mercoledì 30 luglio 2014


MODA & MODI
Raffaella Pregara o "delle visioni"



Raffaella Pregara e la sua sposa a Palazzo Vivante di Trieste

Un abito da sposa come un'installazione, che ha richiesto quattro persone per infilare la gonna alla modella. Nelle sale di Palazzo Vivante di Trieste, dove è stato fotografato, quel trionfo di tulle e glitter sembrava in perfetta armonia con la ricchezza di arredi e decori. Una vena di spettacolarità, un filo di esagerazione, è nelle corde di Raffaella Pregara, stilista triestina che all'alta moda è approdata dopo un percorso in apparenza a volute, come qualcuna delle sue gonne. Genitori artisti, laurea in giurisprudenza riposta nel cassetto perchè nei tribunali non si sentiva di casa, qualche esame al Dams di Bologna e poi un master in regia cinematografica e televisiva e la realizzazione di corti e videoclip per complessi musicali. È sul "set" che scopre quanto le piace creare e inventare costumi. E qualcosa del "costume", estroso, bizzarro, a volte maniacalmente ricercato nei dettagli, è rimasto nell'alta moda che Raffaella disegna, prima con la sua griffe "Tolema", oggi col suo nome. Una couture da sera e da occasione, agli antipodi di come la stilista spesso si propone: in nero, trucco marcato, punk rock.
Quando la scelta della moda?
«Ho sempre avuto una passione per l'estetica in generale. Sui set dei video e dei documentari ho cominciato disegnando qualche costume e poi ho fatto per anni la buyer di tessuti, acquisendo una notevole conoscenza in questo settore. Ho un occhio allenato, li riconosco all'istante, senza quasi toccarli. È nata così l'idea di creare la mia griffe, Tolema, con quattordici-quindici capi di prova, proposti in uno showroom di Milano. L'esperimento ha ricevuto consensi ed è stato un incentivo a continuare. Fin dall'inizio, col mio prodotto, ho guardato all'Europa dell'Est e all'Oriente, dove una moda colorata e ricca poteva piacere».
Tolema, perchè? E perchè subito "couture"?
«Per il nome non c'è un motivo particolare. Mi piaceva il suono e non volevo utilizzare il mio, forse per una voglia di nascondermi in qualche modo. La "couture" è nelle mie corde, permette di sbizzarrirsi con tessuti e materiali eccentrici molto più che nel pret-à-porter. Mi piace sperimentare e l'ho fatto anche a mie spese. Credo che tutti i designer attraversino questa fase. Purtroppo oggi i venditori tendono ad abbassare la qualità del prodotto per pagarlo meno. E ormai il mercato è di massa: c'è una nicchia di stilisti che paga tantissimo per avere il massimo della qualità, il resto è indistinto. E il pubblico non è informato su ciò che acquista. Non sa distinguere».
Però lei ha continuato a fare abiti costosi...
«Veramente ho proposto anche collezioni più vicine al pret-à-porter, ma non mi convincevano. Da qui è nata la mia scelta successiva: ho abbandonato le collezioni e ora faccio solo capi unici. Con una metafora edile potremmo dire che sono l'architetto: disegno ma non cucio e quindi non realizzo i miei abiti direttamente, li faccio confezionare in alcuni laboratori del nord Italia».
Lei è molto diversa da quello che disegna, tra il gotico e il punk...
«Non sono statica, ho fatto tutti i passaggi, dal punk a Colazione da Tiffany. Anche nelle mie collezioni, a un certo punto avevo preso una piega "fantascientifica", quasi alla Gareth Pugh, uno stilista che mi piace. Ho ancora cinque-sei capi di questo tipo nel mio magazzino. Poi l'ho persa per strada. Per me un abito è comunque sempre "trasferire" una visione, ho bisogno di contestualizzarlo nel futuro. Quando vedo un cliente riesco di solito a capire in che fase si trova e a "spostarlo" un po' alla volta verso altro, magari più adatto. Mi riesce più facile sugli altri che su di me».
Come nasce un capo unico?
«Di solito ascolto "olisticamente" il cliente, nella sua globalità. Qualcuno arriva già con un modello, con la pubblicità vista su una rivista. La seconda fase è il disegno che realizzo cercando di trovare un equilibrio tra le nostre sensibilità. Per l'acquisto del tessuto mi rivolgo ad aziende italiane e francesi, qualcuna inglese. I tessutai oramai sono decimati, si passa dagli empori ai negozi per l'alta moda. Io scelgo una fascia medio-alta: un pizzo lavorato al telaio è del tutto diverso di quello che si trova nel pret-à-porter, anche se per il cliente che non l'ha mai toccato è difficile capire la differenza. Infine, per la fase della prova, arriva anche un modellista della sartoria».
Resiste la cultura del capo unico?
«Resiste negli abiti da sposa e nell'entourage della cerimonia, o per le occasioni che richiedono un capo personalizzato. Nel sud Italia il mercato è vivace, infatti sto pianificando l'apertura di uno showroom a Roma, che faccia da punto d'appoggio per quest'area. E poi ci sono i clienti dell'est Europa e i mercati della Serbia e del Montenegro, floridi e ancora poco sfruttati».
Con la sua moda così ricca aveva pensato fin dall'inizio al Medio Oriente?
«Per il mio gusto, l'abito lungo è quello che preferisco. Ma è anche vero che i mercati orientali richiedono stoffe opulente, colori accesi, passamanerie pregiate, strass. Ho vestito principesse arabe e posso dire che in tutto il loro mondo anche la vita in casa richiede standard molto alti nell'abbigliamento».
Chi sono le sue clienti?
«Donne giovani, dai venti ai trentacinque anni.
Le hanno mai chiesto di copiare un abito famoso, magari quello da sposa di Kate Middleton?
«Al contrario, cercano la personalizzazione. Non guardano le celebrità, piuttosto l'unicità. E non c'è solo il bianco, ma tutta una gamma di colori pastello. Al sud sono un po' più Biancaneve...».
Un vestito da sposa nasce in modo diverso dagli altri?
«La maggior parte delle clienti arriva con le idee un po' confuse, capita che vogliano cinque abiti diversi in uno. In questi casi faccio un po' la psicologa, consiglio, e lo dico chiaramente se quello che chiedono è fuori strada. Il vero divertimento per me è ottenere il risultato migliore con il materiale e il budget che ho a disposizione. Il massimo è quando la gente dice: "è bello, ma non so perchè". Ecco, il perchè sono i dettagli, un certo tipo di fattura...».
Vende a Trieste?
«Solo il 20-30 per cento della produzione. Qui siamo agli antipodi di quello che vedo in giro per il mondo. Raramente qualche donna mi colpisce. Un po' è la paura di osare, un po' è un certo snobismo che alla fine diventa uniformità. In altre città le donne interagiscono: se vedono qualcosa di bello su un'altra, chiedono, si informano. A Trieste si limitano a guardare, spesso criticano chi è diverso».
Cos'è che la ispira oggi? E in passato?
«Viaggio spesso, mi piace l'etnico non banale, la mescolanza di Oriente e Occidente. Ho attraversato molte fasi, dal minimalismo alla massima opulenza. Sono ciclica, come l'economia. Per questo faccio fatica a seguire il filone unico dellacollezione e preferisco il pezzo unico. Nel momento stesso il cui un abito è finito, sono catturata da qualcosa d'altro».
La sua ricetta di eleganza?
«In alcune donne l'eleganza è innata, si vede fin da quando sono bambine, è un'allure che si porteranno dietro per tutta la vita. Ma eleganti si può anche diventare, purchè si rispetti la propria natura. Credo sia qualcosa di molto vicino alla sobrietà. È, prima di tutto, non copiare».

twitter@boria_a


Un abito di Raffaella Pregara



mercoledì 23 luglio 2014


MODA & MODI
 Severi di famiglia



Francesca Severi


Sua mamma Maria Grazia Severi iniziò come consulente stilistica e come sarta delle signore della Modena bene, prima di fare il grande salto e fondare l'azienda col suo nome. Erano i primi anni '90, la moda correva. E lei, Francesca, cresciuta nell'atelier di una volta, piccoli templi di tessuti e manualità sublimi, appena conclusa la scuola si trovò tra le mani un privilegio e una sfida: il lavoro solido nell'azienda di famiglia e la necessità di guardare più lontano, di misurarsi con la competizione, di crescere. Così, per non essere da meno della tenace fondatrice (che è tuttora in plancia...) lanciò subito una sua linea, meno couture e più dinamica, per una donna giovane e spigliata. Oggi, a oltre vent'anni di distanza, Francesca Severi ha la responsabilità creativa delle tre linee del brand, la Maria Grazia Severi, ricercata e sartoriale, la seconda, la sua, "22 Maggio... a Firenze", e la Severi Darling, per forme morbide. Un paio di mesi fa, l'ultima apertura, il primo monomarca in Friuli Venezia Giulia, uno "shop in shop" nel centro commerciale di Tavagnacco. Dove Francesca ha tagliato il nastro con spumeggiante esuberanza emiliana.
Lei ha fatto l'Istituto Marangoni, quindi ha deciso presto la sua strada...
«L'aria degli abiti, dalla sartoria, dello stile l'ho respirata fin da bambina. Mia mamma ha cominciato con una realtà piccola, artigianale, e io ho sempre vissuto la creazione di un abito su misura. Facevo i vestiti delle bambole con quei tessuti meravigliosi che si usavano una volta e che oggi sarabbero improponibili per il prezzo. Così, dopo il liceo classico, ho scelto l'Istituto Marangoni, che mi è servito molto come base. Poi sono entrata subito in azienda».
Sua mamma l'ha agevolata o avrebbe preferito un'altra professione?
«Mi ha lasciato libera. La scelta è nata da un interesse comune, da uno scambio. Abbiamo sempre creato insieme, anche se a volte ci troviamo su posizioni diverse e diamo giudizi contrastanti sulle stesse cose. Non sono mai scontri sterili, anzi, così ci vengono le buone idee».
Disegna?
«Certo, sono brava, ma mi porta via troppo tempo. Faccio uno schizzo di base e le nostre assistenti lo completano».
Che difficoltà ha incontrato all'inizio?
«Quelle che incontro tuttora. Devo sempre dimostrare qualcosa in più degli altri. Non bastano mai il tempo, la dedizione, la professionalità. È sempre una fatica doppia. All'inizio andavo per le fiere a cercare gli accessori per rifinire i nostri capi. Poi ho lanciato una mia linea, "22 Maggio" e ho cominciato anche a occuparmi dei servizi fotografici e dell'immagine. Oggi ho la completa supervisione artistica».
Quando è nata la griffe, negli anni '90, andava la moda "povera" dei giapponesi. Voi avete fatto una scelta controcorrente. Coraggio o incoscienza?
«Coraggio, certamente. La nostra donna si è evoluta nel tempo, ma rimanendo sempre molto femminile e con un prodotto artigianale nella costruzione e nella qualità dei materiali. I nostri clienti vogliono il "made in Italy". È vero che il mercato in questo momento chiede prodotti più "puliti", meno ricchi, ma noi ci caratterizziamo sempre per lavorazioni particolari, per esempio nella tintura dei tessuti, o per i ricami. Un mestiere di altissimo valore, che purtroppo sta morendo».
Che donna è la vostra?
«Allegra, colorata, anche con qualche chilo in più, perchè non c'è taglia che tolga la femminilità. Diciamo che fa un lifting senza il medico».
È strano allora che Asia Argento sia la vostra testimonial 2013...
«Lei propone la nostra primavera-estate. Prima aveva un'immagine un po' dark, un po' punk, oggi la maternità l'ha addolcita e raffinata. Diro di più: per l'ultima presentazione, abbiamo scelto Nina Moric, che ci ha dato un ottimo riscontro, anche se naturalmente i nostri abiti sono più "casti" rispetto alla sua immagine. Ci piacciono donne forti, che vogliono rinnovarsi».
Perchè la linea che ha fondato si chiama "22 maggio... a Firenze»?
«In realtà non corrisponde a una data nè a un evento particolare. Vogliamo suscitare curiosità e ci siamo riusciti».
Dagli 11 milioni di fatturato nel 2004 ai 27 milioni del 2011: come si fa a crescere in tempi di crisi?
«Siamo stabili anche quest'anno, per fortuna. Facciamo un prodotto coerente, siamo scrupolosi nelle consegne, diamo un buon servizio ai clienti, diciamo che stiamo loro vicino, quasi una sorta di sostegno morale. È una catena: l'unico modo di salvarsi quando l'economia è un dramma».
Vi siete affermati in Medio ed Estremo Oriente. Che cosa piace del vostro stile?
«Riusciamo a vestire in modo adeguato donne formose, come in genere sono in questi paesi. E poi piacciono i nostri dettagli, la ricercatezza, una moda mai "castigante". Noi simboli come la croce e il teschio non potremmo mai utilizzarli...».
Che colore abbinerebbe a ciascuno dei paesi dove vendete?
«Rosso alla Cina, verde all'Ucraina, turchese alla Russia, fucsia all'Azerbajian, azzurro alla Germania, perchè proviamo a ingentilirla, viola alla Francia».
Lei indossa sempre Maria Grazia Severi o cede a qualche tentazione?
«Cedo, cedo, come tutte le donne. Quando vado a Londra a trovare mia figlia e giro per i mercatini, mi piace comprare qualche capo particolare, che poi magari abbino a uno dei nostri o a una borsa, perchè adesso le produciamo».
Un collega che stima e di cui metterebbe i vestiti.
«Gucci e Fendi. Prima non mi convincevano, ma ora li trovo molto attuali e raffinati».
E chi le piacerebbe vestire col suo marchio?
«Kasia Smutniak. Aveva sposato un italiano, ha scelto di vivere nel nostro paese, è una donna molto bella e la stanno lanciando come nuova icona».
Lei ha tre figli: ci sarà una terza generazione per il brand Severi?
«Mia figlia Maria Vittoria ha 19 anni, Umberto 16 e Lorenzo 10. Maria Vittoria sta studiando a Londra, in un anno intermedio tra il liceo e l'Università, soprattutto business e materie economiche. Le piace il marketing, vorrebbe occuparsi dei nuovi mercati piuttosto che delle collezioni».
Cucina?
«Dolci. Ho vissuto con la nonna, perchè mia mamma lavorava tutto il giorno e, com'è nella tradizione emiliana, ho imparato a fare dolci eccezionali e in poco tempo. Quello che mi riesce meglio è la torta di mele. Ma faccio anche una mia particolare pasta e fagioli, con l'aggiunta di mandorle tostate e funghi porcini. Quando ho invitati, è una garanzia di successo».
Un pregio e un difetto di sua mamma.
«È una donna molto costante e ha una testa eclettica. Il suo difetto è l'impulsività».
E lei?
«Sono molto diretta, mentre a volte tacere è una qualità. Il mio pregio è che non porto rancore, le arrabbiature mi passano presto».
Per lei la donna elegante...
«Lo è anche nei momenti informali, nella quotidianità, quando porta i bambini a scuola. È un dettaglio, una postura. Eleganti si nasce».

twitter@boria_a


Bianco e nero firmato Severi

mercoledì 16 luglio 2014

MODA & MODI
Justin Smith, capelli&cappelli



Justin Smith


Con la sua pelle lattea e i capelli rossicci, il sole implacabile di quel luglio triestino del 2007 l'ha marchiato a fuoco. Ma l'ha anche tenuto a battesimo. Da  ITS Six, Justin Smith, cappellaio all'epoca uscito fresco fresco dal Royal College of Art, riparì per Londra con due premi importanti e la promessa di una carriera, diventata tale a tempo record. Le passerelle della London Fashion Week per le sue iperboliche creazioni lanciate con il marchio "J Smith esquire", la nomina a imprenditore dellamoda dell'anno 2010 dal British Council, la collaborazione con grandi brand. E, complice ancora una volta Trieste, l'incontro, avvenuto qui qualche anno dopo, con Fabrizio Talia, con cui ha dato vita alla griffe di couture (es)* Artesanal, che sfila ad Altaroma. «Trieste e la squadra di ITS - racconta - sono stati un'esperienza incredibile, che non dimenticherò mai. Un melting pot eccitante di gente creativa, in uno scenario meraviglioso, davanti al mare. Per me è stato un privilegio e un onore essere finalista e i premi mi hanno aiutato a imparare qualcosa sull'industria dellamoda e a pianificare lo sviluppo della mia carriera. Da quella volta ritorno a Trieste ogni estate nei giorni del concorso. Senza questa visita il mio anno non sarebbe lo stesso».
Dai capelli ai cappelli: tutto inizia dalla testa...
«Sembra proprio che sia così. Ho cominciato facendo il parrucchiere da "Tony & Guy", dove sono diventato insegnante e poi responsabile delle sfilate Avant Guard e degli stili alternativi del salone. Ma dopo un po' ho capito che volevo di più dalla professione di parrucchiere. Ho iniziato a osare, andando oltre i limiti di ciò che si può fare con i capelli, e man mano che questi limiti si facevano sempre meno definiti ho iniziato a sognare "cappelli". L'idea della cappelleria è nata mentre cercavo un modo perchè le forme stessero meglio in equilibrio sulla testa nelle mie sfilate».
Come ha deciso di diventare cappellaio?
«Per la verità, prima come un hobby. Ho fatto un corso per principianti, che poi mi ha portato a un corso medio e poi a uno avanzato. Alla fine sono arrivato al master al Royal College of Art. Non avrei mai creduto di fare un master in vita mia e mi sono goduto ogni momento di questo percorso».
Che cosa ha ispirato la collezione che ha proposto a Trieste?
«Avevo portato alcuni pezzi de "Le Cirque macabre", la collezione che ho prodotto per la mia laurea al Royal College of Art nel 2007, totalmente ispirata a un funerale vittoriano. Ogni cappello era un pezzo particolare utilizzato dalle modelle per la performance che facevano in passerella. È stata una grande sfida creare cappelli per questo tipo di spettacolo, ma a me piacciono le sfide. Il video è su youtube...».
Dopo la scuola, subito l'approdo alla London Fashion Week. Com'è stata questa esperienza?
«Una grande opportunità per mostrare il mio lavoro. Devo dire che sono stato molto fortunato, perchè negli anni ho trovato gente fantastica che mi ha sostenuto. Il mio laboratorio di cappellaio è così cresciuto organicamente, anno dopo anno. Mi piace che si sviluppi in questo modo, che prenda molte direzioni inaspettate. È questo che lo fa funzionare, la libertà».
Da dove comincia quando crea un cappello?
«Dalle prove sulla testa di chi lo indosserà. Il punto di partenza principale è il mio cliente. Naturalmente, se parliamo di una collezione, è un po' diverso, dipende se si tratta solo di una sfilata, o se devo dimostrare fino a che punto posso spingere la mia creatività di cappellaio. Se parliamo di vendite, cerco di creare cappelli molto desiderabili e pratici, qualcosa di cui ti innamori all'istante e che vuoi indossare spesso, in modo che diventi parte della tua identità. È per questo che mi piace "vestire" la testa: dà un grande potere alla persona».
Dice di seguire le tecniche del passato: quali stilisti?
«La mia bisnonna, Iris, era una cappellaia. Ho cominciato guardando lei. Certo, grandi designer come Chanel, Schiaparelli e McQueen sono dei punti di riferimento, ma anche gli artigiani di diversi paesi del mondo, che trasmettono le loro tecniche alle nuove generazioni. In verità non seguo nessuno in particolare, mi piacciono soprattutto il pezzo d'artigianato, la tecnica, qualcosa fatto molto bene e con amore».
Qual è il cappello più strano che ha confezionato?
«L'anno scorso ho creato una grande bombetta di Lego per una cabina telefonica e un gigantesco paio di ali per la statua della Regina Vittoria vicino al ponte di Blackfriars a Londra. Erano entrambi per il Giubileo della regina e per le Olimpiadi, è stato davvero un anno positivo».
Per il Giubileo ha fatto qualcosa di speciale?
«Una piccola collezione di pezzi unici, divertenti e con un che di celebrativo. È stato bello creare con in mente solo divertimento e bellezza. Ho organizzato una vendita, nel mio studio, come faccio di tanto in tanto, e i cappelli hanno trovato spontaneamente il loro proprietario. Ciascuno gironzolava vicino al pezzo che gli piaceva di più e che sapeva gli sarebbe stato bene. Mi gratifica vendere in questo modo».
Che cosa metterebbe in testa alla regina? E a Kate Middleton?
«Beh, non sono un cappellaio convenzionale, mi piacerebbe metterle un po' alla prova... Niente di esagerato, probabilmente qualcosa molto ispirato al vintage. Comincerei incontrandole e poi seguirei i miei sentimenti di pari passo con la personalità del cliente».
Com'è collaborare con stilisti importanti?
«Per me è la stessa cosa incontrare un cliente come parrucchiere o come cappellaio. Il mio lavoro è proporre il cappello dei sogni, che sta bene ed è bello. Ho lavorato con Moschino, con Manish Arora, con Stella McCartney, per citarne alcuni: non è sempre semplice, chiunque sia il tuo interlocutore, ma la sfida mi stimola».
E poi ha creato un proprio brand...
«A Trieste ho incontrato lo stilista Fabrizio Talia. Appena abbiamo iniziato a parlare è scattato qualcosa di magico. Insieme abbiamo fondato (es)* Artesanal, che ha sempre più successo. La collaborazione funziona e dal nostro lavoro si intuisce la gioia che proviamo nel farlo. Certo, non è facile lanciare una griffe, specialmente se punta ai pezzi unici, ma sono convinto che è il modo migliore di lavorare: creare qualcosa senza tempo, eccezionalmente ben confezionato, che speriamo duri più a lungo di me».
Lei ha fatto anche cappelli per portieri d'albergo...
«Per il gruppo Gouman. Per tre giorni sono andato in giro nei loro cinque hotel a Londra. Ho preparato una forma comune e, per ogni albergo, una rifinitura diversa ispirata all'architettura interna dell'edificio. Ogni cappello è fatto a mano sulle misure di ciascun portiere. È stata una faticaccia, ma la collezione è riuscita molto bene ed è stata celebrata con una mostra di cinque anni del mio lavoro al loro bellissimo hotel "Royal Horseguards" a Westminster».
C'è una donna italiana alla quale regalerebbe un suo copricapo?
«Sophia Loren, sono sicuro, sarebbe una splendida musa».
E quello da cui non si separa mai?
«Vado a fasi, al momento non riesco proprio a togliermi un cappello di feltro d'angora leopardato, con le falde arrotolate. Di solito il mio favorito è quello che riesco a "sottrarre" da una collezione o quello che faccio per me, sempre che riesca a trovare il tempo».

twitter@boria_a


Un copricapo con gli ombrellini da happy hour firmato Justin Smith



domenica 13 luglio 2014

L'EDITORIALE

Trieste e ITS, l’isola che seduce i fashionisti

 
Bagnanti a Barcola, nella "pervestita" Trieste (foto di Andrea Lasorte per Il Piccolo)



Tutti gli ospiti di ITS concordano: è bello venire a Trieste perchè è defilata, lontana dalle latitudini obbligate della moda, non scontata. Nella città che d’inverno si rifugia sotto i berretti col pon pon e d’estate sciama verso il mare con la brandina incorporata, dove meteorologia e sport dettano a tutti abiti senza ghiribizzi e fantasie, proprio qui, ai confini dell’impero, e soprattutto del fashion, da dieci anni ogni estate converge il mondo internazionale della moda.
E si sorprende.
Dell’isolamento, prima di tutto, la dannazione degli organizzatori del concorso, come se l’irraggiungibilità fosse per una volta parte di un evento per pochi. Del mix tra rigore asburgico e mollezza balcanica,del profilo aristocratico dei palazzi che convive con i chilometri di pelle srotolati sull’asfalto, dei tempi del lavoro che sconfinano in quelli della vacanza e dettano un passo rilassato, eccitante per i non autoctoni. Del suo essere, Trieste, una tabula rasa della moda,non satura,non estenuata, non stressata, non “ho-visto-già-tutto e niente-mi-sorprende”, insomma un grande libro bianco dove i giovani aspiranti stilisti si sentono liberi di sperimentare, osare, travalicare, e tutti gli altri di osservare senza sentirsi osservati, di partecipare al gioco della creatività fuori dai codici e dai rituali che la moda detta nei suoi luoghi canonici, a New York come a Milano, sterzando oggi per Brasile ed estremo oriente. Perchè la “pervestita” Trieste, che ha partorito grandi stilisti madi moda non produce nemmeno uno spillo, riesce da undici anni a organizzare e ospitare uno dei più importanti concorsi per designer emergenti? È vergine, spiegano gli esterni, può permettersi di essere eccentrica. E ha un antico allenamento a mischiare provenienze e culture.
Per Barbara Franchin, che l’evento l’ha inventatoe consolidato, il segreto è aver cresciuto
ITS come una famiglia. Con dedizione, ma soprattutto con la determinazione di creare una rete dove aziende e giovani incrociano richiesta e offerta, una banca dati con migliaia di nomi, un archivio in evoluzione, un rapporto vivo con le scuole, un tessuto di legami che sono amicizie e affetti ma sanno mettere in moto una macchina economica.
Difendendo la “straordinarietà” del luogo, anche quando le istituzioni pubbliche non hanno collaborato.
“Secluded”, ripetono gli ospiti. Appartata. Qui la moda è davvero “delocalizzata”: e per una volta, questa parola non suona male.

twitter@boria_a



ITS 2014 a Trieste

La notte delle camaleonti e delle bikers


Mika con la sorella Yasmine
Nella notte di Mika e Anita Kravos, sulla passerella di Its 2014 nell'ex Pescheria di Trieste, trionfano due stiliste inglesi. Vince il "Fashion collection of the year" di 15 mila euro e il premio Vogue Talents, la collezione di Katherine Roberts-Wood.
Un modello di Katherine Roberts-Wood
Le sue sono femmine-camaleonti, che si muovono in tessuti doppiati in due colori e tagliati al laser: grigi e rosa, neri e ciclamino, ricordano la pelle di un animale, che può mimetizzarsi o imporsi sugli altri, donna-geco o donna-pavone, seguendo l'istinto. Si aggiudica il Diesel Award di 25mila euro e i sei mesi di stage da Renzo Rosso, Zoe Waters, con le sue bikers total-pelle (eco, of course, come vuole il concorso), in giacche, trench e giubbotti pronti a stendersi, accorciarsi, sovrapporsi grazie a geometrici giochi di zip.

Le bikers della designer Zoe Waters

Il premio di ShowStudio, con la produzione di un film e la vendita dei modelli nella celebre agenzia londinese di Nick Knight, va alla raffinata riedizione dell'uomo d'affari giapponese di Yasuto Kimura, concentrato di senso di responsabilità e divertissement: tutto grigio e nero, con immancabile camicia immacolata su bermuda o pantaloni fluidi, si concede maniche da travet indossate come un accessorio da dandy e giacche che inglobano lo zaino.
Gli uomini di Yasuto Kimura
Le mascherine anti-smog, ossessione far east, coprono l'intera faccia con un gioco di plissè, quasi come in un contemporaneo teatro kabuki. «Un concetto semplice e allo stesso tempo forte», ha commentato a caldo Marie Schuller, filmmaker di ShowStudio. «Questo designer non è andato a fare ricerche, vende abiti di mestiere e ha mostrato se stesso, il suo mondo e come può trasformarlo».
La Camera nazionale della Moda Italiana, con 2.500 euro e un'internship da Trussardi ha scelto invece gli uomini della slovena Natalija Mencej, ispirata dai camionisti "dekotora", che divorano l'asfalto con i loro bestioni decorati maniacalmente di neon e vernici. Mascolinità e sensualità, occidente e oriente, in questa collezione pulita, di giacche reversibili che all'interno riproducono le tracce degli pneumatici, da "driver" aggressivo ma con insospettabili vezzi. Il Fashion special prize di 5 mila euro se l'è aggiudicato l'islandese Anita Hirlekar, maestra di lavorazioni certosine, e il Modateca Award di 3mila euro la tedesca Anna Bornhold, con i suoi teneri maschi in maglioni oversize, un po' rifugio un po' manifesto "green".
Nella passerella finale i riflettori erano puntati tutti su Mika, sorridente e gentile nella front row con l'ambrata sorella Yasmine, nota nel mondo artistico come Dawack. Per due giorni, senza risparmiarsi, la popstar si è concessa alle fan di ogni età, galvanizzate da un passaparola web viralizzato in pochi secondi all'annuncio dell'incursione triestina da giurato. Vicino ai fratelli star, meno note al grande pubblico ma tutt'altro che a rischio di passare inosservate, le "opere d'arte viventi" Eva & Adele, moglie e moglie (convolate, dopo lunghissima convivenza, solo dopo che lui, Eva, è diventato legalmente una lei...) e poi le tante "celeb", alcune ormai di casa: Renzo Rosso col figlio Andrea, il direttore artistico di Diesel Nicola Formichetti, Carla Sozzani, Anna Orsini, "strategic consultant" da 24 anni del British Fashion Council, autentica guru dei talenti, la blogger Susie Bubble (che aveva "fiutato" in anticipo la goriziana Burlina), Consuelo Castiglioni di Marni. E, naturalmente, l'anima di ITS, Barbara Franchin.
Anita Kravos, arrivata in corsa a sostituire la presentatrice "storica" Victoria Cabello, non l'ha fatta rimpiangere. Con tanta grazia teatrale, qualche citazione ispirata, a partire da Sheakespeare e dalla "materia dei sogni", Anita è apparsa in un abito haute couture nero con gonna a palloncino e cinturina bianca, firmato dagli emergenti italiani Co/Te (scelto da lei e non brandizzato dagli sponsor: «Bisogna sostenere i talenti, o no?»), su tacchi ad ago vertiginosi, questi sì griffati Casadei.
Nessun problema per lei, poliglotta, a destreggiarsi nell'obbligato copione dei ringraziamenti a sponsor e autorità, tra gli altri il sindaco Cosolini, la governatrice Serracchiani, il presidente della Provincia Bassa Poropat, vice e assessori.
Dopo i premi, per molti designer il "lucid dream" è diventato vero, tra emozioni e aspettative. E la festa nel salone "incantato" della moda è andata avanti fino a notte fonda.

twitter@boria_a


Anita Kravos presenta ITS 2014

sabato 12 luglio 2014

ITS 2014

Virginia Burlina, fantasmi innamorati

Virginia Burlina

Per la laurea specialistica in giurisprudenza le mancano due esami. Ma quando ha avuto la notizia dell'ammissione alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa, una delle scuole di fashion design più prestigiose d'Europa, Virginia Burlina, 28 anni, goriziana, non ha avuto dubbi. Ha "congelato" il percorso professionale nella legge e ha deciso di misurarsi con i talenti della moda che approdano ad Anversa da tutto il mondo. Adesso, con il master in tasca, promette che concluderà anche l'altra laurea. Intanto si gode la finale di ITS, dov'è l'unica italiana in concorso, e nella nuova sezione "Artwork", varata quest'anno. Un altro piccolo primato: Virginia Burlina è la seconda designer del Friuli Venezia Giulia (e tra i pochi italiani) mai arrivati tra i finalisti nelle tredici edizioni della manifestazione. Sente un po' di pressione?
«Un po' sì, ma sono abituata a quest'esperienza, anche ad Anversa ero l'unica del mio corso. Abbiamo iniziato in due, poi l'altro studente è stato bocciato e sono arrivata sola al Master in Fashion design».
Una stranezza: tra i pochi italiani finalisti a ITS, c'è stato il precedente di Andrea Cammarosano, di Trieste e anche lui allievo ad Anversa...
«Certo, nella mia stessa accademia. Non l'ho conosciuto, ma ne ho sentito parlare a scuola. È un nome...».
Lei era una bambina quando lo Swatch è diventato icona pop. Come l'ha reinterpretato?
«Ci è stato lasciato un approccio molto libero. Restringere il campo all'oggetto in sè sarebbe stato limitativo. Ho cercato di creare una visione. Non ho pensato direttamente all'orologio, ma ho inventato una storia che alla fine si può applicare a qualsiasi oggetto».
E che storia è?
«Proseguendo sulla traccia della mia collezione per il Master, dove raccontavo una vicenda di cuori spezzati, ora m'ispiro a una storia d'amore tra fantasmi. In una stanza è stato lasciato un velo da sposa ricamato da lei, come un souvenir del rapporto. Gli spettatori vedranno un quadro, dove i ricami, eseguiti sul tulle, fluttuano e danno l'idea del fantasma. Ho utilizzato perline di vetro coloratissime, davvero di tutte le tinte e sfumature. Un lavoro impegnativo, ma il risultato si è visto subito ed è stato uno sprone ad andare avanti».
Ma è vero che ha convinto a ricamare tutta la sua famiglia?
«Prima ho imparato io, poi ho praticamente obbligato mia mamma, mia sorella, mia zia. Ho insegnato a tutte la tecnica e loro mi hanno dato una mano fondamentale anche per la collezione di Anversa. In fondo, quando hai imparato bene, si tratta di un'attività ripetitiva. Così io facevo il disegno e sceglievo in linea di massima i colori, e loro andavano avanti secondo la loro sensibilità. Avrei potuto far realizzare il ricamo di perline da una manifattura in India, ma nelle mie creazioni non c'è una trama rigida da seguire, una parte è affidata alla spontaneità. Perchè il bello sta anche nell'irregolarità».
Ci racconti la collezione del Master...
«Si intitola "Lunatica" e si ispira a un'outsider artist, Sir Marguerite, che finì in manicomio dopo essere stata abbandonata sull'altare. Qui cominciò a ricamarsi un abito da sposa con i fili delle lenzuola dell'ospedale. Nella collezione ho cercato di combinare quest'idea del lavoro lento, maniacale, con quello della spontaneità dell'amore. Non ce l'avrei fatta senza l'aiuto della mia famiglia. Per ogni colore c'erano dieci diversi tipi di perline, così ho lasciato libertà a ciascuna di interpretare il disegno».
La rivista Elle l'ha definita "l'orgoglio italiano di Anversa"...
«Mi ha fatto piacere, ma sono molto autocritica. E resto con i piedi per terra».
Lei ha partecipato anche al concorso Mittelmoda di Gorizia. Quindi crede in questa strada...
«L'anno scorso a Mittelmoda ho vinto il premio assoluto per la ricerca e la sperimentazione. Credo che valga la pena provarci per avere l'opportunità di mostrare il proprio lavoro di un anno, piuttosto che tenerlo tutto a impolverarsi in uno stanzino. Già ad Anversa coltiviamo molti "contatti", ma i concorsi ti abituano a spiegare la collezione a una giuria di sconosciuti e a ottenere una critica più obiettiva. Nell'ambiente accademico chi ti giudica ti segue tutto l'anno e sa che cosa ti ha ispirato, mentre, davanti a chi non sa niente di te, il tuo lavoro deve parlare da solo. Anche al Master di Anversa abbiamo una giuria esterna, con il doppio vantaggio di poterti presentare a persone da cui ti farebbe piacere essere notata e di ottenere feedback importanti».
Che cosa si aspetta da ITS?
«Il progetto per la sezione "artwork" non ha niente a che vedere con quanto ho fatto finora, quindi mi aspetto l'opportunità di mostrare il mio porfolio, la mia collezione».
Che critiche ha ricevuto finora?
«Dicono che sono "molto italiana" nella sensibilità per i colori e in un senso dell'eleganza che noi abbiamo insito, e che altri paesi meno».
Se conoscerà Consuelo Castiglioni di Marni, una delle sue stiliste preferite, che cosa le chiederà?
«Un lavoro! Scherzo, le mostrerò il mio, prima di tutto. Mi piacerebbe restare in Italia, ma qui sembra tutto più inaccessibile. Ho un'offerta da Dries Van Noten, ho contatti a Londra e Parigi, ma finora, in Italia, niente».
Come definirebbe il suo stile?
«All'inizio avevo il rifiuto per l'Italia. Poi, quando ti rilassi e cominci a capirti, accetti le tue radici e ne fai un punto di forza. Se cerchi altro, per esempio di imitare le scuole nordiche, ti appiattisci, se valorizzi quello che hai dentro, riesci a creare qualcosa di speciale e unico».
Rifiuto dell'Italia, perchè?
«Quando ho deciso di cambiare il mio corso di studi, ho messo da parte il passato. Però ad Anversa si fa un percorso introspettivo profondo e si ha modo di riscoprirsi».
Che cosa non le piace del mondo della moda?
«Dicono che ad Anversa gli studenti vivono in una "bolla", neanche lontanamente simile al mondo che c'è fuori. Si è protetti e tenuti lontani dalla realtà. Il livello è altissimo e starci dietro è dura, ma non facciamo nemmeno stage per non essere "contaminati". Tutto è proiettato a farci crescere artisticamente. Quelli dell'accademia sono anni magici, quindi non so quasi nulla del mondo esterno. Ma lo scoprirò e sono pronta a tutto».
Il prossimo progetto?
«Il 1° luglio ho incontrato Dries Van Noten, con cui inizio una collaborazione. Poi cercherò uno stage, comincerò dal basso, mi impegno e non mi spaventa. Mi piacerebbe lavorare da Marni, da Prada o da Valentino».

twitter@boria_A

La collezione di Virginia Burlina

domenica 6 luglio 2014

MODA & MODI

Mateja Benedetti, green-couture slovena da tappeto rosso


la stilista slovena  Mateja Benedetti

Può la pelle del salmone, scartata dall'industria alimentare, diventare un abito di alta moda? E riuscite a immaginarvi una celebrity vestita di seta "non violenta"? 

Mateja Benedetti, costumista e stilista slovena, ci ha scommesso: haute couture "sostenibile", che non inquina l'ambiente, ma raffinata e costosa come l'alta moda commerciale senza scrupoli etici. È nata così, un anno fa, "Terra urbana", la sua griffe ecologica. Ricca, sartoriale, piena di dettagli, dove anche il bottone-gioiello è rigorosamente "green", ricavato dal seme delle palme e conosciuto come avorio vegetale.
Tutto, dai materiali ai colori, per finire con la produzione a chilometro zero, "made a Lubiana dal primo taglio all'ultimo punto", è all'insegna del rispetto dell'ambiente. Con un'avvertenza: Mateja non vuole essere trattata come "un brand ecologico", e confinata in quei negozi tristanzuoli, tra abiti a sacco e pantaloni informi. La sua - dice - è a tutti gli effetti alta moda, ma chi la sceglierà, tra gli altri pezzi griffati delle boutique, saprà di aver pagato non solo per firma e taglio, ma anche per l'attenzione al mondo che ci circonda, in ogni stadio del processo produttivo, trasporti compresi.

Un'idea che è piaciuta a una testimonial eccellente, l'attrice slovena Katarina Čas, scelta da Scorsese per "The Wolf of Wall Street", e testimonial della seconda collezione di "Terra urbana".

l'attrice slovena Katarina Cas

Mateja Benedetti, 38 anni, nata a Capodistria, ha alle spalle una solida esperienza come costumista teatrale. Si è laureata in Textile e clothing design alla facoltà di Lubiana (dove oggi insegna), si è specializzata a Utrecht in fashion design e ha lavorato in molte produzioni teatrali e cinematografiche in Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, in Italia al San Carlo di Napoli e al Massimo di Palermo. Tra gli ultimi incarichi, una "Traviata" per lo Staatstheater di Cottbus, in Germania. Nel 2005 presenta la sua "Benedetti Pure Couture", nel 2012 si mette alla prova con un'idea nuova, l'eco-couture firmata "Terra urbana", che vende subito in un negozio multibrand di Lubiana.

Fin dall'inizio il progetto sostenibile è chiaro: «La prima collezione - racconta - è dedicata alle farfalle e utilizza la peace-silk, la seta organica, ricavata da bozzoli che non uccidono la larva ma le consentono di completare la trasformazione. Anche la silhoutte ricorda la farfalla. La seconda - prosegue Mateja - si ispira al lupo bianco, che corre il pericolo di estinguersi per il surriscaldamento del pianeta. Katarina Čas, che la indossa nella campagna promozionale, sembra proprio una lupa bianca, con quegli zigomi alti, importanti, quasi da russa. Entrambe le linee sono ora in uno showroom di Montenapoleone a Milano: tra qualche giorno saprò in quali boutique verranno vendute, dall'agosto prossimo».

Mateja utilizza solo canapa, cotone, sete organiche e lana ecologica, colori a base di acqua che non inquinano, bottoni di avorio vegetale e Swarovski "certificati". «È una vera sfida disegnare un'intera gamma di modelli, da quelli basic, vestiti, pantaloni, camicie e t-shirt, agli abiti da sera e da sposa, ai cappotti», confessa. «C'è innanzitutto la limitazione dei materiali, pizzi e tulle ecologici non esistono. Nelle sete è difficile trovare colori belli, il campo si restringe a due. Fondamentalmente utilizzo il bianco, il nero e il blu. Ora, con la mia collaboratrice grafica, stiamo lavorando ad alcune stampe, che nel campo ecologico sono poco sviluppate».

La collezione primaverile del prossimo anno sarà dedicata al coccodrillo, anch'esso animale da proteggere. Ed è qui che entrerà in gioco la pelle scartata del salmone, che Mateja ri-convertirà in tessuto e borse "rettili". «Sarà un coccodrillo africano cyber-futurista», anticipa. «Sono molto contenta di come è stato accolto il mio progetto. Ci vogliono almeno due anni per capire se un brand avrà successo sul mercato. Per me, tutto è stato molto veloce. Ho presentato personalmente a negozi e showroom e l'idea di un'alta moda ecologica, ma pensata, disegnata e tagliata come quella tradizionale, ha convinto subito».

E adesso, grazie a Katarina Čas, e al successo del film con DiCaprio sui caimani dell'alta finanza, qualche pezzo di questa haute couture verde camminerà sui tappeti rossi del cinema.

twitter@boria_a
Katarina Čas, testimonial di " erra urbana "

mercoledì 2 luglio 2014

IL LIBRO
Irene Cao, sfumature e sbagli

Irene Cao, scrittrice di Caneva (Pordenone)

Questa volta non sarà il fantasma di E.L. James e delle sue sfumature hard-soft con cui doversi misurare. Irene Cao sfida solo se stessa e le trecentocinquantamila copie vendute dall'anno scorso in avanti con la trilogia nazionale (Io ti guardo, Io ti sento, Io ti voglio). Siamo, dunque, alla prova di conferma, sempre edita da Rizzoli, che ha cavalcato al volo il caso letterario dell'insegnante di Caneva, precaria di lettere classiche con tanto di dottorato in storia antica, catapultata l'anno scorso nell'improvvisamente affollato olimpo delle ero-scrittrici. I suoi primi personaggi, Elena, restauratrice di dipinti e Leonardo, chef-star a misura di talent show, hanno funzionato alla grande anche sulla carta stampata, portando il loro amore tormentato e gli amplessi da manuale (senza pinze e manette, però) in buona parte d'Europa e pure oltreoceano.
Dopo una furiosa scrittura, Irene Cao è pronta a fare il bis. L'estate 2014 è quella di Linda, Tommaso e Alessandro, protagonisti della nuova storia, "duologia" questa volta, il cui primo libro, "Per tutti gli sbagli" esce da Rizzoli  pagg. 310, prezzo di lancio 6,90 euro), seguito da "Per tutto l'amore".
Triangolo invece di trilogia? Piuttosto un duello a distanza tra due campioni di maschio, diversi ma uguali nell'essere fatalmente desiderabili, eccitanti, appaganti. In grado di toccare tutti i punti g, fisici e mentali, della "pornolettrice" nascosta in ognuna di noi.

"Le brave ragazze non leggono romanzi", ci ha ammonito nel suo omonimo saggio Francesca Serra, e tantomeno romanzi chick-ero-lit, perchè per perdere la verginità letteraria basta davvero poco, prendere in mano il primo libro e precipitare nella spirale in cui convivono amore a prima vista ed happy end ma soprattutto molto, molto desiderio.
Chi sono dunque i nuovi personaggi che sotto l'ombrellone promettono di regalare un brivido di piacere, con i loro incroci così prevedibili e ineludibili, e forse per questo altrettanto rassicuranti? Lei è Linda, giovane architetto decisamente sopra le righe, vorace di vita, cibo e sesso, storie da una, massimo due notti, alternativa e sicura di sè, al punto - in un momento di precariato e di lavori da tenersi stretti con i denti - da accumulare impunita ritardi, intemperanze e cantargliele pure in faccia al titolare dello studio, che l'ha scelta tra le sue studentesse ancora prima che arrivasse alla laurea. Lui è Tommaso, il suo perfetto opposto, Lord Perfection, un diplomatico di carriera raffinato quanto scultoreo, ricco ça va sans dire, occhi blu tendenti al grigio, che sa di botanica e distingue le rose Fairy Queen e Polianta come il Mr. Grey delle Sfumature suonava il piano e maneggiava la frusta. Di mezzo c'è una villa palladiana zona Montello, che Tommaso ha acquistato per arredarla e viverci con la fidanzata di lungo corso, l'ambrata libanese Nadine, donna-it tutta Armani-Chanel-Ferragamo ed emozioni controllate, sotto cui cova un vulcano di insoddisfazione, pronto a risvegliarsi ma non tra le braccia del legittimo compagno.
L'incontro-scontro tra Linda e Tommaso avviene già a pagina 27, quando il Nostro capisce che quella giovane "luxury interior designer" un po' sbracata nei modi, ma tanto esuberante e vitale da non poter che esserne conquistati, darà il tocco giusto alla asettica perfezione della sua dimora, facendo saltare le linee neoclassiche con pezzi design insieme al suo schema esistenziale di codici e regole. A pagina 195, oltre la metà della storia, siamo alle mutandine di seta umide e alla scoperta di un qualcosa di "duro e fremente" nel giardino d'inverno della dimora, che non è il gambo delle rose Black Baccara.
E il terzo lato, che poi tanto incomodo non è, anzi? Alessandro, fotoreporter idealista a caccia di storie scomode di bambini sfruttati all'altro capo del modo. Amico d'infanzia bello e maudit, spiegazzato ma confortevole, che Linda l'ha iniziata al sesso negli anni del liceo e con tanta, precoce, consapevolezza delle titubanze femminili da portare nella grotta-alcova le candele e "Don't cry" dei Guns 'N Roses. «Quella gran culo della Linda», commenterebbe Kit De Luca, l'amica escort di Pretty Woman, quando anche l'usa e getta, quello, per capirci, "da una notte massimo due", il personal trainer Davide, che è "un metro e novanta di divinità greca", sa muovere la lingua "a ritmo quasi tribale" (e qui, davvero, l'immaginazione fa acrobazie...).




Kit De Luca, l'amica di "Pretty Woman"

Ma non aspettatevi le allegre e disordinate ginnastiche da materasso delle ragazzone di Sex&TheCity, loro sì autentiche e precoci trasgressive, che hanno bucato il piccolo schermo per sei stagioni parlando e immaginando di sesso con più spregiudicatezza e intelligenza dei loro occasionali, o meno, accompagnatori. E che sono finite mestamente in soffitta, quasi travolte dal ridicolo, quando il partner è diventato unico e l'orologio biologico ha cominciato a segnare il tempo del matrimonio e dei bambini.


 
Miranda, Charlotte, Carrie e Samantha in Sex&TheCity


L'ero-soft alla Cao è monogamo, al classico piede in due staffe, e anche più, preferisce l'esclusiva e totalizzante relazione a due, l'incontro sublime tra anime e corpi. E che corpi. Perchè la fortuna dell'affascinante Irene sono state proprio quelle poche paginette di sesso del suo primo romanzo giovanilista, mai dato alle stampe, sufficienti però a convincere la Rizzoli che quanto a copule ardite nell'aspirante scrittrice c'era della stoffa. Gli orgasmi sono così distribuiti con equilibrio ogni tot di pagine, ma quando si tratta di scegliere, il diplomatico Tommaso dà un elegante benservito alla vecchia fiamma e Linda saluta l'avventuroso fotoreporter pronto a cacciarsi in un nuovo guaio. Partiranno insieme per il Portogallo, nuova destinazione diplomatica di lui, ma già s'intuisce che qualcosa non filerà del tutto liscio (può l'intrepida Linda, caratterino a cui la Cao sembra tenere molto, separarsi così su due piedi dal lavoro, dalla casa dei sogni, dall'amato zio gay molto politically correct, per seguire Tommaso, come una qualsiasi "moglie di"? Troppo facile...) e che nel prossimo romanzo bisognerà sudare un po', non solo a letto, per rimettere tutte le tessere a posto.
Anche se l'anno scorso ha già sperimentato l'alto tasso di rischio che si corre quando la penna si infila tra le lenzuola, in questo "Per tutti gli sbagli", Cao va dritta per la sua strada, sfoderando l'armamentario rodato che piacerà allo zoccolo duro di estimatrici e farà annichilire i critici.
Il punto è questo. Secondo i dati di vendita, c'è una maggioranza femminile che sogna con il bronzo di Riace, il metro e ottanta di perfezione, il campione olimpico che sprigiona forza e bellezza, che stupisce quando Linda, la spregiudicata, fa la "scoperta vera": i boxer che lui indossa sono di Derek Rose ("talmente stirati che potrebbe anche uscire la sera con solo quelli addosso senza dare scandalo"). E che non ride leggendo che di un pene si può dire "fatto a regola d'arte", come in un capitolato d'appalto.
Non è più il 1998, non siamo più le ragazzone pre-crisi, inquiete, modaiole, leggiadramente libertine, single o col rimpianto di non esserlo più. Siamo più timide, ripiegate, preoccupate, cerchiamo con foga un braccio al quale appenderci per la vita, per quanto palestrato. Vogliamo che, almeno nei libri, il principe azzurro arrivi subito e sia forte, bello, sempre pronto. Non beviamo più "Cosmo" e il nostro Mr. Big non è crudele e imprendibile, ma si fa dare del tu, così, come uno qualunque, al primo incontro. 

twitter@boria_a


Irene Cao, risposta italiana alle "Sfumature"