lunedì 21 dicembre 2015

 LA MOSTRA

 Viaggio nella mente di un serial killer


Uno di loro è tornato a far parlare di sè in questi giorni, per aver confessato l'omicidio di una giovane donna che potrebbe essere Ylenia Carrisi, la figlia di Albano scomparsa a New Orleans nel '93, di cui non si è saputo più nulla. Così, Keith Hunter Jesperson, il camionista serial killer, che tra il '90 e il '95 ammazzò almeno otto donne negli Stati Uniti, condannato a tre ergastoli, ha il non edificante primato di essere, in contemporanea, protagonista di una mostra “documentaria” e dell'attualità della cronaca. E proprio con lui, Happy Face, così soprannominato per gli smile che disegnava nelle sue lettere ai giornali, potremo ora avere un incontro molto più ravvicinato che dagli articoli di un quotidiano. Nella mostra "Dalla vittima al carnefice", che si apre il 26 dicembre in pieno centro a Jesolo, al Pala Arrex in via Aquileia, sono esposte le testimonianze della sua scrittura: lettere, cartoline alla famiglia, disegni, perfino una macabra, piccola televisione, che teneva nel camion su cui irretiva e adescava le vittime, dove potrebbe essere salita anche Ylenia, raccolta in una stazione di servizio della Florida (www.mostraserialkiller.it).



Keith Hunter Jesperson, il killer Happy Face



L'allestimento, già testato con successo a Londra e qui arricchito dalla sezione dei criminali autoctoni, si propone come un viaggio nei meandri della mente degli assassini degli ultimi trecento anni, una sessantina stranieri, per lo più americani, una dozzina italiani. Accanto a Jesperson, i ritratti di altri celebri serial killer, da Jack lo Squartatore, che nel 1888 lasciò una scia di sangue nel degradato quartiere di Whitechapel a Londra, a Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio, le cui vittime, tra il 1949 e il ’50, finirono in un pentolone con la soda caustica. Da Issey Sagawa, il giovane giapponese studente della Sorbona, che nel 1981 uccise e mangiò almeno sette chili di carne di una compagna di studi, a Jeffrey Lionel Dahmer, l mostro di Milwaukee, necrofilo e cannibale gay, autore di diciassette omicidi tra gli anni ’70 e ’90, nel cui frigo erano stipati i resti delle vittime.
La mostra, ancor prima di aprire i battenti, ha suscitato l'indignazione di alcuni residenti, radunatisi in una pagina Facebook, che hanno trascinato la polemica sulla stampa. È possibile, si chiedono in molti, nel giorno di Santo Stefano, quando le famiglie sciamano placidamente al cinepanettone, mettere sotto i riflettori una pattuglia di trucidi criminali, invitare gli spettatori a farsi un selfie su una sedia elettrica, copia di quella, esposta in mostra, su cui fu giustiziato in Florida il seducente Theodore Robert Bundy, il killer delle studentesse, che negli anni '70 ne uccise e decapitò oltre trenta, stuprandole quando erano ormai in decomposizione?
Gli organizzatori rilanciano. E di argomenti ne hanno, visto che i criminologi sono ogni giorno di casa in tutti i canali tivù, protagonisti dei programmi di cronaca nera, trasformati - complice o il fascino e il look noir - in opinionisti onnipresenti, dispensatori di profili psicologici e sentenze prêt-à-porter. «Nessuna ricostruzione cinematografica nè Gardaland del delitto - ribattono i promotori del Tropicarium Park di Jesolo - l'intento è scientifico, tra criminalistica e criminologia. Il periodo non è opportuno? Ma cos'è ormai che si fa nel momento in cui si può fare?».
Oltre mille metri al piano terra della mostra sono dedicati alle ricostruzioni da CSI, alle scene del crimine vecchie e nuove, con oggetti di tortura appartenuti ai killer, immagini, atti processuali e documenti originali, profili psichiatrici, identikit e, per il pubblico, la possibilità di sperimentare le tecniche della polizia scientifica.
Il primo serial killer italiano è Antonio Boggia (1799-1862), il mostro di Milano, di cui si vedrà la mannaia originale, ma non manca il vampiro della Bergamasca, tale Vincenzo Verzeni, attivo nel 1870, e i casi più recenti che periodicamente la tv rispolvera: il mostro di Firenze Pacciani, il veneto Gianfranco Stevanin, il cui podere, nei primi anni ’90, restituì i corpi di tre donne, mentre altri tre omicidi di prostitute gli sono stati attribuiti, il genovese Maurizio Minghella, che ha sulla coscienza sevizie e omicidio di dieci donne tra il 1996 e il 2001, Donato Bilancia, altro mostro ligure, condannato a tredici ergastoli per aver fatto fuori, negli stessi anni, almeno diciassette persone tra prostitute e bersagli casuali.


 
La mannaia del primo serial killer italiano, Antonio Boggia




 

Si riaprirà idealmente anche il caso di Rina Fort, la donna di Santa Lucia di Budoia (Pordenone), meglio nota come la belva di via San Gregorio, protagonista di uno dei più clamorosi ed efferati delitti dell'Italia del dopoguerra. Nel 1946, a Milano, uccise a sprangate e soffocandoli con cotone imbevuto di ammoniaca, la moglie dell'amante, incinta, e i tre figlioletti. Infine, un mistero irrisolto, un serial killer ancora senza volto, quello delle prostitute di Udine.
Al primo piano dell'area espositiva, invece, sarà allestito, il “museo di arte criminologica” dalla raccolta del collezionista Roberto Paparella. Circa trecento pezzi, tra cui, oltre ad armi di varie epoche, una teca con lo scheletro mummificato di un vampiro, la ricostruzione di una valigia con una vittima fatta a pezzi, e uno strumento di tortura dell'epoca fascista, una sorta di ghigliottina pare utilizzata anche dai titini.


La tremenda scena del delitto in via San Cristoforo a Milano, dove Rina Fort uccise una donna e tre bambini nel 1946




Rina Fort, originaria di Santa Lucia di Budoia (Pordenone)



Gli organizzatori sono gli stessi della mostra dei cadaveri plastinati “Real Bodies” che l'anno scorso, sempre a Jesolo, collezionò grandi numeri, molti svenimenti e titoli di giornale. Allora ci si interrogò non solo sui limiti del voyeurismo necrofilo, ma anche sulla provenienza dei cadaveri. Oggi, a proposito dei pezzi appartenuti ai serial killer, dal Tropicarium rispondono che sono in mano a collezionisti privati e che, all'estero, il loro commercio è perfettamente legale. Anzi, è la stessa amministrazione pubblica a metterli all’asta, perchè sesso, sangue e morte fanno raggiungere cifre impressionanti, non solo di audience.

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sabato 19 dicembre 2015

MODA & MODI

Il balcone di Giulietta in un anello

 
La collezione di Valeria Rossini ispirata a Verona



Amare tanto la propria città da trasformare in gioielli i suoi gioielli. Ponte Pietra, il balcone di Giulietta e Romeo, Piazza Bra, le Arche scaligere, il duomo e le Torricelle sono diventati anelli nella collezione di una designer ventisettenne, la sua prima ad arrivare nei negozi a Vicenza, Trento e Trieste. Valeria Rossini ha in più il pizzico di fortuna delle iniziali appropriate: VR, proprio come la sigla di Verona, il logo con cui firma le sue creazioni. Al gioiello è approdata con un piccolo colpo di sfortuna: un esame fallito al Politecnico di Milano, dove studiava design di moda, la spingono a frequentare il corso di oreficeria di base alla Scuola Orafa Ambrosiana e a scoprire una passione autentica. Il corso di studi cambia in “design del gioiello”, cui aggiunge una specializzazione in gemmologia. Da cinque anni di divide tra queste due anime, quella tecnica di esperta di pietre, quella creativa di disegnatrice di monili.
Ogni sei mesi realizza una produzione nuova, in ottone e argento, che finora ha venduto con un passaparola tra amici. La prima collezione era ispirata ai nastri, “tradotti” in fasce che prendono forme diverse intorno alle dita. Poi il tema mistico, sviluppato attraverso cerchi, triangoli, pentagoni, croci.









Quest’anno l’idea centrale è Verona, i suoi luoghi più celebri, richiamati e ridotti a forme essenziali, pulite, lineari. Un suggerimento, più che una copia. Il balcone si trasforma così in un semplicissimo e lungo rettangolo, le Arche scaligere in una linea sottile che si avvolge fino a formare una punta, Ponte Pietra diventa un unico anello per tre dita, piazza Bra un incrocio di ovali. «Non mi aspettavo di essere così apprezzata - dice Valeria - in fondo la semplicità è difficile da capire».
Gli anelli sono tutti fatti a mano, con la tecnica della “fusione a cera persa”.





Niente stampi, ogni volta il modello di cera viene rifatto da capo. Quindi nessun anello ha le stesse proporzioni e tutti hanno qualche piccolo difetto che li rende esclusivi. «Anche un pezzo molto semplice, e alla portata di tutti, può essere unico. È questo lo spirito», spiega Valeria. E i contenitori seguono la stessa filosofia: scatoline con il logo VR impresso con un timbro, pezzi numerati e il riferimento scritto a mano dalla stessa designer, che crea così un legame speciale con chi sceglie il suo anello.




Le collezioni VR si possono vedere su www.instagram.com/qualcosadicompletamentediverso/ o Facebook: VR-Handcrafted-Jewelry. Oppure, a Trieste, da Bardot in via Madonna del mare (www.bardot. blogspot.com)
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lunedì 7 dicembre 2015

 MODA & MODI

Ljubljana, sette designer in un negozio pop



Le "volpine" di Almira Sadar da sole valgono il viaggio. Sciarpe di tessuti e fantasie diverse da avvolgere intorno al collo come quelle vere di pelo, con tanto di muso, zampe e codina. Accessori auto-ironici, divertenti, animal-friendly, da qualche anno immancabili nelle collezioni della designer slovena, che riassumono il senso delle sue linee: manualità, modernità, un approccio alla moda fresco, facile, ecologico.

 
Le "volpine" firmate Almira Sadar




Sono queste anche le caratteristiche di Made in Slovenija l'iniziativa inaugurata il 7 dicembre a Lubiana, nello spazio pubblico di Mestni trg 15, che rimarrà aperta fino al 31 dicembre, dopo essersi già messa alla prova a Praga e Vienna.
Se andate per mercatini, questo pop up shop, una mostra-mercato a tempo, merita una tappa per curiosare tra le produzioni di sette designer slovene: abbigliamento, borse, cappelli, scarpe, complementi d'arredo per la casa, tovaglieria, che raccontano sette storie diverse su come recuperare le tradizioni tessili e riconvertirle in forme contemporanee. Almira Sadar, Urška e Tomaž Draž, Sanja Grcic, Nataša Peršuh, Neli Štrukelj, Arijana Gadžijev e Petja Zorec, sotto il cappello di SOTO (acronimo di Society for contemporary Slovenian fashion and textile design) hanno deciso di lanciare insieme un vero e proprio brand, garanzia della “slovenità” del disegno e dell'idea ma anche della produzione locale dei pezzi. In sostanza: moda pensata e prodotta in Slovenia, orgogliosamente e modernamente autoctona.
Punto di partenza e filo conduttore tra i sette marchi sono la ricerca di abiti, tagli e motivi decorativi del passato, che vengono smontati e ricostruiti in forme nuove e attuali, così come le antiche tecniche di lavorazione si combinano con la tecnologia. Tutto molto "sostenibile": serie limitate di oggetti e capi, che nascono da un'alleanza tra il designer e l'artigiano o il piccolo produttore.




Draž ripropone l'ultracentenaria lavorazione del pizzo per vestiti e accessori, Firma by Sanja riscrive la silhouette degli abiti tipici, aiutata dal cappellaio Pajk, Almira Sadar crea biancheria per la casa tessuta al telaio, con tagli laser e vecchi ricami riprodotti dalle macchine, Peršuh propone una collezione all'insegna del plissè, la cui tecnica tradizionale è custodita da un'unica artigiana ancora attiva in Slovenia e in questa parte d'Europa. Nelizabeta firma borse "modulari", Petja Zorec rispolvera lavorazioni a maglia a rischio scomparsa dopo la dissoluzione della Jugoslavia.
Una sfida: fare l'upgrade della moda nazionale senza diventare folcloristici. Info: sanja@netsi.si sotosociety@gmail.com

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vedi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2015/12/il-personaggio-almira-sadar-da-lubiana.html

domenica 29 novembre 2015

 IL LIBRO

Il magico potere del colore. Parola di Jean-Gabriel Causse



Sapevate che si fa più sesso in una stanza da letto con le pareti rosse? Che se vi vestite di rosso e fate l’autostop avrete più probabilità di trovare un passaggio in auto, e otterrete mance più generose se siete una cameriera? Non si tratta di sensazioni, ma di esperimenti su cui si esercitano gli studiosi di colori: tra donne vestite con magliette rosse, blu e verdi, gli uomini intervistati rispondono che preferirebbero incontrare le prime e che sarebbero pronti a spendere molti più soldi a un ipotetico appuntamento con loro.
 
Kelly Le Brock in "Woman in red"


Fascino della woman in red? Proprio per niente, perchè messi al corrente dell’obiettivo del sondaggio, i signori si sono detti convinti che il colore eserciti un effetto minimo sulle loro valutazioni. Morale: abbiamo una consapevolezza molto parziale degli effetti che le tinte esercitano su di noi, il che fa del rosso una temibile arma di seduzione.
E non solo nel caso di incontri romantici. Prendete il Taekwondo, dove i combattenti indossano piastroni rossi o blu. Alcuni psicologi dello sport dell’Università di Münster, in Germania, hanno coinvolto quarantadue giudici con una lunga carriera alle spalle, li hanno divisi in due gruppi e hanno fatto vedere a entrambi gli stessi combattimenti, manipolando però al computer una parte dei filmati in modo da invertire i colori dei piastroni. Risultato? Gare identiche, ma i “rossi” hanno ottenuto il 13% in più dei punti rispetto a chi indossava il blu.


 
Taekwondo a Burnaby (Vancouver) nella giornata dedicata a questa disciplina


Lo stesso accade nella lotta greco-romana, dove l’analisi dei risultati dei combattimenti dall’inizio dei Giochi moderni a oggi, prodotta dall’Università di Durham, dimostra che i lottatori vestiti con la tuta rossa hanno prevalso sui blu nel 67 per cento dei casi. Del calcio si è occupata invece l’Università di Plymouth, per dimostrare che il Liverpool, il Manchester United e l’Arsenal, che vestono maglie rosse, hanno vinto trentanove dei sessantanove titoli del campionato dalla fine della seconda guerra mondiale (lo studio è del 2008).
Sono molte le curiosità contenute ne “Lo stupefacente potere dei colori” di Jean-Gabriel Causse, color designer specializzato negli effetti dei colori sulle nostre percezioni e il nostro comportamento. Il volumetto è edito da Ponte alle Grazie (pagg. 198, euro 15,00), casa editrice versata al filone cromatico, che ha in catalogo anche i bei libri su questo tema dello storico e antropologo Michel Pastoureau.
Se il rosso ipnotizza, o in qualche modo condiziona la nostra lucidità, sia nel campo dei sentimenti che nel campo da calcio, il rosa tranquillizza. Alexander Schauss, scienziato che dirige l’American Institute for Biosocial Research, nel 1979 convinse i responsabili del Centro correzionale della Marina americana di Seattle a dipingere di rosa le pareti delle celle (anzi, per ringraziare i comandanti del Centro di questa concessione, straordinaria senza dubbio in un ambiente così “virile”, diede alla tinta i loro nomi, ovvero Baker-Miller pink...). Dopo cinque mesi di esperimenti, si stabilì che bastava un’esposizione di quindici minuti al rosa per ridurre l’aggressività dei detenuti per almeno mezz’ora, effetto che si protraeva per un tempo analogo una volta usciti dalle celle.


Celle dipinte in Baker-Miller pink

Questo rosa ha conquistato un certo numero di adepti per le camere di rilassamento in ambito psichiatrico, si trova sulle pareti delle scuole per bambini iperattivi, in quattro celle per detenuti guardati a vista della prigione di Berna e in due del braccio di massima sicurezza. Schauss sostiene che il rosa dei due comandanti militari «riduce il battito cardiaco, la pressione sanguigna e le pulsazioni. È un colore tranquillizzante che intacca l’energia e abbassa l’aggressività». Effetto calmante anche indotto. Pare infatti che i detenuti siano così allergici a queste “stanze da Barbie”, da restare calmi pur di non doverci finire dentro.
Incrociando psicologia, marketing, arredamento, produttività, desiderio sessuale, apprendimento, con tanto di studi e ricerche di istituti scientifici e atenei in questi campi, Causse, con uno stile ammiccante e leggero, ci guida alla scoperta del magico potere del colore e del suo influsso sulle nostre scelte.
Non è solo questione di moda. Lo schermo del computer blu fa aumentare la creatività (nota a margine: Mark Zuckerberg è daltonico, ecco perchè ha scelto il blu, unico colore che vede correttamente, per Facebook...), ma il blu è anche il colore meno alimentare che esista e, fatta eccezione per qualche caramella o cocktail, non lo si trova in nessun cibo. Viene percepito, però, come un colore efficacemente “detergente”: Procter & Gamble, infatti, dopo aver sottoposto a un certo numero di casalinghe scaglie di sapone assolutamente identiche ma colorate di rosso, verde o blu, scelsero queste ultime per mescolarle alla polvere bianca del loro detersivo, perchè le signore intervistate avevano dichiarato che, mentre le rosse e le gialle erano inefficaci o sciupavano la biancheria, quelle blu lavavano “decisamente meglio”.



L'azzurro c'entra nella scelta di Mark Zuckerberg?
 Percezione e condizionamenti culturali legati ai colori, fanno il resto. Con effetti interessanti soprattutto in campo farmacologico, dove già Paracelso, nel XVI secolo, teorizzava come forma e colore del medicamento potessero suggerire l’organo su cui agiva. Oggi l’industria è attentissima: il colore è fondamentale per unire all’efficacia della molecola il suo effetto placebo (e in questo settore il verde ha un suo riscatto, soprattutto per quanto riguarda i tranquillanti). Anche il packaging delle medicine gioca un suo ruolo, perchè il consumatore collega ai colori caldi delle scatole (rosso, arancione, bruno, blu scuro) una maggiore potenza e rapidità d’azione, soprattutto contro disturbi non gravi che si vuole curare in fretta, come mal di gola o mal di testa, mentre il verde o il giallo sono raccomandati per terapie leggere o omeopatiche.
Insomma, la nostra quotidianità è impastata di colore. E conoscere le proprietà e le influenze delle varie tinte, ci aiuterà a vivere meglio, o quantomeno a essere più consapevoli del perchè agiamo in un certo modo.
Tutto il libro di Causse, però, è percorso da un filo (decisamente) rosso. Colore protagonista sempre, dal piacere al pericolo, dal campo di battaglia a quello di gioco (anche d’azzardo). Per le shopaholic è una vera ossessione. Studi scientifici dimostrano che il rosso esterno è una formidabile attrattiva a entrare in un negozio (mentre gli interni devono essere cromaticamente freddi per predisporci al meglio all’acquisto).

Astuta la soluzione di Uniqlo per il suo flagship store a Parigi, in un palazzo rigorosamente vincolato nel quartiere dell'Opéra: i led rossi sulla scala che conduce al cuore del negozio si vedono da fuori a parecchie decine di metri e fanno da sirena per le fashioniste senza intaccare la facciata del palazzo, veicolando pure messaggi pubblicitari. Naturalmente rossa (o viola) deve essere la cassa. Così non resisteremo ad afferrare un’ultima cosa al volo, proprio prima di pagare...

 
Flagship store Uniqlo nel quartiere dell'Opéra a Parigi


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Leggi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2014/03/il-libro-michel-pastoureau-diabolico.html

http://ariannaboria.blogspot.com/2008/12/il-libro-michel-pastoureau-un-black.html

http://ariannaboria.blogspot.com/2005/03/il-libro.html

domenica 22 novembre 2015

 MODA & MODI

 #madebyenka e Studio Verdesalvia, designer per hobby a quattro mani

Borsa #madebyenka, foulard Studio Verdesalvia

 Due signore di età, professione, città diverse, unite da un interesse comune: il cucito, che coltivano da sempre. Entrambe hanno cominciato, circa un anno fa, confezionando accessori per se stesse o per piccoli regali. Morena, giovane insegnante di Fiume, con un bambino piccolo e la necessità di un contenitore capiente e adatto a ogni ora della giornata, non poteva che darsi alle borse. Silvana, invece, professionista di Trieste, ha scelto le sciarpe e il gusto di cercare e abbinare fantasie, colori e consistenze. Il passaparola tra le amiche ha fatto il resto e gli accessori sono diventati qualcosa di più di un passatempo, una collezione a quattro mani, estiva e invernale, di pochi pezzi unici fatti a mano, presentata una prima volta la scorsa estate, e una seconda nei giorni scorsi, sempre nello spazi Combinè a Trieste.
Niente è casuale, le due artigiane per hobby si conoscono e, pur avendo scelto "griffe" distinte - Morena Oštaric Ravalico realizza borse con l’etichetta #madebyenka, foulard e sciarpe sono firmati Studio Verdesalvia - si propongono insieme, accostando ciascun accessorio, come se fosse nato da un gusto e da una mano unica. Si possono acquistare separatamente, ma abbinati funzionano, si completano.
Le borse #madebyenka, che Morena cuce di notte, quando famiglia e lavoro glielo permettono, sono double-face, con un'ampia pochette interna per tenere chiavi, cellulare, rossetti a portata di mano. «Le facevo, per me, poi le amiche hanno cominciato a chiedermele. È così è nata l'idea», racconta. I materiali che preferisce sono velluti, scamosciati, ecopelle, ma anche vecchi tessuti di recupero, fantasie fiorate anni Settanta, uguali a quelle che utilizzava il nonno tappezziere, in una palette di colori molto discreta, zucca, rosso antico, blu, giallo poco carico o grigio, la stessa che veste lei, perfetta testimonial della sua linea. 

Sciarpa Studio Verdesalvia, borsa double face con tessuto per tappezzeria #madebyenka
Più vasta la scelta dei motivi di sciarpe, foulard, coprispalle di Studio Verdesalvia, che alterna seta, lana leggera, taffetà in motivi cachemire, o con cuori, grandi fiori, righe, pois, intense tinte unite. «Proporre i nostri pezzi insieme è più divertente» dice Silvana, che sorveglia con equilibrio gli abbinamenti più improbabili.
Le borse costano al massimo 70 euro, i foulard hanno prezzi diversi in base al tessuto e alla lunghezza, da 30 a 100 euro. Chi si è perso il pop up shop di Combinè può vederli o acquistarli contattando: ostaric.morena@gmail.com Facebook: madebyenka; studioverdesalvia@gmail.com






Borse double face #madebyenka e foulard Studio Verdesalvia




domenica 15 novembre 2015

 IL LIBRO
Buje come Las Vegas, tutti al casinò di Zdenko


"Brividi su Brazi" di Flavio Furian (Mgs Press)


 Sapete chi ha salvato il Pupkin Kabarett dalla bancarotta? No, non le aziende triestine, cui Alessandro Mizzi e compagni si sono rivolti invano, ma un intraprendente imprenditore di Buje, Zdenko, ”diretore” del casinò itinerante Las Vegas. È successo però, che come contropartita del “ripianamento” dei conti, i comici del Miela hanno dovuto appaltare dieci minuti di palcoscenico, ogni lunedì, a Zdenko, per pubblicizzare lo strampalato cartellone hard del suo locale. E sono stati, letteralmente, “Brividi su brazi”.
S’intitola così l’antologia di fulminanti battute del “diretore”, capelli color carota e giacca da night club jugoslavo anni Sessanta, al secolo Flavio Furian, che la Mgs Press ha raccolto in un volumetto (pagg. 86, euro 9,00) per la gioia dei tanti estimatori e fruitori del ritrovo notturno. Il libro verrà presentato giovedì 19 novembre, alle 18, alla libreria Lovat di Trieste.
Che è locale, ma, appunto, ambulante, in quanto per arrivarci, bisogna di volta in volta chiedere a “donna de edicola Marica”, a mecanico Toyo Zastava”, a “ginecoloco Ginokrauss, a “veterinario Yosko Dulittle”, e, dopo aver pronunciato la corretta parola d’ordine (da “Alza la gamba, Marica” a “Pelinkovac vuol dire fiducia”, passando per un’inevitabile “No Propusnica, no Party!”), calarsi in qualche nascosta botola, lasciarsi fiduciosamente andare su uno scivolo e atterrare nel bel mezzo degli ospiti di Zdenko.
Che vanno dal cantante de Buje, collezionista di provini senza risposta, nome de arte TeddyRemo, alla cugina de Mata Hari, Mata Vilz, che ha cominciato a parlare non sotto le torture più atroci ma a un concerto di Umberto Lupi. Dalle velocissime giustascarpe acrobatiche, due belissime ragazze tutte nude, le Kaligirl, al chitarrista spagnolo transessuale, El Paco de Lucia, al beniamino di casa, LigaBuje, col suo album “Teran e panoce”.


 
Il cabarettista e attore Flavio Furian (www.flaviofurian.it)





Zdenko non è insensibile ai palinsesti televisivi, però ci tiene alla cultura. Ecco allora il talent dedicato alla musica ska, SkaGotTalent, e l’acclamatissimo programma di divulgazione scientifica “Bujager” (ma l’IpoTalamo xe el posto dove che i cavali sposadi fa i sporcellini? o ancora: perchè tuti i omini a semaforo se cava le cagole de naso? Cossa xe introspezione?).
C’è poi il “megalenziol schermo” in grado di soddisfare i gusti di qualsiasi cinefilo e anche un pizzico di solidarietà con la maratona benefica “30 ore per la vita”, dove la sosia di Cicciolina si mette a disposizione di clienti sporcellini generosi.
Insomma, non mancano le attrattive per fare un salto a Buje in compagnia di Zdenko-Furian. Non ultima la degustazione delle ricette del novo cogo istrogreco Yosko Varufalquis, convinto che il suo formaggio sia il più figo di tutti. Quindi, tutti alla cena “FetaTheCool”.

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mercoledì 11 novembre 2015

 IL LIBRO

Alessandro Fullin mette Oberdan in leggings, a Miramare

 
"Oberdan, amor mio!" (Mgs Press) di Alessandro Fullin


Carlotta, Sissi e Guglielmo Oberdan si ritrovano nuovamente nel castello di Miramare. Alessandro Fullin, l’autore e inventore di questo irriverente triangolo familiar-sentimentale in puro dialetto triestino, non poteva permettere che i due amanti restassero lontani, lui in Grecia a combattere per l’indipendenza di quel popolo insieme a Lord Byron, lei, l’imperatrice, riparata di nuovo nel castello della cognata Carlotta, con un biglietto d’addio per l’eroe laconico ma efficace: “Va a remengo”.
E così, dopo “Sissi a Miramar” e “Ritorno a Miramar”, ecco il terzo capitolo di questa piccola cronaca di domesticità asburgica in salsa triestina, “Oberdan, amor mio!” (pagg. 87, euro 9,50), che Fullin manda in libreria ancora una volta con la Mgs Press (www.mgspress.com).
Ritroviamo dunque quel catafalco ingioiellato di Carlotta, costretta a recitare il drammatico “luci e suoni” sulla morte del marito Massimiliano per raccattare quattro soldi per la gestione di un maniero sempre più cadente. Sissi, cui le brame amorose non tolgono nè l’appetito nè una certa propensione etilica, cui indugiava già ai tempi dell’acquavite ungherese. E la fidata serva Ottilia, che, oltre a soddisfare bisogni e desideri delle sue regal padrone, deve pure fare la guida turistica al castello e sollevarsi le “cotole” per mostrare il “patrimonio dell’umanità” se qualcuno non mette mano prontamente al portafoglio.



Alessandro Fullin (a destra), scrittore e attore, nei panni di Ottilia in "Sissi a Miramar" con Marzia Postogna nei panni di Sissi (foto Teatro La Contrada)



Sarà proprio Ottilia a imbattersi, nelle sale di Miramare, in uno strano personaggio in leggings, un Batman “domacio” che altri non è che il rimpatriato Oberdan. “Zercar longhi” in Grecia, per dirla con Ottilia, non è bastato all’audace combattente, che, nei giardini del castello, sta per dare una svolta alla sua vita e “trovar longhi” ancora peggiori di quelli del fronte. Nell’ultimo capitolo della trilogia, infatti, Fullin introduce un altro personaggio, la giovane Gisella, figlia di Sissi, arrivata a Miramare in cerca della madre, che non crede uccisa sul lago di Ginevra per mano dell’anarchico Lucheni, ma piuttosto tornata in quel posto che le piaceva tanto, nel castello a strapiombo su un mare pieno di sardoni.
Complice la caduta nel mezzo metro d’acqua del laghetto dei cigni, che Gisella stava incoconando, e il pronto accorrere in suo aiuto di Oberdan, tra i due scoppia la passione, subito soddisfatta. Ma Sissi si rassegnerà a cedere il suo “Elmo” alla figlia? O il complicato ménage finirà per trascinare Miramare nella tragedia greca?
Non sveliamo il finale, anche perchè - Fullin lo ha anticipato - il terzo libro sarà l’ultimo delle babe Carlotta e Sissi. Almeno fino alla prossima incursione, e invenzione, in triestino.

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Fullin in scena con Ariella Reggio (Carlotta) in "Sissi a Miramar" (foto Teatro La Contrada)


lunedì 9 novembre 2015

 MODA & MODI

Fashion Fast & Furious


Fast è il denominatore comune tra i due argomenti che hanno galvanizzato le cronache modaiole di questi giorni: l’addio (volontario o imposto) di celebri designer a marchi storici e l’assalto ai negozi H&M per la collezione Balmain disegnata da Olivier Rousteing.
È fast-fashion in entrambi i casi, in apparenza opposti: quella che fa scappare i designer, spremendoli nelle tappe forzate delle collezioni, e quella che “democratizza” le griffe, riducendole a misura di grande magazzino.


 
Balmain per H&M secondo Olivier Rousteing



 
Balmain per H&M


 
Balmain per H&M



Il primo ad andarsene è stato Alexander Wang, che ha salutato Balenciaga per tornare oltreoceano a occuparsi del suo marchio. Poi l’adieu a Dior di Raf Simons, in volo verso Los Angeles più o meno con la stessa motivazione. Infine, nei giorni scorsi, la rottura tra Lanvin e il direttore creativo Alber Elbaz, licenziato dalla proprietaria taiwanese per dissidi sulla gestione del marchio. 
Raf Simons ha dichiarato di essere stanco di disegnare in catena di montaggio, con tre settimane appena tra una passerella e l’altra, rivendicando di avere altro nella vita, oltre che sfornare sei collezioni l’anno.
Elbaz è stato più esplicito: partito “couturier”, interprete dei sogni delle donne, si è ritrovato designer+manager, attento a conti e ricavi (soprattutto a far schizzare questi ultimi), poi anche inventore di immagini, all’altezza delle aspettative di Instagram. In sostanza: l’abito deve essere creativo, vendere molto e fare così tanto chiasso sui social da spianare le autostrade virtuali a colpi di like.
Veniamo a Balmain, ultima, in ordine di tempo, tra le grandi griffe sbarcate sugli appendini del colosso svedese H&M. Ispirazione anni ’80 dichiarata per la collezione firmata Rousteing, alla guida della maison fondata da quel Pierre Balmain che fu amico di Dior e vestì intellettuali e attrici, da Gertrude Stein a Marlene Dietrich, e tantissime signore di sangue blu.

Maria Pezzi racconta (nell'atlante degli stilisti di Guido Vergani) che, dopo un gran litigio, Balmain conquistò anche Brigitte Bardot, disegnando l'abito che avrebbe indossato all'incontro con la regina Elisabetta: "modesto" e accollato, come voleva l'etichetta di corte, ma dipinto sul suo seno esplosivo, che B.B., all'epoca in competizione con Marilyn Monroe, non voleva assolutamente castigare (alla faccia dell'etichetta reale).
 
Pierre Balmain (1948)



E Balmain per H&M? Tra la serie tv “Dinasty” dell’epoca che cita, e l’odierna “Empire”, entrambe capolavoro di eccessi, la collezione - bruciata in poche ore dopo file notturne e deliri da accaparramento - è un concentrato di colori strillati e sbrilluccichii, mini ascellari e abitucci da appiccicare al corpo o stritolare col cinturone.

La velocità, di produzione o consumazione, fa sempre male. Se vuol dire gettare i designer in un flipper e sostituirli come cartucce non appena esauriti. Se couture per tutti, equivale a ordinarietà. Non sarebbe meglio tornare slow, per chi fa la moda e chi la compra?
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martedì 3 novembre 2015

L'INTERVISTA

Elvira Seminara: "Le voci nell'armadio sono i nostri vestiti. Sanno tutto di noi"

"Atlante degli abiti smessi" di Elvira Seminara (Einaudi)

Ci sono vestiti impostori, che sono costati tanto ma non hanno portato la fortuna che ci si aspettava da loro. Vestiti liberi e indipendenti, da raccogliere con pazienza e devozione, perchè non sottilizzano fra estate e inverno, basta metterci sopra un golf o uno scialle non temono piogge nè mode. Ci sono vestiti coscienziosi, senza fretta, e vestiti elfi, che non trovi in nessun posto quando li cerchi e poi rispuntano come se niente fosse. E anche i vestiti possono essere sopravvissuti: li guardi e ti chiedi come sono rimasti intatti, senza strappi o smagliature, dopo tutto quello che hanno provato, come non hanno ceduto alla disperazione di chi li ha indossati.
L’armadio di ogni donna è un campionario di stoffe e di varia umanità, è un concentrato di storie, un intreccio di gioie e dolori imprigionati nella tela, custoditi in ogni piega, nascosti nei plissè. Aprendolo, questo armadio, e guardando tutto quello che vi è appeso o riposto, si può parlare a una figlia lontana, darle consigli, confidarle segreti, trasmetterle un’eredità di affetti.

Lo fa Eleonora, la protagonista di “Atlante degli abiti smessi” (Einaudi, pagg. 179, euro 17,00), l’ultimo libro dell’artista e scrittrice Elvira Seminara. Da Parigi, dov’è andata a vivere dopo la fine del suo matrimonio, Eleonora racconta a Corinne, rimasta a Pisa, l’eredità di vestiti che le ha lasciato. Con quali parole? «L’armadio - dice Elvira Seminara - è una metafora, un atlante, una mappa di possibili itinerari esistenziali e sentimentali. La protagonista parte dall’idea di consegnare alla figlia un catalogo di abiti, ma già alla seconda voce, quando le descrive gli “abiti pazzi”, capiamo che le sta trasmettendo qualcos’altro, che si tratta di esperienze, di modalità di vita. E l’antologia diventa “ontologia”».

 
Elvira Seminara




Ma non c’è il rischio che quell’armadio, una volta aperto, non si riesca a chiuderlo più?
«A me è capitato. Sono stata catturata dall’immagine di questo turbinio di vestiti, da un volo di abiti che evadevano e chiedevano di essere raccontati. Perchè i vestiti sono mappe narrative, non oggetti inanimati. Io credo nell’aspetto formativo del vestire, nella reinvenzione dei propri vestiti. Come artista utilizzo materiali di riciclo, creo borse con oggetti di recupero domestico, retine, guanti da cucina, caffettiere, che così vengono riconvertiti e riabilitati. È il pensiero zen, che seguo: le cose hanno una vita propria, non si lasciano, non si sprecano. Con un’espressione bellissima Heidegger ricorda che “bisogna aver cura delle cose”».
Distinzione, questa tra “oggetti” e “cose”, che lei puntualizza.
«Ce lo dice Remo Bodei nel suo libro “La vita delle cose”. Le cose sono gli oggetti che hanno subíto una “transustanziazione”, sono diventati sacri perchè noi li investiamo di relazioni, di affetti. I vestiti hanno questo vissuto addosso, si impregnano dei nostri umori, si strappano, si lacerano, portano dentro i nostri dolori. I vestiti noi li abitiamo, sono “giacimenti”. Anche di gesti, di chi li ha disegnati, tagliati, di chi ha attaccato i bottoni, fatto gli orli... Pensiamo alle metafore lessicali che rimandano al tema dell’abito: diciamo “ha stoffa” di qualcuno che vale, diciamo “tessere una relazione”, “ricucire un rapporto”..., tutto ci rimanda a un mondo con gli altri».
Lei ce l’ha un vestito come gli uccelli di Hitchcock, un vestito-ossessione, che cerca di scacciare ma torna sempre?
«Più che vestiti-ossessione, ho vestiti dell’”impermanenza”, instabili, che non sostano, che spariscono e non li rimpiangi, dimentichi».
E un vestito occhiuto, che butta fuori gli altri per tornare di moda?
«Sì, ne ho un paio che spingono perchè li metta. In ogni armadio di donna ci sono abiti che scendono dalle grucce per essere indossati».
Un passaggio del libro farà sentire in colpa molte: “Ci vuole misericordia coi vestiti. Anche quando è tardi, e sei stanca, non abbandonare il vestito a terra, o sul letto, Allargalo e stendilo con dolcezza”...
«Prima citavo Heidegger, Bodei. E aggiungo Rilke, che parla di “larificazione”. Le cose amate sono i nostri lari. E James Hillman che scrive dell’”anima delle cose”. Oggi manca questo sentimento compassionevole verso le cose, che subiscono il nostro atteggiamento predatorio, la nostra rapacità. La cura attiene a un universo di rispetto sia per le cose in sè sia per il lavoro di chi le ha fatte. È uno dei miei principi di ecologia della mente. La protagonista del libro, Eleonora, torna spesso su questo punto: quanta felicità sprechiamo, quante occasioni. Ho voluto trasmettere il senso della consapevolezza delle relazioni e degli affetti, ma anche dell’ambiente, di quello che ci circonda».


Vestiti impostori, vestiti rabbiosi, vestiti revenants, vestiti dall'alito pesante...

Infatti nell’armadio ci sono i vestiti rabbiosi...
«Che hanno patito alla nascita. Vestiti che appena nati, ancora in forma di stoffa, hanno assorbito dolore, cuciti da mani bambine, o dita di ragazze. I vestiti non sono inanimati come noi immaginiamo. Anche la mia protagonista in un primo tempo, a Parigi, vive una vita riflessa, osserva gli altri, è distaccata. Un po’ alla volta si apre alle relazioni. Questo è il messaggio: non sprechiamole».
Corinne, la figlia alla quale è destinato questo inventario, come l’ha immaginata?
«Sportiva, un po’ trascurata, con pantaloni comodi, scarponcini, una sciarpa intorno al collo, un giubbotto. Non curata nè teatrale come la madre. E infatti quando la vede la critica: dice che solo lei poteva andare in giro con una gardenia di stoffa nei capelli identica a quelle del foulard che indossa».
Esiste un abito che madre e figlia possono condividere?
«Una gonna lunga, di maglia, a righe, che unisce comodità e sportività alla bizzarria, che è estrosa ma domestica. Il loro sarà un ricongiungimento allegro, la cura delle cose le rimetterà insieme».
Come sono i suoi armadi?
«Ne ho alcuni al piano di sotto, in una stanza buia, e quando ci vado sento il bisogno che hanno i vestiti di uscire, la loro fame d’aria. Così apro le ante e li faccio respirare. Quelli che stanno negli armadi al piano di sopra, vicino alla camera da letto, sono più fortunati, hanno voci allegre. I vestiti parlano, chiedono di essere indossati. Se non sono messi da molto tempo sentono un senso di colpa. Così li porto a fare due passi».
O si immalinconiscono.
«Infatti, si macchiano, prendono quel colore giallino, l’eritema da cassetto. Le cose hanno una vita a prescindere da noi, hanno bisogno di ossigeno, di avere il loro spazio. I tessuti sono vivi. Se li lasci chiusi, soffrono».
Cos’ha lasciato fuori da questo atlante?
«I vestiti in quarantena. Quelli che aspettano mogi, spesso piegati in una busta, che li soccorriamo. E gli facciamo dunque l'orlo, o riattacchiamo quel bottone. E finalmente li portiamo in giro».
E i suoi vestiti più cari?
«Quelli che condivido con le mie figlie».

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lunedì 26 ottobre 2015

 MODA & MODI

Quest'ombrello è una borsa, non ci piove 


La materia prima del brand Laploe: ombrelli rotti e abbandonati (ph. da www.laploe.it)


 Il marchio trae in inganno. “Laploe”: vien da chiedersi quale oscura parola straniera nascondano i caratteri grafici stilizzati, con la “o” che sembra un ombrellino da gelato al quale è stato portato via un pezzo. Ecco l’indizio, l’ombrello acciaccato. E anche “Laploe”, basta spostare l’accento, non è la solita solfa esterofila, ma nient’altro che la ploe, pioggia in friulano. A dispetto degli inveterati sospetti di campanile, l’idea di Elisa Barile, designer udinese, e Mike Donadelli, ricercatore universitario veneziano, ex compagni di studio, pare fatta apposta per Trieste. Dopo una giornata di bora e pioggia, lo spettacolo urbano è noto a tutti: scheletri e brandelli di ombrelli infilzati tra le immondizie, relitti della sfida persa contro l’alleanza di vento e acqua. Chi vive da queste parti mette in preventivo di distruggerne una consistente quantità o di andare in giro sotto strane, futuribili incastellature coi ferri storti e scuciti.
Proprio questi relitti sono la materia prima di Elisa e Mike: lui, che viaggia per lavoro dal nord al sud d’Europa, si occupa dell’approvvigionamento della materia prima, lei dello smontaggio e del riassemblaggio. È nata così “Laploe”, una linea di borse, zaini, custodie per iPad realizzata con la tela degli ombrelli rotti. “From a ditched umbrella to a bag”, da un ombrello gettato via a una borsa, e qui sì che l’inglese è utile perchè “Laploe” possa varcare i confini nazionali e andare alla conquista del mercato estero, prima tappa l’Inghilterra.



Operazione numero uno: levare le parti metalliche dell'ombrello rotto (ph. www.laploe.it)

E pensare che nelle loro biografie virtuali i due dicono di amare tanto il mare. Invece, complice un sms scambiato dopo molto tempo, Mike, reduce da un intero mese di pioggia tra la Germania e Venezia, si è ritrovato a sognare l’ombrello indistruttibile, mentre Elisa a pensare cosa fare di quelli distrutti. Ecco allora l’idea, caduta dal cielo. Gli ombrelli rotti vengono smontati, lavati, igienizzati e assemblati con pellami di qualità, anch’essi di recupero: Elisa disegna, cuciono sarte tra il Friuli e il Veneto. Persino l’etichetta è “eco-friendly”, si chiama Laguna e utilizza le alghe veneziane: qui c’è scritto dove e quando l’ombrello è stato sottratto alla strada o riscattato dalle immondizie. “Laploe” ha poi un servizio personalizzato. Basta inviare via mail una foto dell’ombrello che si vuole riconvertire, seguire le istruzioni per smontare la tela dai supporti e aspettare a casa il nuovo accessorio, magari personalizzato con il proprio nome o quello del destinatario del regalo.
L’unico problema per il giovane brand potrebbe essere la siccità e quindi la mancanza di materia prima. Ma nei piani c’è già una app per allargare il business, anche a dispetto del meteo. www.laploe.it

 info@laploe.it

Lo zaino firmato Laploe (ph. wwwlaploe.it)

giovedì 22 ottobre 2015

 IL LIBRO

Nancy Mitford, "Non dirlo ad Alfred"



 
"Non dirlo ad Alfred" di Nancy Mitford (Adelphi)



 Fanny de “L’amore in un clima freddo” non smette di osservare i suoi pari con grazia e umorismo, con penna sorvegliata ma, qua e là, inaspettata e temibile come la lingua di un rettile. Così, chi ha amato le macchinazioni leggiadre, i pettegolezzi e i colpi bassi che animavano i salotti della grande aristocrazia inglese dagli inizi a metà del ’900 - raccontati da Nancy Mitford, la maggiore delle sei figlie di Lord Redesdale, che in quel mondo dorato era nata e cresciuta - vorrà scoprire che cosa accade a Fanny all’ambasciata inglese a Parigi, dove il giovane professore di teologia pastorale con cui ha fatto il colpo di testa di sposarsi, viene inopinatamente catapultato come ambasciatore.
Dai cattedrattici di Oxford (dove era sbrigativamente archiviata nella categoria “mogli”) ai trabocchetti della diplomazia, per la protagonista il salto non sarà facile, a cominciare dall’iniziale, forzata convivenza con l’ex inquilina dell’ambasciata, Lady Leone, che si rifiuta di lasciare il palazzo e continua a ricevere amici e postulanti in attesa di un’uscita di scena degna di una principessa. E con i grattacapi che le dà la giovane segretaria, che civetta e cincischia con tutti i politici parrucconi e gli annoiati sciupafemmine che le capitano sottomano.
In questo “Non dirlo ad Alfred” (pubblicato nel 1949 e ora tradotto da Silvia Pareschi per Adelphi: pagg. 244, euro 18,00), dove Alfred non è altro che lo spaesato neo-ambasciatore, perennemente impegnato in controversie da tavolino con i francesi per qualche isola contesa, Nancy Mitford, alla vigilia degli anni ’50 e di un giro di volta epocale nel secolo, non raggiunge la vetta del libro precedente, dovendo incrociare il territorio che conosce bene, quello dell’arrogante upper class britannica, con l’alba della contestazione giovanile, i primi miti rocchettari e la nascente new age, di cui la investono i quattro figli: Baz avventuratosi in un’improbabile agenzia turistica, David in partenza per l’Oriente con moglie e figlio cinese adottato dal suo maestro zen, e i due più piccoli, Charlie e Fabrice, che scappano da Eton a bordo di una Rolls-Royce.

La nuova era che si affaccia, dove le signorine di sangue blu hanno l’avventatezza di innamorarsi di borghesi cacciatori di dote e anche i nobili sono sfiorati dalla tentazione del lavoro, viene registrata con caustica e umoristica sorpresa da Nancy Mitford, a volte con un velo di malinconia. Il suo mondo fatto di superlativi sta per soccombere al loro peso.
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lunedì 19 ottobre 2015

 LA STAGIONE LIRICA

Don Giovanni a Trieste gioca a sedurre il pubblico con #dongiovanniproject


"Don Giovanni" di Mozart per la regia di Allex Aguilera debutta il 30 ottobre 2015 al Teatro Verdi di Trieste

  Tra eros, seduzione e gioco, il “Don Giovanni” di Mozart debutta a Trieste uscendo dagli spazi dedicati alla lirica. Ballerini, fotografi, artisti, attori saranno protagonisti di una serie di eventi itineranti che farà da “assaggio” alla prima dell’opera, il 30 ottobre al teatro Verdi, in quella che è anche la prima stagione firmata dal nuovo sovrintendente, Stefano Pace. Raccolti sotto il cappello dell’hashtag #dongiovanniproject, con cui il seduttore seriale vuol diventare virale su Facebook, Instagram e Twitter, gli appuntamenti di avvicinamento alla prémiere, pensati per un pubblico trasversale per età e interessi, vanno alla ricerca della modernità di Don Giovanni e della forza, attualità e versatilità del suo personaggio nel nostro immaginario.
Via, dunque, alla maratona il 22 ottobre, quando la tradizionale prolusione, alle 18 al Ridotto del Verdi di Trieste, si svecchia e diventa lezione-spettacolo, affidata al maestro concertatore Gianluigi Gelmetti e al regista Allex Aguilera, al suo esordio in Italia, affiancati dal direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Franco Però e dall’attrice della sua compagnia, Lara Komar. La discussione, moderata dallo stesso sovrintendente Pace, toccherà gli aspetti più controversi del personaggio e le sfide di un’interpretazione che da sempre affascina registi e direttori d’orchestra.
Dress code elegante, naturalmente rosso e nero, per la serata di venerdì 23 ottobre, quando il Verdi cambierà pelle per aprirsi a tutti i tangueri triestini che, dalle 21 alle 2 di mattina, daranno vita a una Gran Milonga organizzata in collaborazione con il Circolo del tango argentino di Trieste. Alle 23.30 il momento clou della nottata, con la ronda di sette coppie di maestri in rappresentanza delle tante scuole triestine: Ubaldo Sincovich e Silvia Galetti, Franco Giombetti e Arianna Starace, Guillermo Berzins e Chiara Angelica, Fabrizio Dodici e Irene Laurenti, Mauro Damiani ed Ester Orlando, Andrea Joschi e Alexandra Lioubova, Pablo Furioso e Federica Moretto interpreteranno, tra i rossi pompeiani degli arredi e sotto i riflettori del teatro, il gioco della seduzione che è l’anima del tango.
Sarà la notte dell’eros quella di sabato 24 ottobre, grazie alla Casa dell’arte (e al sostegno della Fondazione Foreman Casali) che mette in rete otto dei suoi spazi espositivi per ospitare la terza maratona notturna dedicata alla fotografia italiana e internazionale.
Eros e seduzione è il tema del percorso, preceduto, dalle 18.30 alle 20 nel foyer del “Verdi”, da una preview delle immagini in mostra in un intervento di videomapping di Cecilia Donaggio del Gruppo 78, che proietterà su tre elementi del teatro una selezione di “scatti”, con brindisi finale. In ciascuno spazio espositivo ai visitatori verrà consegnato un coupon: chi ne raccoglierà otto riceverà una riduzione del 10% sul biglietto del Don Giovanni (non nella prima serata), sempre che rientri tra i primi dieci visitatori che in quella galleria avranno completato il percorso.
La maratona di fotografia, dalle 20 alle 24, abbraccia la DoubleRoom di via Canova 9, dove la giovane fotografa Nika Furlani presenta il progetto “Rouge” realizzato nell’ex peep-show e oggi Museo erotico Racka di Celje, protagonista il ballerino Gogi Kusic che interpreta l'ambiguità del terzo sesso in pose tra fashion e ritratot. In mostra in questa galleria anche il sadomaso "Escape" di Roberto Peccianti
.

"Rouge" della fotografa Nika Furlani, protagonista Goci Kusic


Il percorso prosegue con l’ironia dell’instagrammer Spherecode al MetroKubo (via dei Capitelli 6563b), con l’eros del primo ’900 nella selezione di immagini dal Museo e dagli Archivi Fratelli Alinari di Firenze allo Studio Tommaseo in via del Monte (via del Monte 2/1) e i classici proposti dalla Scuola del Vedere di via Rittmeyer 18 (primo piano), che presenta il celebre “Female torso with veil” di Herb Ritts accanto a immagini di Enzo Gomba, André Kertész, Tomaž Lunder, Fabio Rinaldi, Jock Sturges.
La caccia alla foto tocca poi Bra11 (via Bramante 11), dove sono esposti gli autoritratti di Patrizia Miliani, che condivide con il pubblico l’esperienza del suo corpo dopo un incidente; EContemporary (via Crispi 28) con le figure femminili nelle stanze d’albergo di “Motel story” di Maurizio Melozzi; LeoLab (via dei Leo 6/a), dove trova spazio il piacere degli occhi e delle papille gustative nel trionfo zuccheroso di “Gnam” del giovane Davide Maria Palusa e infine da LiberArti di piazza Barbacan, con le installazioni fotografiche di Annette Godard e María Sánchez Puyade. Per condividere sui social oltre a #dongiovanniproject è attivo l’hashtag #fotonottetrieste.


 
"Motel story" di Maurizio Melozzi



 
Spherecode, Étude sur l'érotisme



Le tappe di avvicinamento si concludono il 28 ottobre, alle 18, al Cinema Ariston, dove verrà proiettato il film “Juan” (2009), mai distribuito in Italia e liberamente ispirato all’opera di Mozart. Il film, in prima visione regionale, ha un’ambientazione contemporanea e urbana ed è firmato da una figura eclettica e innovativa del teatro europeo, Kasper Holten, che è regista d’opera, scrittore, manager teatrale, e oggi direttore artistico della Royal Opera Company per la Royal Opera House di Londra.
Anche chi andrà all’Ariston o parteciperà alla notte tanguera riceverà un coupon con lo sconto del 10% sul biglietto. Così “Don Giovanni”, passato l’inespugnabile rito della “prima”, cerca di sedurre un nuovo pubblico.

giovedì 15 ottobre 2015

 LA MOSTRA

Fiore de Henriquez, ritorna a Trieste la scultrice intersessuale


Ritratto di Fiore de Henriquez firmato nel 1954 da Felix Fonteyn (Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive Trieste)

 TRIESTE Nell’unica sua opera rifiutata, “Brother and sister”, la sola tornata indietro delle oltre quattromila che realizzò su commissione, ci sono tutte le sue ossessioni. Un maschio molto femminile e una donna molto maschile: due fratelli, il tema del doppio, dell’ambiguità di genere. Chi l’aveva ordinata non si riconobbe in quelle figure così sessualmente poco definite, quasi in transizione tra loro. Così il gesso dipinto rimase all’artista, la scultrice Fiore de Henriquez, e sarà visibile dal 16 ottobre (l’inaugurazione è alle 18.30) alla DoubleRoom arti visive di via Canova 9 a Trieste, dove fino al 29 gennaio è allestita la mostra “In love with clay”, innamorata della creta. È l’omaggio - il primo fotografico-biografico - curato da Massimo Premuda e Dinah Voisin alla sorella di Diego de Henriquez, scultrice di fama internazionale, a undici anni dalla morte avvenuta a Peralta, in provincia di Lucca, nel 2004, quando aveva 84 anni ed era malata da tempo di Alzheimer.
 
Fiore de Henriquez con il fratello Diego a Trieste negli anni '20 (Archivio Fiore de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)


Se quella di Diego, collezionista di cimeli militari al quale è dedicato il Civico museo di guerra per la pace, è una vita esplorata e ben conosciuta a Trieste, pochi giorni fa tornata sotto i riflettori grazie all’ultimo libro di Claudio Magris, quella di Fiore, la sorella di dodici anni più giovane, altrettanto eccentrica e straordinaria, in patria non ha avuto lo stesso riscontro. Strano destino, a dispetto di una fama di scultrice presto ottenuta nel jet set internazionale angloamericano e di una biografia per certi versi molto più interessante e affascinante di quella dell’amato fratello.
Il gesso “Brother and sister” ci mette sulla strada giusta: è la sintesi delle inquietudini dell’artista, del tormento di una natura doppia e insieme unica, che varca la frontiera delle identità.
Fiore era intersessuale. Nacque a Trieste nel 1921, femmina, e da bambina vestita come tale. Nell’adolescenza, però, il suo corpo cominciò a trasformarsi e sviluppò organi genitali maschili. Donna e uomo al tempo stesso, a cavallo tra i ruoli tradizionali di genere, sessi distinti in un’unica persona. Lei, pur giovanissima, non fu sconvolta dalla mutazione, anzi, abbracciò la sua ambiguità come un dono eccezionale e si dichiarò “orgogliosa di essere ermafrodita” e di contenere “due persone in un corpo solo”.


Fiore de Henriquez ritratta da Felix Fonteyn (Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)

 Studiò all’Accademia di Belle arti di Venezia con Arturo Martini, poi scultura in legno a Cortina e scultura in pietra a Firenze con Antonio Berti, di cui diventò assistente. L’intersessualità fu una componente importante della sua scelta artistica: in un mondo dominato dai maschi demiurghi, Fiore si impose per l’energia maschile dello scolpire unita a una sensibilità interpretativa femminile. Un unicum all’epoca scandaloso.
Una cinquantina di fotografie originali, divise in quattro sezioni, provenienti dall’Archivio Fiore de Henriquez di Peralta, di cui è responsabile l’amica inglese Dinah Voisin, e due opere, “Brother and sister”, appunto, e “The hands”, rifusione del 2001 del ritratto delle proprie mani eseguito dalla scultrice nel 1975, “restituiscono” Fiore alla sua Trieste, dove è sepolta nella tomba de Henriquez al cimitero militare.
La prima sezione è proprio dedicata agli anni triestini, con immagini che presentano la residenza della famiglia, “Casa Castagna” in via San Nicolò 2, e poi Fiore nel 1952 accanto a un’amica e a Diego su un treno, con nave da guerra come sfondo, nel campo che il fratello aveva affittato sul colle di San Vito per i suoi pezzi, e ancora, nel 1952, l’artista davanti al liceo Carducci, all’epoca Istituto magistrale governativo. In questo spazio ci sono anche le testimonianze del carteggio con l’amica pittrice Maria Lupieri (messe a disposizione dalla nipote Fulvia), con cui si tenne sempre in contatto. Nell’agenda di Maria c’è l’indirizzo londinese di Fiore e anche nel quaderno dove annotava le persone cui inviare i pieghevoli delle sue mostre, accanto ai recapiti di Leonor Fini a Parigi e di Aurelia Gruber Benco. Nel 1947 Fiore espose le sue opere per la prima volta, sia a Trieste che a Firenze, ma in città se ne parlò poco. Da lì l’oblio, da cui l’ha riscattata finora solo il giornalista e scrittore Roberto Curci nel suo libro “La bora in testa” (2005), celandola sotto lo pseudonimo di Fiore de Torres e raccontando il disvelamento della sua doppia natura sessuale davanti a una modella.


Fiore de Henriquez al lavoro (foto Felix Fonteyn, Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)

 La scultrice lasciò l’Italia nel 1949 per Londra, dopo aver vinto la commissione per un monumento a Salerno e aver visto la sua opera distrutta dai misogini, ma continuò a frequentare Pietrasanta per le fusioni e Carrara per il marmo. Nel 1966 si innamorò di Peralta, borghetto vicino a Camaiore, ne acquistò le poche case e le restaurò personalmente pietra su pietra, trasformandolo in una colonia per artisti di tutto il mondo, che vive tuttora.
Il busto eseguito per il pittore inglese Augustus John fu un impulso decisivo alla sua carriera. Subito ottenne un riconoscimento dalla Royal Academy, per la quale creerà nel 1951 tre figure monumentali destinate al Festival of Britain. Lo studio londinese di Cadogan Square, che Fiore tenne per quarant’anni, divenne meta di celebrità e personalità di sangue blu, prima fra tutti la Regina Madre, di cui realizzò due busti destinati a una nave e a un ospedale. Già nel 1957, a pochi anni dal suo arrivo a Londra, cento personalità dell’arte e della politica inglesi firmarono una richiesta perchè a Fiore fosse concessa la cittadinanza britannica per meriti artistici.


 
Fiore de Henriquez con la Regina Madre d'Inghilterra e il suo ritratto nello studio londinese in Cadogan Square nel 1988 (Archivio Fiore de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive Trieste)




Da allora piovono le commissioni da tutto il mondo. Modella le sembianze di Igor Stravinskij, degli architetti Ieoh Ming Pei e Isamu Noguchi, del primo ministro giapponese Yoshida, del primo sindaco afroamericano di Chicago Harold Washington, del miliardario Huntington Hartford, dell’étoile Margot Fonteyn, degli attori Peter Ustinov, Laurence Olivier, Vivien Leigh, di Oprah Winfrey, Shirley Bassey, della regina americana del gossip Elsa Maxwell e degli italiani Eugenio Montale e Carlo Levi, compagno di vita di Linuccia Saba, conosciuta attraverso la Lupieri.
Nel 1963 ricevette la commissione per un ritratto a John F. Kennedy, che completerà sulla base di foto dopo l’assassinio del presidente. Nel 1992, realizzò un’opera monumentale a Ginevra: una fontana per l’Organizzazione della Proprietà intellettuale delle Nazioni Unite.
Bisessuale ma più orientata verso le donne (a parte una breve relazione col pittore Kurt Kramer nel ’40), Fiore decise a metà degli anni ’60 di sottoporsi a un intervento di “riassegnazione” sessuale, facendosi rimuovere gli organi maschili. Le opere tormentate di quegli anni testimoniano il trauma della scelta. Nel 1985, a Peralta, la scultrice lavorò sulle rovine di una torre e la ricostruì: iniziativa che fu “letta” come una sorta di riconciliazione con l’identità maschile.



Fiore de Henriquez il 28 ottobre 1955 con l'attore Peter Ustinov e il suo ritratto (foto Felix Fonteyn, Archivio Fiore de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)

La mostra “In love with clay” (dal workshop che tenne tra gli anni ’60 e ’70 in America) è corredata dal libro-intervista di Jan Marsh, cui Fiore raccontò il suo ermafroditismo, e dai testi critici di Valentina Fogher, triestina che opera al Museo dei bozzetti di Pietrasanta, e di Roberto Benedetti sull’artista nella scena cittadina. Lunedì 19 ottobre, inoltre, al Teatro dei Fabbri di Trieste e con l’introduzione di Mila Lazic, verranno proiettati i documentari dedicati alla scultrice di Charles Mapleston e John Tully, sottotitolati in italiano.
Nel Derbyshire, in Inghilterra, esiste il museo privato Fiore de Henriquez, di proprietà della facoltosa famiglia Sitwell A. Renishaw, visitato anche dal principe Carlo. A Trieste una sua opera è custodita nel museo del fratello Diego, altre, con tutta probabilità, si trovano in collezioni private. Chissà che, sull’onda di questa prima mostra, anch’esse si “disvelino”.


Fiore con il principe Carlo nel museo privato Fiore de Henriquez nel castello della famiglia Sitwell A. Renishaw nel Derbyshire (Archivio F. de Henriquez Peralta, courtesy DoubleRoom arti visive)