come quando, ancora nemmeno promessa a William, lasciò intravedere la lingerie nera sotto il vestito trasparente a una sfilata benefica o comparve, a un altro evento caritatevole (autentiche trappole, dal punto di vista delle cadute di stile...), in un incredibile mix di giallo, turchese e rosa, da sesto power ranger.
"Classic and cool", scrive la stampa britannica, un po' come noi diciamo "sportivo ma elegante" per definire abbinamenti piuttosto sbiaditi, dove nulla colpisce e l'insieme, anonimamente ineccepibile, rientra nella più totale e banale prevedibilità. Tutto ruota intorno a "classic": Kate veste adesso come vestirà a cinquant'anni. Décolleté, gonnelline a fiori, impermeabili molto british, mezzo tacco, cappello Ascot con volute e piume: per questo, si scatenano i bloggers, ha resistito già otto anni accanto al futuro re, il che, secondo gli standard degli ultimi Windsor, equivale praticamente al giubileo della regina nonna. Non ci saranno più trasparenze galeotte, insomma, incidente che capitò anche all'imberbe Diana, quando, ancora maestra d'asilo (all'epoca delle prime, incontrollate dichiarazioni del tipo "ho il cervello come un cece"...), fu fotografata controluce e l'orribile gonnona di cotone a fiori rivelò un paio di splendide gambe. La sua futura famiglia, e pare che Kate lo sappia bene, non ama le sorprese, è irritata dalle trasformazioni: se riuscirà a restare sempre discretamente uguale alla se stessa di adesso, si garantirà imperitura riconoscenza e appartenenza alla "firm", la ditta dei Windsor, dove la testa bombata della principessa Anna e la scialba platinatura di Camilla sono da sempre garanzia di affidabilità.
Kate ama la stilista brasiliana Issa, che fa in pratica un solo vestito: blandamente scollato, blandamente svasato, con la cintura che blandamente sottolinea la vita e si allaccia davanti o dietro. Ne ha scelto un modello blu, subito volatilizzatosi nei negozi, anche per l'annuncio delle nozze, riuscendo addirittura a scandalizzare i puristi, che avrebbero voluto qualcosa di più formale, indossato con le calze e non a gambe nude e, soprattutto (come dar loro torto), con un orlo non pendente. Ma ancora una volta Kate non è andata sopra le righe. Elegante e innocua "generic Sloane", una delle tante ricche ragazze londinesi che appartengono alla crema della società, di solida educazione e aspettative matrimoniali. Niente a che vedere con un'omonima connazionale di nuovo alla ribalta, la top model Kate Moss, incoronata da Vogue America come la donna che ha più influenzato la moda negli ultimi dieci anni. Un rischio, è probabile, che la signorina Middleton, futura regina, non corre.
@boria_a

                                                                 Kate Moss (Rex Image)

martedì 16 novembre 2010

MODA & MODI

Riciclo d'arte a Trieste






All'inizio era un bottone, anzi, una montagna di bottoni recuperata da una merceria in chiusura. Poi sono venute le paillette, i ritagli da vecchi abiti smessi, i campionari di tessuti. E uno spazio tutto nuovo dove questi oggetti e materiali, in procinto di essere abbandonati o salvati dal naufragio di passati utilizzi, hanno trovato un'altra vita. E una destinazione diversa. Da complementi sono diventati protagonisti, da parti anonime di un tutto eccoli trasformati in accessori pieni di personalità. Difficili, certo, perchè irresistibilmente originali, poco inclini a "sposarsi" con i loghi, loro che di loghi, in apparenza, non ne hanno nessuno.
Al contrario, Paola Fontana e Roberta Debernardi, le due "creative" dietro al marchio "Studiocinque e altro
(www.studiocinqueealtro.com), per i loro estimatori hanno un tocco inconfondibile. E da quando, dopo produzioni e vendite itineranti o casalinghe, hanno messo radici all'inizio di viale D'Annunzio, lo storico negozio di tendaggi e tappezzerie "Studiocinque", che oggi gestiscono, è diventato un autentico "concept store". "Concept" non nel senso di ammassare disparati oggetti presumibilmente di tendenza senza un filo conduttore, ma "concept" perchè rispecchia la filosofia a tutto tondo delle designer: riciclo intelligente, fantasioso, ironico, manualità e capacità di assemblare consistenze e materiali senza mai essere scontate.

Un negozio che sembra una casa di "ringhiera", un loft strepitoso nel mezzo di un quartiere caotico e multietico, dove ti viene voglia di sederti, guardati intorno, goderti il soppalco, i banconi, i colori, le piante, chiacchierare e scegliere con calma, perchè spille, collane, anelli, cappelli, cinture, borse, complementi d'arredo, pupazzi sembrano soprammobili perfettamente integrati nel tutto, non oggetti passeggeri messi lì solo in attesa che qualcuno li compri.

La collezione invernale quest'anno prende spunto dalla natura, con fiori, farfalle, corolle, tutti inventati assemblando ritagli di tessuti vintage o di campionari di stoffe preziose, sottratti all'uso espositivo per diventare decorazioni. Le spille sono margherite di stoffa lucida da appoggiare ovunque, sul risvolto di un cappotto, su un abito, su una sciarpa: un bottone al centro e i petali verde acido, senape, marrone, rosso antico, con l'effetto nostalgico dei bijoux americani di celluloide degli anni Cinquanta. Spille anche a forma di farfalla con ali a quadri, a pois, nelle stoffe firmate Marimekko, costruzioni perfettamente proporzionate, aeree come origami, che danno l'impressione di spiccare il volo. E poi ci sono le buste di stoffa, trousse e portaoggetti da borsetta, dove il punto croce sul nero o rosso forma scritte ammiccanti, disegni di animali, coroncine. Per i bambini, ma non solo, un'intera famiglia di animali di stoffa e feltro, dal gufo al pesce, dall'istrice al panda, anch'essa nata dal salvataggio di tanti ritagli, riconvertiti in occhi, musi, pinne.


Pezzi unici e contati, perchè qui la produzione è davvero "slow" e, per restare in tema, "a chilometro zero": sul mio cappello da dignitario c'è un inserto da un paio di vecchi pantaloni di Paola. Il segreto di questi accessori? Un'aristocratica semplicità, modernissimi perchè fatti di cose abbandonate, o vecchie, e piene di storie di altri.


twitter@boria_a



Spille di tessuto, la modella è Mariaondina (www.studiocinqueealtro.com)

martedì 2 novembre 2010

MODA & MODI: Michelle Obama non salva i suoi beniamini


Michelle Obama nell'abito di Maria Pinto (Charles Ommanney/Getty Images)
Chi non ricorda il vestito rosso e nero indossato da Michelle Obama nella "victory night" di Chicago, il 5 novembre 2008, un modello entrato nella storia insieme al nome del suo creatore, lo stilista messicano Narciso Rodriguez? O il giallo firmato dall'americana di origine cubana Isabel Toledo, con cui la first lady, commossa e maestosa, attraversò Washington il 20 gennaio 2009? O ancora l'abito bianco, che lasciava scoperta una spalla, scelto per il gran ballo del giorno dopo, che riscattò in pochi secondi dall'anonimato il designer taiwanese Jason Wu, incoronandolo sulle pagine di tutti i giornali del mondo? Dall'accettazione della candidatura da parte del marito - che Michelle salutò in una guaina ciclamino firmata da Maria Pinto - agli appuntamenti di Stato soprattutto del primo anno dell'era Obama, ogni capo sfoggiato dall'inquilina della casa Bianca ha occupato siti, riviste, quotidiani del pianeta, trasformandosi per i relativi creatori in altrettanti spot di portata planetaria. Chi aveva mai sentito parlare di Prabal Gurung prima che Michelle indossasse un suo vestito rosso bollente alla cena con i corrispondenti dalla Casa Bianca, il 1° maggio di quest'anno? Nessuno: eppure il giorno dopo il sito dello stilista era intasato e negozi che non l'avevano mai degnato di attenzione, agognavano improvvisamente di appendere agli attaccapanni i suoi modelli.
Dell'immenso business pubblicitario legato alla signora Obama, e delle sue ricadute economiche sulle vendite di certe griffe, si è occupato piuttosto seriamente il New York Times, chiedendosi, all'annuncio dell'improvvisa chiusura dell'impresa proprio di Maria Pinto, se le preferenze della first lady si trasformino davvero in dollaroni per gli stilisti. Conclusione non automatica: tant'è che la stessa icona per eccellenza del guardaroba della signora, l'abito rosso e nero della vittoria, dagli iniziali 4.400 dollari veniva poi "regalato" sul sito del magazzino del lusso Bergdorf Goodman a  1.500. Insomma, Michelle "influenza" lo stile, non promuove gli stilisti. Il dibattito è destinato a riaccendersi ora che un altro suo beniamino, il texano ex-surfista Tracy Feith, è sull'orlo del fallimento e non riesce a pagare l'affitto delle boutique di New York e Long Island. A lui si deve il vestito nero con stampe a fiori e uccelli - brutto - per il Wednesday's  National Prayer Service, l'incontro di preghiera al quale tutti i neopresidenti americani partecipano con la consorte appena insediati. Un appuntamento, dal punto di vista mediatico, non proprio glamour, ma di qui a  chiudere bottega ce ne corre. Cos'è cambiato? Anzi, com'è cambiata l'America a un anno e undici mesi dalla notte vestita da Rodriguez? "La first lady ha il merito di aver democratizzato la moda", commentavano allora gli osservatori del costume, promuovendo qualche sporadico golfino da grande magazzino di Michelle e bocciando il "total griffe" di Sara Palin, ex governatrice dell'Alaska. Ma ora Obama è in affanno e la Palin, proprio lei che veniva stroncata per aver speso 150 mila dollari per il guardaroba elettorale, guida il recupero repubblicano conquistando la gente con frasi fatte, tea party e talleurini legnosi. La crisi economica è spaventosa, investe anche gli stilisti. Se davvero era Michelle a tenerli in piedi, non basta più.
@boria_a
Michelle Obama rosso fuoco firmato Prabal Gurung alla cena dell'associazione corrispondenti della Casa Bianca, il 1° maggio 2010 (foto Sutra Jewels, che firma il bracciale dorato)

martedì 19 ottobre 2010

MODA & MODI

Donne con le gonne. E le forbici

Un drappo di seta bagnato, attorcigliato e lasciato asciugare sotto il sole per ricavarne un plissè che dura solo una notte, il tempo sufficiente a far vivere un abito da sogno, da far innamorare, ispirato al "delphos" di Mariano Fortuny. Lo chiffon che diventa una gonna gonfia e leggera, adatta a passeggiare sui marciapiedi bruciati di Tetuàn, il protettorato spagnolo in Marocco, dove gli occhi maschili si incollano alle forme delle straniere, desiderabili e spregiudicate. La lana per una gonna color vino, stretta e al ginocchio, un tubino semplice e impeccabile per la divisa da lavoro di una sarta, che tagliando e cucendo senza posa raccoglie segreti, intreccia rapporti, diventa confidente e poi potente alleata nella rete delle trame femminili.
Tutto comincia con una gonna in "La notte ha cambiato rumore", il romanzo dell'esordiente Maria Dueñas, già best seller in Spagna: è la trasgressiva gonna pantaloni che Elsa Schiaparelli inventa per la tennista Lili de Alvarez e che la protagonista del libro, la sarta Sira, riproduce per la sua prima cliente, copiandola dalla foto di una rivista di pettegolezzi. Da quelle pieghe nasce il suo riscatto, dopo il tradimento e l'abbandono di un avventuriero che, negli anni del franchismo, la trascina via dall'amata Madrid per scaricarla a Tetuàn con addosso, appunto, solo di che vestirsi. E la capacità innata di cucire e di "sentire" i tessuti, che sotto le sue mani si trasformano e trasformano.
Sulle gonne volteggia il successo di Sira e delle altre protagoniste di questo torrenziale feuilletton in rosa, donne di "influenza" più che di potere, che modellano il loro destino come tagliano un abito, con grazia pari alla determinazione. Una lettura dunque, ideale per predisporci alla moda di questi mesi freddi, che ci suggerisce il ritorno a una femminilità accentuata e insieme discreta, lasciando da parte i pantaloni per riscoprire vestitucci corti ma soprattutto gonne, il capo base, una sorta di tavolozza bianca da cui partire per inventarsi uno stile.
Sembra facile abbinare la gonna: un maglioncino, una camicia, una giacca più o meno lunga, un qualsiasi "avanzo" di armadio a prima vista va bene. Invece no, la novità di questa stagione è sperimentare combinazioni e consistenze diverse, provare lunghezze inedite, giocare con gli accessori, mischiare la  pelle con la lana grossa, il tweed alla seta, destabilizzare i colori accostando il verde oliva al grigio o al crema pallido, nuance così anemiche che a prima vista respingono e invece, con un'intuizione felice, si accendono.
Le più "modaiole" sono gonne così lunghe da disegnare una silhouette da ampolla, favorita dai guanti di pelle anch'essi interminabili, fin sopra il gomito. Lunghe ma anche plissettate, con maglioni sottili a collo alto per non appesantire la cascata delle piegoline. O di pelle, micro, con pull altrettanto striminziti dove solo il collo è esagerato. O, ancora, a corolla e al ginocchio, per assecondare la voglia di bon ton che c'è nell'aria. Gonne spesse, nei tessuti maschili, da portare con camicette di velo. O frivole e leggere accostate a un robusto "chiodo" di pelle. Anche il rigorosissimo tubino prende vita con un accessorio originale: sopra la sua gonna color vino, Sira porta un paio di vecchie forbici d'argento legate a un nastro. Non tagliano più, almeno la stoffa.


twitter@boria_a
La copertina dell'edizione italiana del libro di Maria  Dueñas, "El tiempo entre costuras" (Mondadori)

martedì 5 ottobre 2010

MODA & MODI: la scelta del würstel

«Ho visto in un grande magazzino un vestito di pelle beige, pubblicizzato in ogni rivista. Perchè? A me sembra piuttosto banale e, a quel prezzo, farà sudare da matti...». Alla domanda rivoltale sul suo blog, la caustica giornalista inglese del Guardian, Hadley Freeman, risponde all'interlocutrice, tale Charlotte, con un'altra domanda: sei della "squadra delle pragmatiche" o della "squadra delle modaiole"? Perchè nel secondo caso penserai subito alla fantastica opportunità di assicurarti a poco prezzo la "scopiazzatura" di un modello della prestigiosa griffe Céline, anzi, cercherai di ottenere l'originale assolutamente convinta della sua unicità, mentre, se appartieni alla categoria delle "pragmatiche", di questa specie di elegante involucro simil-plasticato considererai solo la traspirabilità, pari a quella di uno pneumatico, e penserai di compratelo solo nel caso tu intenda fare la donna-sandwich per una marca di würstel.
Non è difficile intuire da che parte stia Hadley a proposito delle guaine in pelle, che hanno fatto un'ardita rentrée nella moda di questa stagione, tubini pericolosissimi, attillati, che non perdonano e a loro volta imperdonabili, che si sottraggono rigidamente a qualsiasi ansa del corpo, scolpiti, con un effetto un po' sinistro alla Matrix. E non sono solo abiti, ma anche gonne, corte o a campana, aderenti e ampie, o soprabitucci da kapò che si strizzano in vita con una cintura larga, per sottolineare l'impronta da dominatrice. Preferibilmente neri, senza escludere le tinte cipria o mou, le più temibili. La fantasia perversa degli stilisti si è sbizzarrita; ce ne sono con la scollatura a cuore, a squame di pesce simil sirena metropolitana, scamosciati con la gonna a balze, con le maniche lunghe, castigatissimi e insieme perversi, o micro, quasi delle tunichette da portare con i leggings e i cuissard, gli stivaloni a metà coscia, colpo d'occhio pelle su pelle. Oppure, in sintonia con il "mood" retrò di questi tempi, vestiti di pelle ma con la gonna a ruota da abbinare ai guanti lunghi, puro bon ton anni Cinquanta, o più informali sotto sciarpe e cardigan tricottati. Abiti concepiti tutti, comunque, per l'auspicabile circostanza di doverseli togliere subito, una volta ottenuto il risultato bomba-dark, cioè prima di cominciare a sudare, di sentire l'impellente bisogno di grattarsi, di veder comparire pieghe che non tornano al loro posto e un décolleté disegnato dalla thyssen krupp.
La caustica Hadley ci viene in aiuto nella scelta. E suggerisce: «è sempre questione di equilibrio». Ovvero, nel gelido humour inglese: quando, dopo una vacanza di dieci giorni, il non aver trovato la sdraio fronte mare diventa per te una crisi pari alla carestia nazionale, è ora di tornare a casa. E quando, da convinta attivista della "squadra modaiola", cominci a pensare che un abito di pelle beige è la quintessenza del minimalismo della nuova epoca, è ora di riconsiderare il tuo rapporto con le griffe e le loro proposte. Di tornare a casa, appunto.
@boria_a
Tendenza pelle nella primavera-estate 2010

martedì 21 settembre 2010

MODA & MODI: le griffe okkupano i grandi magazzini

La moda la fa la gente comune e le griffe entrano nei grandi magazzini. Perchè se le icone di stile proposte da tanti siti web sono persone anonime, ma che sanno miscelare con gusto il pezzo da mercato e quello da boutique, gli stilisti non hanno più la puzza sotto il naso a firmare mini-collezioni per la maxi-distribuzione, conquistando un esercito di potenziali clienti contro i quattro gatti dei monomarca esclusivi. Vestirsi low cost è diventato addirittura snob, significa sapere scegliere e abbinare, avere uno stile personale e non farsi tiranneggiare dai "look" (parola che sta finalmente sparendo dai reportage di moda, seppure con fatica...). Tutto si mescola in tempi di crisi, gli stilisti catturano la novità dalla donna qualunque e la donna qualunque può scegliere un capo firmato più o meno facendo la spesa.
Mettetevi in coda, allora, davanti alla porta di H&M, dove il 23 novembre prossimo, in uno dei duecento punti vendita del mondo, sarà possibile acquistare un abito di Lanvin, quintessenza della desiderabilità, che ha ideato ben due collezioni, una femminile e una maschile, apposta per il colosso svedese della moda a buon prezzo. H&M è stato il primo a trascinare inarrivabili marchi tra i suoi scaffali, mandando in visibilio i clienti con pezzi di Karl Lagerfeld, Stella McCartney, Comme des Garçons, Jimmy Choo, Viktor & Rolf, Sonia Rykiel, Roberto Cavalli, letteralmente "bruciati" nel giro di poche ore. Aggiungere alla lista Lanvin, però, è un colpo magistrale, perchè per un vestituccio della boutique parigina di Faubourg Saint Honorè, fondata nel 1889 da Jeanne Lanvin, bisogna avere nel portafoglio dai duemila euro in su.
E il direttore artistico della maison, Alber Elbaz, aveva dichiarato in passato che mai e poi mai avrebbe realizzato una collezione accessibile ai comuni mortali. Ora, con una contorsione a centottanta gradi, torna sui suoi passi: «Quello che mi ha intrigato è l'idea che H&M si avvicini al lusso piuttosto che Lanvin al pubblico!».
Moda democratica o marketing spietato? Ne sa qualcosa anche Gap, colosso americano dell'abbigliamento, che sta collaborando con Valentino per una mini-collezione da presentare, a novembre, in contemporanea allo sbarco italiano del primo monomarca a Milano, e in altri negozi selezionati nelle principali capitali europee. I due stilisti che ora disegnano la linea Valentino, Maria Grazia Chiuri e Pier Paolo Piccioli, si sono detti entusiasti del "matrimonio" che fino a poco tempo fa non s'aveva proprio da fare, tra chic e cheap, tra lusso e basic.
Intanto Ovs Industry, del gruppo Coin, ha iniziato la controffensiva contro gli stranieri H&M e Zara con una campagna pubblicitaria di Scott Schuman, il celebre "sartorialist" dell'omonimo sito: testimonial glamour, da Ginevra Elkann a Jessica Einaudi, da Nicolas Vaporidis a Jacaranda Caracciolo Falk, accanto a perfetti sconosciuti, e tutti, vips e nips, interpreti dello stile povero di "tendenza", della collezione "democratica". La linea sarà firmata dal milanese Davide De Giglio e da Ennio Capasa di Costume National, costerà un trenta per cento in più dei capi tradizionali e cercherà di combinare design, qualità e prezzo.
Quale sia il "clima" della guerra tra i marchi lo lascia intendere l'amministratore delegato del gruppo Coin, Stefano Beraldo. «Il nostro target sono le persone vere che indossano abiti veri, H&M fa usa e getta proponendo pochi pezzi di una firma o di un personaggio...». Resta un dubbio: che il lusso a portata di ogni tasca non sia che un modo "elegante" per occupare militarmente nuove fette di consumatori, con meno soldi ma sempre la stessa febbre da etichetta. Tutti i grandi magazzini sostengono che i clienti sono "cresciuti" e che premiano la qualità. Appunto: non serve una griffe.
@boria_a
 Lanvin per H&M

martedì 7 settembre 2010

MODA & MODI: nell'anno del cammello

Invecchia? Sbatte? Annoia? È il colore che mentalmente si abbina in automatico all'idea dell'anonimato, della discreta mezza età, della tappezzeria, la tinta-rifugio di chi vuole sentirsi "in ordine" senza sforzi di immaginazione e senza paura di sbagliare? Insomma, condividete anche voi lo slogan di Hadley Freeman, caustica giornalista inglese del Guardian, per cui "only the beige wear beige"? Allora ricredetevi subito, prima che arrivi il freddo, e preparatevi a entrare nell'anno del cammello.
Ci sono stagioni e stagioni di pregiudizi da cancellare per il confortevole e "domestico" crema, trasformato dalle passerelle dell'autunno-inverno 2010 nel nuovo nero, tinta di punta per qualsiasi ora e occasione, versatile, addirittura sofisticato, declinato in capi, tagli e lunghezze quasi impensabili. Non più "cammello", appunto, scoraggiante e zitellesco fin dalla definizione. La copertina di Vogue Italia, la nostra "september issue" (ossia il numero che detta le tendenze della stagione) è tutta dedicata a lui, re beige. La top model Miranda Kerr sfoggia un perlaceo make-up, occhi e labbra naturalissimi in nuance petalo, un cappotto stretch tinta cremino con il collo di maglia a trecce, in braccio un cagnolino pure lui ambrato.
L'operazione rilancio è partita dalla tavolozza: adesso si chiama pelle, sabbia, cognac, "cenere di rosa", taupe (è un, molto nobilitato, marroncino chiaro), sughero, cipria. Un colore pieno e sicuro di sè al punto da proporsi ton sur ton, combinando insieme tutte le sue sfumature e sfidando il total look che è un disastro sempre in agguato.
Altro mito da sfatare: il beige schianta qualsiasi carnagione e mortifica le chiare. Gli stilisti suggeriscono di provare il contrario. Per le bionde slavate è chic, nelle brune e more smorza i contorni e valorizza, nelle rosse attenua il rischio della volgarità. Come il nero, si abbina a tutto, agli scontati bordeaux, marroni, verdi, ma anche ai più inediti grigi, dal polvere al ferro, al rosa cammeo, al bronzo e all'oro per la sera. Non ha paura delle consistenze: per il giorno sui tweed mascolini, le pellicce sintetiche, i maglioni tricottati, per la sera sulle sete, gli chiffon, le organze, gli aderentissimi jersey.
E, a far la parte del leone, ritorna il famigerato "cappotto cammello", che non ha più nulla dei legnosi paletot del passato rubati al guardaroba maschile, squadrati, vagamente militareschi, adatti pressochè soltanto a donne alte e androgine. È un cappottino rivisitato nelle proporzioni, più corto e svelto, con dettagli di pelle, pelliccia o maglia, sbracciato come un gilet o con le maniche gonfie, che si porta sulla gonna a tubo, i pantaloni sottili o con l'altro "must", gli stivaloni sopra il ginocchio, anch'essi mou o color cremino.
Convinte? Oppure, come a me, vi resta il dubbio su che cosa avrà mai voluto dire la Freeman col suo sibillino "only the beige...": veste così chi ama uno stile "non gridato" o chi è davvero un po' incolore?
@boria_a
Miranda Kerr in copertina sulla "september issue" di Vogue Italia

martedì 24 agosto 2010

MODA & MODI

Inspirational strangers

Bill Cunningham a New York (zeitgeistfilm.com)
Caccia allo sconosciuto icona di stile. Al comune mortale che lancia una moda o ispira una tendenza, scovato dai fashion blogger e strappato al suo anonimato per approdare nel mondo planetario della rete, ormai la più autentica fonte di idee della moda. Saturi di modelle, celebrità, fanciulle nullafacenti dal cognome miliardario, a dettare le regole, o a stravolgerle, è oggi una pattuglia di persone assolutamente normali, di tutto il mondo e di ogni età, scelte e fotografate perchè "hanno qualcosa", l'accessorio, l'insieme, la freschezza, l'equilibrio, la trasgressione o il rigore - in una parola, il gusto - che le rende assolutamente speciali. Anonime e uniche.

Anonime perchè non famose, ma soprattutto, ed è un sollievo, perchè non griffate, o almeno con le griffe nè tracciabili nè esibite. L'idea l'ha avuta Scott Schuman, il fotografo che ha inventato il sito "The sartorialist", il primo a pubblicare le immagini delle persone, incontrate per strada, che lo colpivano e che giudicava adatte a entrare in un'inesauribile galleria dell'eleganza a tutte le latitudini. I cento scatti più suggestivi sono stati raccolti in un libro e Scott, secondo la rivista "Times", è tra le cento persone nel mondo in grado di influenzare lo stile.
Vale anche per Bill Cunningham, il fotografo dell'edizione on-line del "New York Times" che gira per Manhattan in bicicletta e mette a punto una selezione ancora più raffinata: sconosciuti, uomini e donne, che hanno qualcosa in comune, un colore, una fantasia, il design delle scarpe o degli abiti, il modo di portare un cappello, il recupero di un capo. E tutti insieme, senza saperlo, fanno tendenza. Date un'occhiata al suo ultimo "On the street" (s'intitola all-black uniform), un video dedicato alle signore che scelgono nero e tacchi non per la notte, ma per andare al lavoro ogni mattina: Bill si è addirittura appostato allo stesso angolo dalla Quinta Strada per immortalare una di loro riconvertita, dopo alcuni giorni di incursione nel colore. Schuman, invece, negli ultimi scatti di "Sartorialist", si è fatto colpire dal ritorno del colore a Milano, proponendo una sofisticatissima ragazza che miscela top gialli e arancio con pantaloni fantasia su fondo nero e sandali animalier.

Abbinamenti inimitabili? Tuttaltro. I "Beautiful strangers" (http://www.beautifulstranger.tv/), come si chiama un altro sito specializzato in sconosciuti di classe, suscitano più simpatia e spirito di emulazione dell'attrice paparazzata con lo stile di altri e il logo (regalatole anch'esso dai diretti interessati) in bella vista. "Real fashion on real people", vera moda su gente vera, sintetizza "Chicisimo" https://chicisimo.com/, altro spazio virtuale dedicato alle icone della porta accanto.


E l'ultimo nato, swagger.nyc (@SwaggerNewYork) propone anche la musica dei "trendsetter" incontrati per strada. Le modelle hanno stancato, stanno bene con tutto e si vedono dappertutto. Sono scontate e inflazionate. La gente comune con gusto, al contrario, dà idee agli stilisti e può essere un potente volano commerciale, non a caso alcuni siti propongono link dove è possibile comprare abiti e cosmetici suggeriti dai vari "tizi" della strada.

Funziona come per l'arte, dicono Melissa Fedor e Abby Wallace di "Beautiful Strangers": quando c'è, la riconosci. Non a caso i blogger specializzati in "visti per strada" siedono oggi in prima fila alle sfilate di moda. Meglio guardarsi intorno, allora, che guardare la tv, dove tristi pseudo-guru dello stile insegnano a vestirsi "bene" e cercano di convincerti che parlano di moda perchè sostituiscono banalissimi parole italiane con l'equivalente inglese ("questa bag in black and white e le scarpe con gli heels alti fanno molto fashion...").
twitter@boria _a

Scott Schuman, the sartorialist (Archivio Corbis)

martedì 10 agosto 2010

MODA & MODI: smutandate e marsupiati in volo

Il marsupio che ballonzola sulla pancia o il gilet simil-cacciatore, dalle tante e capienti tasche, dove custodire i documenti di viaggio. Il pinocchietto che trancia a metà i polpacci da mediano, immancabilmente abbinato alle scarpe da ginnastica immacolate da cui spuntano i bordi del calzetto meno che mai "fantasmino". I leggings incollati a ogni millimetro quadrato di quello che nella quotidiana vita urbana ci sforziamo in tutti i modi di nascondere, dalla cellulite alla biancheria. La tuta da ginnastica, promossa a indumento da spostamenti comodi e ingualcibili. I cappelli da cow-boy e gli stivali da ranchero anche se la destinazione è l'Alaska, le crocs multicolor dagli zero ai sessant'anni, le cinture di Gucci comprate sulle spiagge, le camicie hawaiane o le t-shirt che dichiarano mestamente "Ilove" a mete di precedenti trasferte o passaggi a esotici e improbabili rock cafè.
Le statistiche ci dicono che non raggiungono nemmeno il cinque per cento gli  italiani che quest'anno trascorrono un periodo di vacanza fuori dai confini nazionali. Una risicata pattuglia scampata alla tenaglia della crisi e più che mai ansiosa di liberarsi di tutte le mestizie invernali, anche di quelle altrui. L'aeroporto è la prima tappa di questa pimpante marcia verso la libertà, il passaggio obbligato che divide il rigido tran tran quotidiano, con i suoi codici di comportamento e di abbigliamento, dalla sospirata meta del relax. Una specie di porto franco del gusto in cui si comincia ad avvertire il brivido dell'anonimato, in cui saltano le regole e le inibizioni nel vestire, in cui tutto sembra concesso. Parola d'ordine, bruciare le confortevoli uniformi della vita "reale" e scatenare la fantasia, non c'è tarocco, taglia, colore, sedere che tenga. Mentre chi prende il treno rimane imprigionato nei suoi abiti di sempre, non fosse altro che per la contiguità fisica delle stazioni alle città, il popolo dei viaggiatori volanti ha caratteristiche tutte sue, difficili da isolare in altri luoghi di transito. Un popolo di variopinte tute di lycra di solito confinate al tempo libero e mai sdoganate nemmeno per il breve tragitto che separa la palestra da casa, di sandaloni tedeschi portati col calzino (perché in volo, si sa, ci si libera dalle calzature), di bermuda superaccessoriati, di canotte e mutande a vista, di calzoncini inguinali, di zainetti sepolti da tempo immemorabile negli armadi in attesa di gite fuoriporta sempre rimandate, di false vuitton su pantaloni da odalisca, di monili o paludamenti etnici che comunicano al mondo i propri precedenti da viaggiatore internazionale. Negli anni Cinquanta, quando volare era privilegio di pochi, ci si imbarcava con un guardaroba esclusivo. Attrici e miliardarie scivolavano sulle scalette come su una passerella e gli stilisti creavano un glam aeroportuale con capi e accessori particolari. Oggi lo
stile tamarro dei vacanzieri è democratico e trasversale, come i cieli. Smutandate e marsupiati in fila al check-in sono insospettabili professionisti sotto copertura, si vola e ci si veste low cost. Il guardaroba da viaggio è affidato alle migliaia di nuovi ricchi russi e cinesi, per cui volare è ancora un'emozione da vivere con stile.
@boria_a
Stile aeroportuale (fonte Quotidiano.net)


domenica 18 luglio 2010

E' ITS NINE A TRIESTE
Il giapponese Takashi Nishiyama e il suo cacciatore di mostri vincono la nona edizione del fashion contest


TRIESTE L'ultima uscita sulla passerella di ITS Nine ci riconcilia con la moda e con i suoi capricci, anche se non vince nulla. Sfila la collezione femminile di Sideral(Es), gruppo di creativi nato proprio per partecipare al concorso triestino con un progetto originale, che parla in parte italiano, una vera rarità tra i nuovi talenti, e in parte anche friulano, merito dei gioielli del lignanese Francesco Sbaiz, in arte "Dna 79".


Sideral(Es)
Le donne vestite da questi giovani designer vivono in simbiosi con gli abiti, il loro corpo è accarezzato, valorizzato e non maltrattato, dalle tecniche più innovative nella lavorazione dei materiali.

La colonna sonora si addolcisce e le indossatrici scivolano sulla pista con il numero del modello in mano, come nei defilé silenziosi e sacrali degli atelier "vintage". Indossano abiti di pelle stampata, trattata nei solarium per modificarne il pigmento e poi aerografata, tailleur con crine di cavallo decolorato e piume "pettinate" con l'arricciacapelli del parrucchiere, camicie di chiffon che si arrotolano in plissè di fiori sul petto, completi di paillettes color stagnola come star d'altri tempi.
Li hanno pensati, disegnati e cuciti la brasiliana Roberta Weiand con gli italianiLinda Calugi Fabrizio Talia, finalista della prima edizione. Poi hanno convocato il cappellaio matto inglese Justin Smith, pluripremiato a ITS Six, che li ha arricchiti con costruzioni spericolate e leggerissime, una sfida alla forza di gravità da portare in testa, e il designer Francesco Sbaiz, ideatore di monili che attraversano complesse fasi di lavorazione prima di diventare ornamenti primordiali, tracce di forme impresse nel rame e nell'argento e trattenute da stoffa e neoprene. «Abbiamo voluto dar vita a una vera e propria "factory" creativa - spiegano Linda e Roberta - ma speriamo di poter continuare insieme anche dopo ITS». E, in previsione della sfilata di ieri sera hanno tappezzato la città del numero "22", il loro simbolo, applicato un po' ovunque sui lampioni in glitter che si scioglie con l'acqua. Promozione originale e messaggio involontario: i giovani del concorso hanno voglia di uscire dal recinto artificiale dell'evento di moda, farsi conoscere al di fuori dei suoi addetti ai lavori, incontrare la città che li ospita ogni anno, prima perplessa ora incuriosita.



Ieri sera i "viaggiatori" di  ITS Nine, i finalisti della sezione moda, hanno proposto a pubblico e giuria il frutto delle loro esplorazioni, dedicate soprattutto al maschio, il cui guardaroba è evidentemente un territorio ancora in parte inesplorato per la creatività giovane. Otto delle dodici collezioni scese in passerella nell'ex Pescheria, ai ritmi indie e rock miscelati dagli Electrosacher, sono state dedicate a "lui", se così si può chiamare l'uomo che dovremmo rintracciare, e a cercarlo ci si deve mettere una certa dedizione, sotto questi involucri.

Un transgender, perlomeno, a giudicare dalle tunichette bianche con gilet di pelliccia, in cui lo infila il belga Niels Peeraer, che non a caso ha dovuto arruolare per la sua sfilata indossatori "speciali", quasi degli efebi, e un pre-adolescente autoctono, col petto striminzito e la vita di sessanta centimetri. Esseri - cui è andato uno dei premi minori - che il loro ideatore chiama "geishe", dotandoli anche di sandali col tacco, ci fosse mai qualche dubbio sulla loro bidimensionalità.
Aggiungi didascaliaGli efebi firmati Nils Peeraer

O un maschio disorientato nei colori e confuso tra le stagioni, che abbina bermuda leopardati a un montone fuxia, per una collezione intitolata dalla danese Astrid Andersen, con involontaria lungimiranza visto la calura, "Death in the afternoon". Un maschio che riscopre il colore, in una vitaminica tuta-smoking da sera arancione firmata dal sudcoreano Juho Song, uno dei designer meno arrabbiati col suo sesso, ma che preferisce comunque rintanarsi in una sorta di guscio da pulcino, com'è il soprabito inventato dal tedesco Michael Kampe. E rendersi respingente ai propri simili indossando, dello stesso stilista che ha vinto il prestigioso "Diesel Award" di 25 mila euro, una giacca con lunghi aculei di metallo sulle spalle, una sorta di installazione di antenne che ha richiesto una preparazione anticipata di un'ora rispetto all'uscita del modello in passerella.
 La collezione di Michael Kampe
È piaciuto così tanto ai giurati il "cacciatore di mostri" inventato dal giapponeseTakashi Nishiyama che gli hanno attribuito il "Fashion collection of the year", primo premio da quindicimila euro e ritorno assicurato a Trieste il prossimo anno.
Takashi Nishiyama, Fashion collection of the Year ITS Nine
Il giovane designer dice di essere stato colpito da un impiegato che giocava con questo videogioco, famosissimo nel suo paese, aspettando il treno dei pendolari e di aver pensato uno stile per il lavoratore contemporaneo del Sol Levante. Lavoratore con futuro incerto anche a quelle lontane latitudini, visto che Takashi gli fornisce un cappotto con strascico che può diventare una tenda canadese o un piumone gigante, paradiso dell'homeless, sotto cui si può anche svernare, difendendosi dal freddo e dagli importuni col gigantesco cappuccio a forma di rostro.
Takashi Nishiyama, Fashion collection of the Year ITS Nine

Commenta Elisa Palomino, braccio destro della stilista Diane von Fürstenberg a New York e componente della giuria: «C'è stata una grandissima evoluzione nelle creazioni per l'uomo, che forse hanno "rubato" un po' a quelle femminili il ruolo principale. La scelta è stata difficile perché non mancano i progetti interessanti. Per quanto riguarda gli accessori, quest'anno sono davvero impressionata, anche grazie all'arrivo in forze dei designer del Royal College di Londra. Mi piace che ci sia uno spettro completo di creazioni; bijoux, scarpe, cappelli, borse...».
Silfidi e mostri non scompongono il sindaco Dipiazza, seduto in prima fila e ormai un habitué di  ITS, che negli ultimi mesi si è dato davvero da fare per aiutare Barbara Franchin & Co. a convincere Regione e Fondazione CrT a contribuire al salvataggio del concorso, seppure ridimensionato negli ospiti e negli allestimenti. Tra il divertito e l'attonito il parterre politico, il vice sindaco Lippi, il modaiolo Rovis e il sempre ingiacchettato Greco, il consigliere regionale Bucci e il segretario del Pd Cosolini, che avranno qualche problema, se mai lo volessero, a trovare spunti e idee per rinfrescare l'armadio della campagna elettorale del prossimo anno. Certo molti di più che Renzo Rosso, il re del denim, perfettamente a suo agio tra i sogni e gli incubi di questi studenti, molti dei quali, scoperti a Trieste, lavorano oggi nel quartier generale della Diesel a Molvena, a intercettare gusti e interessi delle nuove generazioni del pianeta. Tra gli ospiti, la stilista Alessandra Facchinetti, già ai vertici di Gucci e poi, per una stagione succeduta a Valentino nella linea donna, ieri per la prima volta a Trieste tra gli "osservatori" a caccia di talenti.
Questa nona edizione di ITS ci lascerà dunque in eredità solo uomini da scenario post-atomico, al di fuori di qualsiasi tentazione, o gli "elephant men" di Takashi? A riscattare le sorti del "genere", prima del gran finale affidato come sempre alla grinta di Victoria Cabello, con i premi e la passerella invasa da tutti i vincitori, arriva l'impeccabile collezione del vincitore dell'anno scorso, Mason Jung, altro sudcoreano, che si è inventato maschi finalmente in camicia, bianca e sartoriale, sotto lunghe giacche e pantaloni smilzi: una raffinata normalità fatta di impercettibili dettagli come il microsparato, uomini finalmente guardabili e abbordabili, in carne ed ossa e senza una tenda come strascico da sposa.

Mason Jung e la sua sartoriale collezione uomo

Quando ancora la voce di Elisa da piazza Unità invade le Rive, l'astronave dei "fantastic voyagers" decolla da Trieste. Riatterrerà il prossimo anno? Al termine della sfilata Barbara Franchin ha chiamato in pista i principali supporter di ITS, Renzo Rosso con il sindaco Dipiazza e i rappresentanti delle istituzioni che hanno finanziato l'evento. Un video presenta il progetto del decennale, "un evento per la città", con mostre di stilisti e fotografi, retrospettive, laboratori sulla moda e il design, coinvolgimento di università e scuole, gallerie e negozi. Un sogno da un milione e mezzo di euro. Nell'anno delle elezioni, delle promesse, dei tanti da accontentare, meglio che gli esploratori, potrebbe essere questo il tema per il 2011, lascino il posto ai guerrieri.

@boria_a

sabato 17 luglio 2010

ITS TEN a Trieste, ripartire da #

ITS
. Un’anima triestina nell’acronimo inglese. International talent support ma anche la sigla della città. Ricordo la prima conversazione con Barbara Franchin, registrata sul Piccolo del 24 gennaio 2002. Mi spiegava l’idea di nome e logo che già immaginavo poco orecchiabile dal territorio. Un cancelletto color argento per rappresentare la spinta al cambiamento, ma anche l’antica esperienza artigianale della trama e dell’ordito e la piazza planetaria della rete, dove si allacciano contatti, si creano sinergie, volano gli scambi. 


In quell'ITS il suono di Trieste e la rivendicazione di un legame non casuale con il luogo fisico, l’intenzione di non essere un corpo estraneo, calato da fuori, ma di mettere radici nella città di mare e all’epoca ancora di confine, permeabile agli incontri, agli scambi commerciali, alla contaminazione di culture.

Sfida non da poco  e non solo per l’estraneità di Trieste da ogni geografia possibile della moda di oggi. La città, per meteorologia e orografia, non se ne cura, non produce nulla che sia attinente al settore. Sfida su una contraddizione, forse, una delle tante: qui, dove sulle strade tutto è impersonalmente casual-sportivo, dove le griffe ritirano i monomarca e le uniche che si vendono sono quelle facili e urlate, sono nati, fisicamente o per adozione, grandi del made in Italy: Mila Schön, Ottavio Missoni, Raffaella Curiel, Renato Balestra

C’era di che recuperare dal passato, per quegli strani incroci non infrequenti a questa latitudine, su cui, sarà per un perverso coccolarsi nel passato, pare quasi impopolare costruire.
ITS non ha fatto eccezione. Il rapporto con Trieste non è mai nato.  Per dieci anni, la città e il suo acronimo,  si sono guardati con indifferenza, a volte con fastidio. Non chiedere, non aver chiesto a lungo alle casse pubbliche, ha reso il concorso inservibile ai protagonismi. L'intervento di sponsor internazionali ha preteso in cambio un alto tasso di selettività, chiudendo le porte alla partecipazione libera. L’indipendenza economica, nella città dove all’amministrazione si bussa sempre, ha generato sospetto, l’esclusività dell’evento l’ha isolato. 

Ricordo la location sbagliata di ITS Two, in una piazza Unità “suggerita” dallo stesso Comune, che suscitò proteste e surreali raccolte  di firme, a pensarci adesso quasi naif nel salotto buono perennemente ostaggio di palchi e gazebo. Dal Portovecchio all’ex Pescheria la cittadella della moda è “calata” ogni anno sulla città, corpo estraneo, proprio quello che non aveva intenzione di essere.

E oggi? I tagli nei budget dei privati, una volta tanto, sono serviti ad accorciare distanze: ITS cerca appoggi e agganci a Trieste, Trieste e le sue amministrazioni intervengono, sebbene non quanto gli organizzatori si aspettano.
C’è molto da recuperare. Partendo da una domanda: cos'è mancato perchè un evento internazionale, l'unico che la città ha creato ed è riuscita a conservare, scivoli via senza lasciare traccia? Forse bisogna ricominciare da trama e ordito, le parole chiave dell'inizio, per comporre un tessuto dove scuole, università, gallerie, commercianti si sentano parte viva della manifestazione, non spettatori. Aprirsi alla città può aprire altre porte e soprattutto casse.
Trieste non può perdere ITS, ITS non può lasciare Trieste. Questa città così poco di moda è uno dei segreti del suo fascino.
 
@boria_a

giovedì 1 luglio 2010

LA MOSTRA

Trieste rende omaggio a Roberta di Camerino, la "sua" signora Giuliana

La prima retrospettiva sulla "signora Giuliana" e la sua moda sarà a Trieste. Ad appena cinque mesi dalla morte di Roberta di Camerino, al secolo Giuliana Coen, stilista veneziana amatissima in tutto il mondo per le sue borse e i suoi abiti trompe l'oeil, il Museo Revoltella ospita una mostra dedicata ai rapporti tra lo stile di Roberta e l'arte, organizzata dall'assessorato alla Cultura del Comune in collaborazione con il Sixty group, oggi proprietario del marchio e custode del suo archivio storico.


"Roberta di Camerino, la rivoluzione del colore", verrà inaugurata oggi alle 18, alla presenza dell'attuale direttore creativo Wicky Hassan, e resterà aperta fino al 12 dicembre, al quinto piano del museo, negli spazi dedicati alla galleria del Novecento.

Roberta di Camerino a Venezia

Venti abiti, oltre trenta tra ombrelli e foulard, molte immagini, ma soprattutto una sessantina di borse dal 1949 al 1974, tra cui la celeberrima "Bagonghi", ispirata da un nano di circo e passata alle cronache mondane come la "borsa della principessa" Grace Kelly:
è questo il percorso che racconta il segno inconfondibile della "dogaressa", i suoi gusti, le sue intuizioni e rievoca quella stagione della moda in cui il "total look", il vestirsi da capo a piedi affidandosi a una griffe, era segno di distinzione e cultura, non di soldi recenti e spesi in fretta.

Grace Kelly con la "bagonghi"
Un omaggio, quello del Revoltella, che ha un doppio primato: è il primo dalla morte della stilista, avvenuta il 12 maggio scorso all'età di 90 anni ed è il primo in un museo pubblico italiano. Ma la mostra vuole anche sottolineare un particolare e poco conosciuto legame tra Roberta e Trieste.


All'inizio degli anni '70, infatti, nel magazzino Sessanta del Portonuovo, nello stabilimento della "Mearo" (anagramma di "amore", che darà il nome anche alla boutique "R" di piazza della Borsa,) venivano confezionati gli abiti "di Camerino" destinati alla produzione industriale e all'esportazione in tutto il mondo, che si avvantaggiava delle particolari agevolazioni doganali del punto franco.

E proprio qui, grazie alla maestria di un modellista triestino, Amedeo Martinolli, la "signora Giuliana", come voleva essere chiamata dai suoi dipendenti, riuscì a far realizzare l'abito "senza pinces", lo chemisier perfetto che assecondava le forme femminili, seno e fianchi, solo grazie alla tecnica del cartamodello.

Una rivoluzione, come lo era stata quella del trompe l'oeil, il vestito "illustrato", su cui la stilista collocava fantasiosamente tutti i capi che una donna poteva desiderare, con relativi dettagli e accessori, dal bolerino alla cintura, dalla cravatta al taschino. Perfino l'orologio con la catenella, come sulla giacca "L'orologiaio", prodotta a Trieste e dedicata da Giuliana a un amico artigiano che aveva bottega vicino all'atelier di Venezia.


Così, lei stessa, nel 1973, spiegava l'idea del trompe l'oeil: «I tempi erano cambiati, non c'erano più le pazienti fantesche ad abbottonare file di gancetti sul dietro. Il mio vestito sarebbe bastato infilarlo, come una lunga maglia. E ci avrei disegnato sopra tutto quanto, persino l'asola slacciata sulla manica, come usano gli uomini più raffinati».


Far diventare gli abiti tele d'arte e confezionare borsette originali per tinte, assemblaggi e forme, contenitori pieni di personalità, a cominciare dal nome diciascun modello (Bagonghi, certo, ma anche Oklahoma, Marmittone, Aspide, Hyde Park, Brigitte, la preferita da Camilla Cederna per quel borsellino dorato applicato 

all'esterno , che diventa il tema di un "Lato debole", la sua famosa rubrica dicostume) sono intuizioni scritte nel destino e nel gusto di Giuliana Coen, facoltosa signora veneziana costretta ventenne a scappare in Svizzera, insieme al marito e al figlio Ugo neonato, durante le persecuzioni contro gli ebrei.

 La borsa "cicisbeo", a forma di tabacchiera
 

È a Lugano che compra pelle, spago e aghi ricurvi e confeziona per sé il primo secchiello, che piace ed è subito richiesto nella cerchia delle conoscenti. Nel 1945, tornata a Venezia, apre un piccolo laboratorio e sceglie di lanciare le sue creazioni come "Roberta di Camerino", griffe nata dal cognome del marito e dalla canzone preferita "Smoke gets in your eyes" dall'operetta "Roberta", allacciati dal vezzo aristocratico del "di". Quando la giornalista Elsa Robiola su "Bellezza" le dedica due pagine, il successo è conquistato. A striscioline di pelle intrecciate e lavorate a telaio, più tardi nei velluti soprarizzo che Bevilacqua, manifattura esclusiva dei pontefici, tesse alla sola luce di una lampada e al ritmo di quaranta centimetri al giorno, le borse firmate "R" non sono più accessori, anonimi e standardizzati, ma pezzi unici, che calamitano l'attenzione per la loro raffinatezza e originalità.



Giuliana è sconfortata perchè gliele imitano, ma l'amica Coco Chanel, già "taroccatissima", la rincuora: «Ma è meraviglioso! È la prova che vali. Lasciali fare. Comincia a piangere soltanto il giorno in cui non ti copiano più...».

La Bagonghi gira gli Stati Uniti al braccio di una giornalista-arpia come Elsa Maxwell (e che scena quando, alla Mostra del cinema di Venezia, nel 1952, la potente cronista mondana si accorge che l'attrice Eleonora Rossi Drago sfoggia pure lei il "nanetto" e che c'è anche un'altra, anonima signora che ha fatto la stessa scelta...) lo stile della "signora Giuliana" conquista prima il mercato americano, poi quello giapponese. Dallo stabilimento triestino della "Mearo" escono ogni giorno dai quaranta ai sessanta capi: il "Kayuki", il "Ducale", il "College" fanno da battistrada tra i modelli di punta. E, prima che l'avventura imprenditoriale finisca, nel 1975, l'azienda triestina fornirà tutti i capi "R" realizzati industrialmente, quelli di maggior successo in almeno venti varianti di colore.


Nel 1956, per ricevere il Neiman Marcus Award, l'Oscar della moda, Roberta vola a New York e conosce Cecil Beaton, anche lui vincitore per i costumi di "My fair lady", e diventa amica della sua testimonial più famosa, Grace Kelly, che porta la Bagonghi rosa e vinaccia sulla copertina dell'Europeo, nel 1959. Un rapporto, quello con la principessa di Monaco, che la stilista non sfrutta mai dal punto divista mediatico, come quello con Farah Fawcett, "charlie's angel" e fidanzata d'America, che a Venezia viene a rifarsi il guardaroba ed è sua ospite.


La sensibilità per i colori e le loro combinazioni è la cifra dello stile firmato "R", «una vera forma d'arte» secondo Salvador Dalì, che apprezza molto la "signora", al pari di Cecil Beaton e De Chirico, ed è probabilmente quello che la spinge a tentare l'avventura degli abiti. Nel 1980 il Whitney Museum di New York le rende omaggio con la mostra, curata da Vittorio Sgarbi, dei disegni delle sue creazioni tirati in litografie, mentre dieci anni dopo, la galleria Mancini di Pesaro, dedica al cinquantenario della griffe una retrospettiva che è, al tempo stesso, un "manifesto" delle invenzioni di Roberta nelle borse: le forme, che prendono spunto dai bauletti ottocenteschi e dalle valigette di fabbri e dottori, poi le cerniere, diventate brevetti, (una - la vediamo in mostra - ricorda quella delle tabacchiere dei cicisbei), le maniglie e le chiusure ispirate alle decorazioni degli antichi cassettoni e agli ornamenti per le gondole. Preziosismi, ma sempre funzionali, mai inutili.


Il Museo Revoltella s'inserisce dunque nella cerchia ristrettissima di enti che hanno cercato di approfondire la ricerca artistica della "signora Giuliana". E chissà che proprio da Trieste parta una riscoperta "critica" del suo lavoro, in particolare per quanto riguarda le influenze e le citazioni della pittura surrealista, l'esplosione dei colori, gli assemblaggi arditi che richiamano la pop-art. Una riscoperta che, per quanto riguarda il vintage, è in atto da tempo su internet, dove le "stagionate" Caravel, Bagonghi, Micowber fanno ancora le primedonne.


@boria_a

Le altre sono tutte foto della mostra al Museo Revoltella di Trieste del luglio 2010, prima retrospettiva dopo la morte della stilista, il 10 maggio 2010 (foto di Francesco Bruni)

martedì 29 giugno 2010

MODA & MODI: la maglietta della politica

Abbasso la camicia, viva la maglietta. Sotto la giacca, mai più la costrizione dei bottoni ma un ammiccante girocollo che fa più aggiornato e al passo con i tempi. Con un bel po' di ritardo su Berlusconi, che da un paio d'anni ha sdoganato la maglietta in filo di cachmere per le occasioni pubbliche, il trend, si fa per dire, ha preso piede anche tra i politici nostrani. E, con qualche eccezione, prevalentemente tra gli esuberanti rappresentanti del popolo delle libertà.
Libertà, appunto. Una bella inaugurazione vagamente modaiola? Ed ecco il  Nostro di turno sfarfalleggiare tra gli astanti con una t-shirt, tipo maglietta della salute ma nera, che trasmette subito l'idea del "sono uno come voi", alla mano, un po' piacione, un bravo ggiovane che sa stare tra la ggente. Un paio di coppe da consegnare per il classico torneo estivo? E rieccolo, con la sua magliettina scura sotto la giacca sbarazzina, a stringere calorosamente mani, sportivo tra gli sportivi.
È lo stile da gazebo, transitato agli appuntamenti formali. Quando lo adottò Berlusconi, fu tutto un fiorire di interrogativi tra i cultori dello stile: perchè il tradimento della fida cravatta di Marinella e l'esposizione del collo nudo e inerme? Il Cavaliere come Superman? Sprezzante del pericolo estetico, al punto da mostrare la porzione di testa dove il chirurgo estetico nulla ha potuto? La più plateale smentita alle malignità dei comunisti, secondo cui quell'incarnato marrone da Muppet si deve al fondotinta a bordo collo? Un nuovo messaggio agli italiani celato dietro l'esposizione dei cedimenti fisici? Il dubbio è rimasto. E anche una certezza: la maglietta è impietosa, su tutte le parti del corpo. Anche quelle del leader. Non nasconde il collo, ma nemmeno il tronco. Evidenzia le maniglie, si appoggia sulla pancia, si allarga sulle braccia lasciando sfuggire "le tendine" (che non sono una prerogativa femminile...), si incava lì dove dovrebbero esserci i pettorali a gonfiarla e a tenderla. È il capo esclusivo dei palestrati, l'unico che li salva dalla fastidiosa impressione che le loro giacche e camicie stiano per lacerarsi e i bottoni schizzare in orbita.  Allora, perchè mettersela se si ha più dimestichezza con i tempi morti della democrazia in un qualche consesso elettivo che con le sale pesi? Non si sembra più giovani, nè più alla moda, nè più vicini agli elettori, si sembra uno che vuol sembrare più giovane, che vuol far credere di essere alla moda e che si è dimenticato la camicia prima di uscire. Il suggerimento l'ha dato in questi giorni Armani, presentando le sue nuove giacche maschili che tirano sul torace: «la potenza dei pettorali va messa in mostra». Da prendere all'incontrario: chi non li ha, almeno eviti di farci cadere sopra l'occhio.
@boria_a
Berlusconi magliettatoscalia