venerdì 30 gennaio 2015

IL LIBRO
 
Dorothy Parker, diari di signore newyorkesi



La copertina del libro edito da Astoria

La New York che descrive Dorothy Parker è la città in cui i lettini degli strizzacervelli non hanno “letteralmente il tempo di raffreddarsi tra un paziente e l’altro”. In cui le signore di animo sensibile, devono sopportare la terribile afflizione di incrociarsi con i mendicanti davanti all’atelier della pellicciaia o della modista, e, a volte e solo se il questuante non è troppo orribile, risolversi a tendergli con delicatezza una moneta, quasi l’abbiano colta da uno stelo d’argento.

La città delle amiche premurose, pronte a correre al capezzale di colei che giace a letto dopo un aborto, assistita solo da una “negra”, e rivelarle - “ma solo perchè un tipo così non ti merita, appena ti ha avuta non ti ha voluta più” - che il fedifrago se la spassa tra teatri e night, implorando un’altra di sposarlo. La New York di Dorothy Parker è la città delle donne sole nelle camerette ammobiliate, appese a un telefono muto, degli sciupafemmine da strapazzo, delle attrici alcolizzate sul viale del tramonto, delle “mamie” nere sepolte sotto montagne di lenzuola bianche, delle padrone di casa che indugiano a lungo davanti agli specchi barocchi delle loro magioni di Park Avenue perchè “là fuori”, sulla strada, ci sono “cose tristi e spiacevoli” per i loro occhi e il loro cuore: ragazze macilente, uomini malconci, facce livide di freddo e l’espressione spenta di chi fa un lavoro massacrante e mal pagato.
 
Undici racconti brevi e fulminanti, alcuni da anni introvabili, firmati dalla giornalista e scrittrice che seppe scavare dentro solitudine e disperazione, mondanità e vacuità, snobismi e paure dell’America borghese tra le due guerre. “Dal diario di una signora di New York” (pagg. 130, euro 13,00), è un delizioso libretto edito da Astoria, per entrare (o rientrare) nel mondo di Dorothy Parker e godere delle descizioni di personaggi e ambienti scolpiti con penna urticante, caustica e mai banalmente solidale.
Nata Rotschild (niente a che fare con i banchieri) nel 1893, Dorothy, rimasta giovanissima orfana e senza parenti, comincia a scrivere per “Vogue” nel 1914 e in seguito prende il posto di P. G. Wodehouse come critica teatrale a Vanity Fair, da cui viene licenziata nel 1920 per la penna tagliente e le recensioni esplicite. 


Nello stesso periodo si separa dal marito, il broker Edwin Pond Parker (di cui mantiene il cognome, scudo all’antisemitismo americano) e comincia a lavorare come freelance. Solidali con “Dot” si dimettono dalla rivista anche i giornalisti Robert Benchley e Robert E. Sherwood, che fondano con lei la “tavola rotonda dell’Algonquin”, dal nome dell’albergo tra la Quinta e la Sesta, a Manhattan, dove pranzano artisti e intellettuali. Quando nel 1925 nasce il “New Yorker”, la Parker diventa una collaboratrice fissa.
 
Intelligente, ironica e autoironica, conosceva bene la materia di cui scriveva: gli amori disordinati (“Uomini che non ho sposato” è un’altra sua celebre raccolta di racconti), gli ambienti scintillanti e vuoti, le delusioni e le convenzioni sociali, la fatica di una donna che sgomita per emanciparsi e ne paga il prezzo con la solitudine, la depressione (tentò tre volte di suicidarsi), l’alcol.

 
Un “Diario” divertente e altrettanto straziante, che registra con precisione scientifica le oscillazioni dell’animo femminile, la sua masochistica abilità di assolversi, illudersi e ingannarsi, soprattutto nella costante ricerca d’amore.

Magistrale è il racconto “Un rospo da ingoiare”, con la dottoressa Langham, guaritrice di anime sul campo, capace di convincere l’abbandonata Maida che non è “un guanto liso o una giarrettiera allentata”, piuttosto una donna paziente e intelligente, in attesa che lo sposo confuso superi la sua indisposizione e torni a casa. Non avverrà, ma la psicologa d’accatto avrà un altro caso clinico con cui rendere irresistibilmente comici i salotti e dare alle signore presenti la rassicurante sensazione di non essere “così fuori di testa, dopotutto”.
 
Dorothy è morta nel ’67, lasciando le sue proprietà alla Fondazione di Martin Luther King. Nel giardino con le sue ceneri, a Baltimora, l’epitaffio suggerito da lei: «Scusate la polvere».
@boria_a

Dorothy Parker, giornalista, scrittrice, poetessa (foto bartlebycafè)

giovedì 29 gennaio 2015

L'INTERVISTA
Stefania Ugomari Di Blas: i miei "7 minuti" con Ottavia Piccolo



Stefania Ugomari Di Blas in "7 minuti" (tutte le foto sono di Ombretta De Martini)
Che diventasse ballerina classica non era scritto nelle stelle. Ma che nella sua vita ci fosse comunque il palcoscenico, sì. Stefania Ugomari Di Blas, trentenne goriziana, è una delle dieci attrici che da venerdì 30 gennaio al 1° febbraio accompagneranno Ottavia Piccolo, al Rossetti di Trieste, in “7 minuti” di Stefano Massini, per la regia di Alessandro Gassmann. L’anno scorso era già stata in cartellone al Politeama, a fianco di Laura Morante e Gigio Alberti, in “The country” di Martin Crimp, per la regia di Roberto Andò.
Tre anni di danza classica, tra gli 11 e i 14, alla Scala di Milano e il sogno di una carriera sulle punte: «Un periodo pesante ma bello. A 14 anni vivevo già per conto mio, in un appartamentino con delle compagne. Quando mi hanno mandato via dalla Scala è stata una batosta. Ma ho detto basta, non ho scelto di andare a Londra, o in Austria e provarci ancora. Ho chiuso».



                                              Stefania Ugomari Di Blas è l'operaia Mirella in "7 minuti"

Liceo linguistico a Gorizia, poi Beni culturali alla Statale di Milano, dove Stefania sente il richiamo del palcoscenico e si iscrive a un corso di teatro. L’assaggio, però, non le basta, e decide di ritornare in regione per frequentare l’accademia “Nico Pepe” di Udine. «A differenza di altre scuole, dove c’è tanta tecnica, si lavora molto su se stessi, senza regole. Anni intensissimi e splendidi».
Il mestiere di attrice lo comincia allo Stabile d’innovazione Out Off di Milano, con Lorenzo Loris, dove, per quattro anni, si misura con Marivaux, Gadda, Ibsen, Goldoni. Poi, due anni di tournée con il testo di Crimp, un successo prodotto dal Teatro stabile dell’Umbria. E oggi, dopo Andò, un altro regista di punta, Alessandro Gassmann, un’attrice iconica come Ottavia Piccolo e un testo dove l’attualità irrompe sulla scena, mettendo undici donne, due impiegate e nove operaie, davanti a una scelta: rinunciare o no a sette minuti di pausa, ai propri diritti, alla dignità del lavoro?


 Il regista Alessandro Gassmann e le attrici in scena
Come ha incontrato Gassmann?
«Ho fatto un provino su parte con lui al “Piccolo” di Milano. Un provino vero, non di quelli in cui non ti guardano neanche. Trenta-quaranta minuti di improvvisazione sui testi che portavamo. Mi sono divertita, Gassmann ci ha messo subito a nostro agio, ci ha spiegato il testo, la scenografia, insomma, ci ha fatto subito entrare nel progetto. È un regista che non ha sbagliato nulla, capisce l’animo degli attori e le loro debolezze. Ha una sensibilità molto profonda ma anche l’energia di un coach da spogliatoio. Ti fa sentire parte di qualcosa di grande. Un pomeriggio, stavo leggendo sul divano, è squillato il telefono: “Pronto, sono Alessandro... Gassmann”. È stato lui a dirmi che mi aveva scelta: uno shock».
Com’è il suo personaggio?
«Sono Mirella, orgogliosamente operaia al reparto tinte, il peggiore. Una donna emotiva, che vive di paure, con difficoltà a esprimersi per un problema di balbuzie. Ma sa ragionare con la sua testa, è una voce fuori dal coro, la prima a esprimere dubbi sul suo voto, a insinuare un dubbio nelle altre, con sofferenza. Mirella dice “voto sì”, ma so che è un “ricatto” dell’azienda, anche se poi va dietro al branco perchè non ha il coraggio di prendere una decisione. Il regista ha concentrato il racconto in una notte, durante la quale le undici donne, nove operaie e due impiegate, discutono e litigano. Alla fine, usciranno dalla fabbrica tutte un po’ diverse, faranno un passaggio di maturità, di consapevolezza».



Ottavia Piccolo, l'operaia Bianca

Perchè si si tratta solo di sette minuti di pausa...
«Infatti. Sembra un nulla, ma moltiplicati per tutte le donne della fabbrica sono seicento ore di lavoro in più. La tematica del tempo è importante: quanto preziosi sono sette minuti per chi ha una pausa di quindici? Bianca, la portavoce, lo spiega: è il primo passo per chiedere altro, la maternità, le ferie... Dopo quei sette minuti sarà tutta una rinuncia».
E le altre?
«C’è un’operaia turca, musulmana, per cui il lavoro è tutto, lo strumento per portare avanti la famiglia. In una scena in cui esce anche un po’ di razzismo, io la investo a parole, le dico che le immigrate si sentono quasi “miracolate” se hanno un lavoro, non pensano ad altro... Un’altra operaia è polacca, un’altra viene dal Mali, probabilmente arrivata coi barconi. È lei che dice alle altre: “voi non avete avuto nulla di cui avere paura e adesso per la prima volta vi trovate questa bestia davanti...”. Ci sono una madre e una figlia... Massimi ha creato uno spaccato del genere femminile, in cui ciascuna può riconoscersi. Non ci sono personaggi positivi o negativi, nessuna ha torto o ragione, tutte hanno le loro fragilità e paure».
Com’è stato lavorare con Ottavia Piccolo?
«Una donna di grande personalità, ma sempre pronta a dare una mano, a farci da guida quando siamo in tournée. Non è scontato. Ottavia Piccolo è una sorta di capocomico ma tra noi si è creata un’amicizia, che è anche la forza dello spettacolo, fatto da tutte, corale. È una grande attrice mai pigra, che non si appoggia a quello che sa già, si mette in gioco».
Ma alla fine la spuntano queste undici donne?
«Massini lascia il dubbio, un voto è decisivo. In realtà ha messo in piedi una macchina potente e coraggiosa per parlare di alcune tematiche importanti, i diritti dei lavori, il lavoro delle donne, lo scontro generazionale. L’impiegata, infatti, dice a Bianca: tu sì che puoi votare contro il taglio dei minuti, stai qua da trent’anni non te la faranno scontare per i prossimi quaranta. Ma per Bianca si tratta di un riscatto personale, è una che da giovane ha fatto tante manifestazioni ma non ha mai vinto una lotta. Quest’ultima non vuole perderla».
Il teatro di Massini è sempre legato all’attualità...
«”7 minuti” è un testo necessario, urgente, che entra nel cuore della gente, lo capiamo dagli applausi finali. E l’abilità dell’autore sta nel reggere l’articolazione di tutte le storie, ma con una scrittura semplice, senza intellettualismi. Parlare di cose attuali è un’esigenza che avverto anch’io, come attrice: prima la molla era la mia emotività, il bisogno di esprimermi, adesso sento l’esigenza di dire qualcosa che avvicini al pubblico. Altrimenti la gente a teatro non viene».
Progetti futuri?
«Con alcune colleghe abbiamo in mente un’idea, un progetto per uscire dall’Italia, magari con i sottotitoli. Mi piacerebbe non essere vincolata alle richieste del mercato, ai provini, ma prendere in mano in prima persona la situazione. E chissà, magari fare anche web series».
@boria_a


Bianca e le altre in lotta per i "7 minuti"

martedì 27 gennaio 2015

L'INTERVISTA

Dimitra Theodossiou: sul Norman Atlantic cantavo le preghiere di Verdi



Il soprano greco Dimitra Theodossiou nel ruolo di Abigaille
Giovedì 29 gennaio, il soprano greco Dimitra Theodossiou, salirà sul palcoscenico del teatro Verdi per interpretare la principessa Abigaille nel “Nabucco” di Verdi, al fianco del protagonista Devid Cecconi.
Gianpaolo Bisanti dirige l'Orchestra e il Coro del teatro Verdi di Trieste
Con Trieste e il suo pubblico, l’artista, grande interprete verdiana, ha un rapporto costante: nel febbraio 2012 è stata Lida ne “La battaglia di Legnano” che debuttò proprio al “Verdi”, nel 2013 Lady Macbeth, in anni più lontani qui ha cantato i ruoli di Odabella in “Attila”, Leonora ne “Il trovatore”, Lina in “Stiffelio”. «Il Verdi è un bellissimo teatro - dice - ti offre un’accoglienza speciale, che altrove non senti. Funziona un po’ come nelle case, la prima volta che ci entri: magari sono belle, ma non sei a tuo agio...».

Neanche un mese fa, il 28 dicembre, Dimitra Theodossiou era a bordo del traghetto Norman Atlantic, andato a fuoco al largo delle coste albanesi. Diciotto ore d’inferno, in mezzo a fiamme, acqua e panico, prima di toccare terra, in salvo. Le vittime accertate del rogo sono undici, imprecisato il numero dei dispersi, tra cui i clandestini a bordo.
Il primo giorno del 2015, Theodossiou era di nuovo in scena, a Rimini, con questo “Nabucco” la cui tournée riparte ora da Trieste.

«Riprenderò mai la nave? Adesso dico di sì - esordisce - poi chissà quando sarà il momento di imbarcarmi davvero... È un trauma che non passa sopra la pelle, che ti si incide nell’anima». E il suo racconto ci riporta a quella notte.
Qual è il ricordo più vivo che le è rimasto?
«Quando ho preso la decisione di chiamare la mia famiglia, per l’addio estremo. Eravamo circondati dal fuoco, ormai l’unico pensiero era: “qui moriamo tutti”. Ho parlato con mio figlio, che ha ventuno anni. È stato il momento più tragico, piangevamo, siamo rimasti tutti e due traumatizzati. Adesso, quando ci sentiamo, quella telefonata salta spesso fuori nella conversazione. Ha cambiato anche la sua, di vita, non solo la mia».
È vero che ha assistito a scene di violenza tra i passeggeri?
«Certo. Io stessa sono stata più volte spinta e trascinata indietro. Il pavimento era scivoloso, pioveva, e anche il vortice d’aria creato dall’elicottero dei soccorsi rendeva quasi impossibile camminare. E in mezzo a tutto questo inferno, c’erano uomini, non europei, che usavano la forza su donne e bambini per mettersi in salvo. Ero terrorizzata che una di queste spinte mi facesse cadere in acqua. Diciotto ore sperimentando che cosa significa vivere con la paura di morire, ma non sapendo in quale minuto sarebbe successo».
A che cosa si è aggrappata?
«Alla fede e alla musica, che è psicoterapeutica. Mi ero congedata dalla mia famiglia, avevo sistemato tutto, non pensavo più di salvarmi anche perchè gli elicotteri caricavano uno cinque persone, l’altro due, e noi eravamo centinaia... Così cantavo e pregavo, pregavo e cantavo, tutte le arie verdiane che amo tantissimo: l’Ave Maria di Desdemona, di Stiffelio, l’Aria dei Lombardi, della Forza del destino».
Ha mai pensato alla sua voce?
«Quando mi sono trovata finalmente sull’elicottero ho pensato per la prima volta alla voce. Avevo respirato freddo, ghiaccio, fumo, ero ipotermica. I rimorchiatori, per spegnere il fuoco, ci avevano rovesciato addosso tonnellate d’acqua, eravamo fradici. Adesso - mi sono detta - arrivo in ospedale e mi rinchiudono per dieci giorni. Invece non ho preso neanche un’infreddatura. Il corpo sotto shock ha reagito con scariche di adrenalina che hanno neutralizzato tutto il resto».
Ha parlato con qualcuno durante quelle ore?
«No, a parte la telefonata a casa, sono rimasta sempre coperta per respirare il meno possibile. Alle 11 di mattina, poi, i telefoni satellitari sono stati chiusi, tutte le comunicazioni con i nostri cari si sono interrotte. C’erano molte persone che, come me, viaggiavano sole, ma in quei momenti, anche in mezzo a tanta gente, sei comunque solo. Gli unici a far gruppo erano i camionisti, che si conoscevano già tra loro. Alle otto di sera, poi, abbiamo perso le speranze. Ci dissero che non sarebbe venuto più nessuno a causa del fumo, del vento e della pioggia. Anche i rimorchiatori non si potevano avvicinare perchè il calore spezzava le corde. Quando ho visto l’elicottero da lontano, erano le 22, le 22.30, mi sono alzata e mi muovevo a fatica, camminavo come un pinguino per arrivare alla scala e raggiungere il punto più alto da cui ci avrebbero imbarcati. Salire è stato tremendo, c’erano due donne dietro a me che mi spingevano. Poi finalmente ho visto il cordone scendere...».
Il primo gennaio, dopo pochi giorni, lei era già in scena...
«È la mia salvezza, la mia forza. Il palcoscenico è magico, mi dà vita. Lì mi sono sentita in salvo. Ero tornata al mio mondo, al mio rifugio».
E, quasi per ironia della sorte, con una guerriera come Abigaille...
«Tutti i personaggi della mia carriera artistica hanno questa caratteristica. Sono anch’io così, guerriera di natura, per questo i ruoli che interpreto risultano veri, credibili. Mi viene da dentro. Il pubblico che mi ha visto subito in scena era stupito, certo, ma lo ero io per prima. Con la nostra intelligenza possiamo analizzare tutto nella vita, ma non ci sono parole per descrivere gli stati d’animo di chi aspetta la morte. Le parole sarebbero banali, solo chi ha vissuto questa situazione può capire che cosa si prova. Poi, ognuno di noi, supererà il trauma in modo diverso, chi con i farmaci, chi con la preghiera, chi con i pensieri, con le proprie risorse. Io ho un’altra forma di comunicazione, sul palcoscenico regalo emozioni e il pubblico sente che non sono artefatte, che sono parte di me».
Si sente cambiata anche come artista?
«No, ma sono io, come persona, che sto evolvendo in modo diverso, è quello che succede dentro di me che cambia. Cambiano alcuni valori, anche nel dosaggio, alcuni principi diventano più profondi. Sono più semplice nelle cose, vado verso il prossimo cammino in modo nuovo».
Che musica ascolta per rilassarsi?
«Classica, ma in realtà ascolto poca musica. Piuttosto leggo o ricamo a punto croce, mi piace tantissimo».
Qual è la prima cosa che ha detto a suo figlio quando ha potuto chiamarlo?
«”Buonasera, sono di nuovo qui con te”. E questa volta piangevo di felicità».
@boria_a

Il Nabucco al "Verdi" di Trieste (foto Parenzan)

giovedì 22 gennaio 2015

IL LIBRO

Susan Abulhawa, una saga familiare tra sangue e ulivi a Jenin


«La Palestina riemergeva dal profondo nel cuore stesso della mia nuova vita, senza preavviso. A lezione, al bar, mentre passeggiavo per la città. Improvvisamente, i salici piangenti di Rittenhouse Square si trasformavano nei fichi di Jenin e si abbassavano per offrirmi i loro frutti. Era un richiamo insistente, che gridava fin dalle cellule del mio corpo, riportandomi a me stessa. Poi sprofondava di nuovo in uno stato di latenza».
Amy studia all’Università di Philadelphia, ha accorciato il suo nome, l’ha americanizzato, ha scelto una nuova patria, ha sepolto dentro di sè un’infanzia di morti, sangue, strappi familiari, il soffio di un proiettile che le si è tatuato sulla pelle. Ma basta una telefonata dal Libano del fratello Yussef, attivista dell’Olp, che le annuncia la nascita del primo nipotino, basta sentir pronunciare ancora il suo nome arabo, Amal, perchè il passato riemerga con la violenza dei suoni, dei profumi, degli affetti, di una terra, la Palestina, mai dimenticata.


È “Ogni mattina a Jenin”, il bestseller di Susan Abulhawa (tradotto in ventidue paesi e giunto alla quarta edizione con Feltrinelli nell’aprile scorso; pagg. 388, euro 10,00), che verrà presentato venerdì 23 gennaio, alle 17.30, alla libreria Lovat. L’autrice, dopo l'introduzione di Nada Pretnar e Ada Scrignari, parteciperà al dibattito in teleconferenza dagli Stati Uniti, dove si è laureata in biologia è ha fatto una brillante carriera universitaria. A conversare con Abulhawa sarà un’altra scrittrice palestinese e di origini triestine, Widad Tamimi, mentre le atmosfere del romanzo rivivranno nella voce di Barbara Sinicco, sulle note dell’oud di Marko Korosec e con l’assaggio di zaatar, una spezia tradizionale palestinese, che sarà offerta ai presenti.


 La scrittrice palestinese Susan Abulhawa
La storia di Susan Abulhawa si intreccia a quella della sua protagonista, Amal, anche se sugli elementi autobiografici prevale l’invenzione letteraria. «Non è possibile esplorare nuovi orizzonti con un libro di memorie», dice. «Ma non solo. Esplorare la vita degli altri mi risulta più semplice che indagare nella mia. Dall’esterno è possibile vedere ciò che all’interno non si vede».
Nata nel 1970 in Kuwait, da una famiglia palestinese in fuga dopo la Guerra dei Sei Giorni, Susan si è trasferita da piccolissima negli Usa, per poi tornare in Kuwait a cinque anni. A dieci è a Gerusalemme, dove trascorre tre anni in orfanotrofio, proprio come Amal, per poi rientrare in America. E, come fa dire alla protagonista nel libro, pur tra privazioni e fame, quel periodo rimane tra i ricordi più felici dell’infanzia. «La mia famiglia - racconta Susan - è originaria del Monte degli Ulivi a Gerusalemme, così per me è stata l’occasione per scoprire le mie radici e conoscere le strade della città. Qualcosa che sembra scontato, ma che alla maggior parte dei profughi palestinesi non è concesso».
“Ogni mattina a Jenin” fu pubblicato nel 2006 con il titolo “La cicatrice di David”. Abulhawa fu tra i primi osservatori internazionali ad arrivare nel campo profughi di Jenin, dopo l’intervento militare israeliano nel 2002, e lo shock che provò in quelle ore, il dolore e lo sconvolgimento, la spinsero a cercare una forma di racconto che non fosse il saggio.



Una veduta dall'alto del campo profughi di Jenin da Google Earth


Nasce così la storia della famiglia Abulheja, il cui patriarca Yehya viene ammazzato, nel 1948, stringendo in mano i fichi e le olive che quaranta generazioni di antenati avevano coltivato su quella terra. Dopo la sua uccisione da parte di un colono israeliano, i profughi di Jenin - disprezzati “senza patria” anche per gli altri palestinesi delle città della Cisgiordania ancora arabe - reagiscono, costruiscono scuole, nuove moschee: «Se dobbiamo essere profughi, non vivremo come cani».
Dalla metà del secolo scorso, il racconto degli Abulheja si dipana fino ai giorni nostri tra Gerusalemme, Beirut e Philadelphia, seguendo vite e destini dei figli e nipoti di Yehya lungo i sessant’anni del conflitto israeliano-palestinese. Compreso quel fratello che Amal non ha mai conosciuto, Isma’il, il piccolo con la cicatrice intorno all’occhio, strappato neonato dalle braccia della madre e cresciuto come David da nuovi genitori israeliani.
Un flusso narrativo potente e avvincente, che si concentra sulle piccole storie sradicate dalla grande storia. Ma anche, e soprattutto, un racconto viscerale d’amore e d’amicizia tra madri e figlie, tra donne di famiglie e generazioni diverse, tra uomini dello stesso sangue che la cecità dell’odio ha diviso e reso nemici. Di legami profondi tra uomini e terra, non solo nel senso di appartenenza, ma di lavoro, nutrimento, vita.
Susan Abulhawa ha fondato la Ong Playgrounds for Palestine, che promuove la costruzione di parchi giochi per bambini nei campi profughi palestinesi. «La verità - racconta - è che, probabilmente, ho iniziato a scrivere questo romanzo come attivista. Ma nell’istante stesso in cui i personaggi hanno cominciato a delinearsi e la storia a prendere forma, ne sono rimasta coinvolta, non più solo da un punto di vista politico».
Intanto, la rete di bibliotecari e archivisti “Librarians and Archivists with Palestine”, con sede a New York, ha lanciato la campagna internazionale “Un libro, molte comunità”, proponendo “Ogni mattina a Jenin” con prima opera da leggere e dibattere insieme. A Trieste l’iniziativa è stata raccolta da un gruppo che ha aperto la pagina facebook Ibriq. 
@boria_a


martedì 20 gennaio 2015

MODA & MODI: nell'armadio scatta l'operazione "de"

L’autore la chiama de-stuffocation e se gli anglosassoni mettono il sinistro prefisso davanti ai verbi con cui le modaiole compulsive hanno dimestichezza, il significato è uno solo: liberarsi del superfluo. Lui si chiama James Wallman e quando il suo libro “Living more with less” sarà pubblicato, il 15 gennaio (Penguin), avremo già fatto in tempo ad approfittare dei saldi e a causare qualche ulteriore danno alla viabilità del nostro guardaroba. In attesa di sfogliare la sua bibbia, comunque, lo specialista in de-accumulazione (che - dice - non è talebanismo ma equilibrio) ci anticipa pillole di consigli, per evitare lo stress da pentimento post-acquisto.
Prevenire è meglio di. Quindi proviamo a vedere il nostro armadio come un night club esclusivo, di cui siamo i portieri-buttafuori. Deciso il numero massimo di ospiti, non possiamo sgarrare: se qualcosa ci piace abbastanza da ammetterlo nel club, dobbiamo sbattere fuori qualcos’altro. E oltre ai portieri, siamo pure i responsabili della sala. Tutti devono sedere accanto alla persona giusta, come nelle tavole dei wedding planner. Se gli abiti da sera sono contigui agli abiti da sera, e gli abiti da tutti i giorni agli abiti da tutti i giorni, scongiureremo il pericolo che la junk-fashion, la moda spazzatura, si intrufoli tra i pezzi di valore.
Sì, ma come fare la “de”, de-sertificazione del guardaroba? Intanto, “minimalismo in un mese” (c’è anche la versione “in un minuto”, per disperate, che equivale a svuotare l’armadio fino all’ultimo perizoma, ficcare tutto nei sacchi delle immondizie e recuperare solo quello che davvero necessita). In un mese l’impatto è più soft. Il primo giorno ci si libera di un capo che non serve o non mettiamo più, il secondo di due, il terzo di tre e così via. Alla fine, una bomba al napalm sarà esplosa nei cassetti. Chi ha più tempo, può divertirsi coi sacchi tematici: capi mai messi, fuori misura, scomodi, a cui forse daremo una chance, un giorno o l’altro. Se non abbiamo sentito la mancanza di uno solo di loro in un lasso da uno a tre mesi, non c’è remissione: devono sparire. Altra regola è utilizzare solo metà armadio e lasciare l’altra vuota. C’è anche il gioco da fare in due, vagamente pruriginoso: ognuno nasconde un capo del partner e se, in un tempo determinato, la “sparizione” è passata inosservata, il poveretto (capo, non partner) è inutile.
Wallman suggerisce di fare la “re-hab” con un’amica. Tipo shopaholic anonime, l’esempio e la condivisione scongiurano ricadute. Sempre che ne troviamo una da svegliare nel cuore della notte in astinenza da de-svendita.

@boria_a



"L'armadio di Carrie in Sex&TheCity"

lunedì 19 gennaio 2015

MODA & MODI, la scomparsa dell'homo mankle
Ryan Gosling
Il neologismo inglese “mankle” non vi dice nulla? Non importa, ne farete a meno. Le passerelle della moda maschile, prima a Londra, poi a Firenze e a Milano, l’hanno cancellato dal vocabolario. Mankle, ovvero male+ankle, sta per caviglia maschile. E non solo, perchè nella crasi modaiola, c’è un aggettivo sottinteso: bare, ovvero, nudo. Bare mankle, però, non è solo l’equivalente di un lui scalzo, calzetto-free in incognito, come sarebbe banalmente intuibile. Anzi. Qui parliamo di mankle pride, di un uomo che esibisce una porzione, più o meno ampia, di pelle, tra il bordo o il risvolto dei pantaloni e la scarpa. Vezzo controverso e guardato con sospetto, ma praticato da “celeb”, stilisti e comuni mortali purchè modaioli osservanti.
I red carpet che trovate in rete ve ne forniscono uno spettro abbastanza ampio: attori e registi soprattutto, da Jude Law a Wes Anderson da a Ryan Gosling a Zac Efron, portano questa fascia spigolosa di epidermide, accuratamente depilata, come un accessorio irrinunciabile dei loro completi. Asseverazione precisa, segno di riconoscimento: appartengo a una tribù, non solo mi vesto alla moda, “ ne so”.
Di signori “mankle” se ne sono visti parecchi, soprattutto virtuali e in pubblicità, ma il trend non ha mai veramente conquistato la strada. Se la tendenza dei completi maschili ad asciugare i pantaloni sulla coscia e ad accorciarli è scesa dalla passerella e ha convinto anche l’uomo normale mediamente attento a che cosa cambia nel suo guardaroba, i “sockless” dichiarati sono rimasti una minoranza (un po’ leccata e fastidiosa, diciamolo). Anche perchè il risvolto perfetto e precisino dei pantaloni e la caviglia al vento, si apprezzano nei biker delle megalopoli, col terrore di lasciare nei raggi la piega dei pantaloni (e non solo), un po’ meno sugli imitatori di provincia, col metro in mano a pareggiare i centimetri di pelle esposta.
A Londra non se n’è visto un quadratino, nè tra i talenti dello streetstyle (molti passati da Trieste, come Shaun Samson, vincitore di Its 2011, i cui calzettoni al ginocchio sui bermuda non sono stati però un’alternativa apprezzabile...), nè tra i maestri di sartorialità di Savile Row. Enfasi sul piede maschile a Milano, splendidamente calzato in mocassini, stivaletti, scarponcini o scarpe stringate, sotto cui si intravede un rassicurante calzino, a volte un autorevole calzettone. Il pantalone è a tendenza variabile, si allunga e si accorcia a seconda dei brand, ma anche dove “risvoltini” e “risvoltoni” rimangono una costante, la caviglia maschile è oscurata. E funziona davvero: se non si vede, si desidera di più.
@boria_a



Zac Efron con Ashley Tisdale

giovedì 15 gennaio 2015

MODA & MODI: se la testimonial è d’antan


Joan Didion, 80 anni, la scrittrice che la critica letteraria del New York Times, Michiko Kakutani, ha definito “la più bella penna contemporanea” in America, è la testimonial dell'ultima campagna di Céline. La quarta età è da tempo una risorsa per la pubblicità e non fa notizia: Iris Apfel, un'ultranovantenne icona della moda, la vecchietta col rossetto ciliegia dietro i giganteschi occhiali tondi, è stata nel 2012 il viso (e le unghie rosso fuoco) dei cosmetici Mac, Angela Lansbury, la signora in giallo over ottanta, ha conquistato la copertina della rivista cult “The gentlewoman” nel settembre 2012, Jacky O'Shaughnessy, 63 anni, con il suo corpo rilassato ma non franante che si misura in un plastico sfoggio di ginnicità, ha fatto scalpore un paio d’anni fa promuovendo la lingerie di American Apparel. La stessa Didion, anni fa, aveva posato per Gap. Carmen Dell’Orefice, iconica e statuaria, superbamente sopravvissuta alla stagione delle modelle perdute (prima che venisse inflazionato il prefisso "top") continua a essere l’ottantenne più richiesta dal mercato pubblicitario.

                                                      La scrittrice Joan Didion per Céline
LLa foto di Juergen Teller ritrae Joan dietro grandi occhiali scuri, maglietta nera, ciondolo vistoso, i capelli bianchi che le cadono spenti ai lati del viso, un filo di rossetto, e la gigantesca scritta Céline all'altezza del seno, che risucchia tutto il resto. Fosse un'anziana qualsiasi, l'immagine sedurrebbe poco. L'iperrealismo di Teller sbatte, non esalta, il marchio prevale sulla protagonista dello "scatto", almeno per chi non la riconosce al primo sguardo.
Angela Lansbury sulla copertina di "The gentlewoman"

I commenti si sprecano, soprattutto positivi. La campagna di Céline esalta l’intelligenza della Didion, come i cosmetici Mac il gusto fusion e l’entusiasmo evergreen di Iris, e American Apparel la freschezza e l’ironia di Jacky. Che bello che la pubblicità si accorga della risorsa inesauribile, dell’esemplarità, dell’esempio e del patrimonio che conserva e trasmette la terza età d’eccellenza.



Iris Apfel per Mac
Genuino? Chi sostiene di sì, tira in ballo la campagna di Dolce&Gabbana per la primavera-estate 2015 con le nonnine siciliane - anonime signore, di cui ignoriamo tutto - che fanno 240 anni in tre e sfoggiano, più che le tiare e le borse della griffe, i loro volti scolpiti, potentemente autentici, ignari dell’esistenza di un bisturi. 
Le ottuagenarie di Dolce&Gabbana

Ci ha stancato il sedere di Kim Kardashian, d’accordo. E prima di lei quello di JLo.
Ma anche le testimonial âgée rischiano di venire a noia. L’obiettivo che queste campagne mirano a colpire sono le signore negli anta, sia per i cosmetici Mac sull'arzilla Iris, “rare bird of fashion”, come titolava la mostra che il Metropolitan di New York nel 2005 ha dedicato alla sua sterminata collezione di abiti e accessori, sia per la moda rarefatta di Céline su una scrittrice altrettanto raffinata. Una pimpante, l'altra riflessiva, le testimonial sono due fuoriclasse nel loro campo. Ecco dunque la sollecitazione psicologica e intellettuale per le acquirenti che hanno buone letture ma soprattutto disponibilità economica: sono più giovane (e questo gratifica lo spirito), ma scelgo lo stesso brand di donne di successo (e il cervello e l'autostima gongolano). In fondo, anche le anonime nonnine di Dolce&Gabbana servono allo scopo: con loro - pensiamo - mi metto addosso una griffe - sì - ma che valorizza le radici, le tradizioni, l’esperienza, l’essere con intelligenza e sensibilità “glocal”.
O commercial?

@boria_a
Jacky O'Shaughnessy per la lingerie di American Apparel


mercoledì 14 gennaio 2015

L'INTERVISTA: Alessandro Preziosi fa il Don Giovanni a Trieste


In televisione l’abbiamo visto pochi giorni fa ne “La bella e la bestia”, dove non era un animalaccio irsuto - metamorfosi che, dato il soggetto, avrebbe richiesto effetti speciali di trucco - ma un principe col volto sfregiato nascosto da una maschera, al quale l’amore restituirà sembianze apollinee. In teatro, al Politeama Rossetti, lo rivedremo da domani, questa volta nei panni del “Don Giovanni” di Molière, di cui è regista e protagonista. Il prossimo impegno di Alessandro Preziosi sarà però sul grande schermo. Al termine di questa intervista, ieri mattina, l’attore incontrava un noto regista italiano, con cui ha già lavorato alcuni anni fa. «Confermo, per ora solo questo: tornerò al cinema». Intanto ci racconta il “suo” Don Giovanni, la sua attualità.


Alessandro Preziosi nel "Don Giovanni" di Molière (foto Noemi Commendatore)

Pochi giorni fa in tv, ora ricomincia la tournée teatrale. Questi ambiti diversi sono una costante della sua carriera...
«Me l’ha insegnato Antonio Calenda: un buon attore deve avere la capacità di alternare. Quindi il teatro, il cinema d’autore che ho fatto con Corsicato, con Faenza, con i Taviani, e da parte mia ci ho aggiunto la televisione. Certo, il teatro lascia allo spettatore un metro di giudizio che non è solo quello dell’attore in sè, ma del contesto in cui si muove, delle scelte che fa. Però oggi quest’alternanza di ambiti è anche un’esigenza lavorativa, che permette di crescere e di rimanere allenati professionalmente. Ricominciare a girare dopo un lungo periodo di palcoscenico è difficile».
Mai avuto paura di saltare dalla platea televisiva “pop” a quella più “alta” della prosa?
«Mah, dovrebbero essere altri a dire se ha giovato... La popolarità serve bene per il teatro, meno per il cinema, dove essere troppo “usurato” può rappresentare un problema. Il teatro crea discontinuità rispetto alle attività propedeutiche alle produzioni cinematografiche, o ti fa assumere una recitazione troppo “teatrale”. Il fatto che io non sia presente in molti film, in realtà mi dice qualcosa... Comunque, è un rischio che ho messo in conto. Le mie sono scelte che si legano sempre a progetti, non faccio differenza tra un mezzo e l’altro. Rende la strada più impervia, ma mi piace così. Va anche detto però che la popolarità è necessaria per fare questo mestiere tutta la vita, anche Manfredi ha accettato la pubblicità di Lavazza e Gassman gli sceneggiati in tv. E ora in Italia la confusione è tale, che è bene armarsi di lavoro...»
Che Don Giovanni è il suo?
«Un Don Giovanni che non sopporta l’abuso mascherato dell’ipocrisia. In questo senso è specchio della società odierna: oggi si è ipocriti con la consapevolezza di esserlo. Questa nota dolente viene sostenuta con grande forza da Molière. Don Giovanni è la vittima sacrificale della società in cui vive, colui che ha il compito di mostrarci quello che è giusto e quello che è sbagliato, quello in cui credere e quello in cui non credere. Al mio Don Giovanni attribuisco una carica di speranza: è importante scegliere in modo autentico, non giocare sull’ambiguità del “posso ma non voglio” o “voglio ma non posso”. Sono sfumature tutte presenti nel monologo sull’ipocrisia, che è come una doccia fredda, una scarica elettrica: crea nello spettatore che ascolta il dubbio di essere così. Ecco, è il tema dell’autenticità il punto centrale di questo lavoro. Perchè drammaturgicamente Don Giovanni è monotematico, è un viaggio, mentre offre spunti di riflessione di grande attualità, che sottolineo con effetti visivi, con la sonorità».




E come interpreta la seduzione compulsiva del personaggio?
«È una seduzione del linguaggio, non della donna, quindi molto più sofisticata e meno elementare. Don Giovanni punisce l’interlocutore col suo essere diretto e cinico, gli apre il fianco e lo mette di fronte alle sue contraddizioni attraverso la persuasione della parola. Mette un eremita in crisi sul concetto di utilità, davanti al quale non c’è morale o religione che tenga. Un eremita, non una donna...».
Anche Alessandro Preziosi per le riviste di gossip è un seduttore seriale. Si sente tale?
«Ma come si permette? Scherzo... E poi se lo dicono le riviste di gossip per partito preso direi di no. Ho due figli, direi che sono un padre seriale. È vero che amo le sfide e riconosco la persuasione del linguaggio come un modo di sedurre l’altro. Seduzione a fin di bene, s’intende, e non solo di donne. George Bernard Shaw diceva che Don Giovanni è anacronistico perchè la società è cambiata, le donne non restano più incantate ma ti portano in tribunale. Non sono oggetti dell’uomo, anzi è il contrario. Don Giovanni è un “burlador burlado”, come in Tirso de Molina, un seduttore fregato. Tornando a me, la serialità che mi riconosco è piuttosto quella dei lavori in tv».
Questo classico come può parlare alla generazione dei “social”?
«Attraverso la componente estetica il classico può essere attualizzato. Non si tratta di stravolgere il testo, nè di adattarlo, nè di spostarlo nel tempo. Lavoriamo sulla musica, sulla scenografia, sul tono. La generazione dei social network è in perenne sfida a chi ha più visualizzazioni, più contatti, più amici. È la sfida fine a se stessa porta alla dannazione - oddio forse questa è una parola troppo grossa - ma porta certo all’annichilimento. Don Giovanni è come un teorema geometrico, infallibile: tutto quello che è esterno, a casa mi si rivolta contro. Quando pensiamo di essere più furbi degli altri, restiamo fregati».
Prima ha nominato Calenda, che, possiamo dire, è stato il suo “scopritore”. Quindi anche con Trieste ha un legame particolare...
«No, diciamolo pure, Antonio Calenda è stato proprio il mio scopritore. Mi ha insegnato una grande disciplina e l’amore per il lavoro che faccio. Trieste è una città che mi dà molta ispirazione. Meglio, mi dà una grande concentrazione di intenti. Adesso ci torno più rilassato. Quando sono venuto qui con “Cyrano”, nel 2013, era una specie di embargo Cuba-America, un evento eccezionale. Intendo dire che ci tornavo da “privato”, con la mia compagnia, e c’erano fattori esterni e interni problematici. Adesso mi hanno richiamato, sono più sereno».
Pensa davvero che se lei non fosse così attraente avrebbe avuto successo in tv, al cinema, in teatro?
«Innegabilmente sull’aspetto fisico c’è una grande attenzione. Poi bisognerebbe rivolgersi a uno psicanalista - degli altri, intendo - per sapere se il successo sarebbe arrivato lo stesso o no. Attenzione: bisogna saper sfruttare non tanto la bellezza, quanto le occasioni che ti dà. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno aiutato a fare un percorso. Dopo “Elisa di Rivombrosa”, quanti avrebbero accettato di recitare “Re Lear” in teatro per duecento euro lordi al giorno? La bellezza conta, poi bisogna contare».
Crede nei talent show?
«Se sono vetrine per talenti sì, se sono vetrina per meteore no».
Lei ha due figli, di diverse età. Che tipo di padre è?
«Un padre che cambia con i figli. Credo non si debba mai fossilizzarsi in un modello di educazione prestampato. Se c’è un vantaggio nell’essere separati, è che si presta più attenzione ai cambiamenti e si fa tesoro dei propri errori. È necessario in un società così contraddittoria e così pericolosa».

@boria_a

venerdì 9 gennaio 2015

IL PREMIO

Ariane Mnouchkine, il "Nonino" alla Francia multiculturale

Per i suoi quarant’anni il Premio Nonino sceglie di portare alla ribalta l’impegno di chi ha fatto dell’incontro tra culture, dell’integrazione, della tolleranza e della solidarietà, un’opera d’arte, che si alimenta continuamente dell’incontro con altri mondi. Un’intuizione quest’anno più che mai legata all’attualità, verrebbe da dire quasi una premonizione degli augusti “selezionatori” che affiancano la famiglia di Percoto, in un momento in cui i valori fondanti dell’Europa sono annichiliti dalla violenza. Sarà Ariane Mnouchkine, 75 anni, fondatrice del Théâtre du Soleil, anima di produzioni che raccontano come la coesistenza e la permeabilità delle culture siano alla base dell’illuminismo europeo, a ricevere, dalle mani del “collega” Peter Brook, il riconoscimento nella cerimonia ospitata come da tradizione nei capannoni di Ronchi, il prossimo 31 gennaio.

Ariane Mnouchkine
La più grande interprete del teatro francese del secondo Novecento, le cui produzioni intrecciano Oriente e Occidente, esplorando le radici profonde di ciascuna delle due culture, riceve il riconoscimento all’indomani della strage islamista alla rivista satirica Charlie Hebdo, nel giorno in cui la Francia e l’Europa si interrogano sulla violenza e il fanatismo che covano dentro.
E non è l’unico riconoscimento per la Francia, perchè anche il Premio internazionale Nonino segue il filo conduttore del dialogo, del riavvicinamento all’uomo. Lo riceverà, dalle mani del “collega” siriano Adonis, Yves Bonnefoy, 92 anni, considerato il massimo poeta francese vivente e autore di libri che spaziano dai racconti, all’arte, alla critica e alla teoria letteraria.

Il poeta francese Yves Bonnefoy
Nelle sue liriche, l’«io» del poeta, espresso con potenza e semplicità, cerca il rapporto con il mondo, la vicinanza alle parole e alle cose, con quell’atteggiaento e quello stupore che sono tipici dell’infanzia, poi cancellati dalle esigenze della concettualizzazione intellettuale.
Dall’Europa all’America, ancora una volta per parlare di diritti civili e di parità tra i sessi. Il premio Nonino a “un maestro del nostro tempo” è stato assegnato a Martha C. Nussbaum, 67 anni, filosofa statunitense, insegnante di diritto ed etica all’Università di Chicago, studiosa della filosofia del mondo classico e teorica della giustizia globale.
La filosofa Martha C. Nussbaum
Figlia di un avvocato di Philadelphia e di una designer d’interni, Martha ha descritto la propria educazione come quella «di una élite Wasp (White, Anglo-Saxon Protestant, i discendenti degli originari colonizzatori inglesi, praticamente la “crema” della società, non appartenente ad alcuna minoranza) della Est Coast, molto sterile, molto interessata ai soldi e allo status». Il suo percorso intellettuale e di studiosa, svoltosi tra Harvard e la Brown University, si è allontanato diametralmente da queste premesse, focalizzandosi in particolare sulle ineguaglianze di libertà e opportunità tra uomini e donne ed enfatizzando il fatto che il liberalismo implica un ripensamento radicale dei rapporti tra i sessi e di quelli all’interno della famiglia. Il premio a Martha Nussbaum sarà consegnato da Fabiola Gianotti, che ricevette il Nonino nel 2013 (insieme a Peter Higgs, nello stesso anno vincitore del Nobel per la fisica), e che oggi è la direttrice generale del Cern di Ginevra e componente della giuria del premio friulano.
Il Nonino “Risit d’Aur” - il primo nato in casa dei distillatori, nel 1975, quello che entra davvero negli “anta” - e che nella sua stessa denominazione in lingua friulana porta con sè il riconoscimento a chi difende e valorizza le tradizioni, la cultura popolare e i saperi della terra, quest’anno resta in Italia. Sarà Claudio Magris a consegnarlo a Roberto De Simone, 81 anni, musicista, concertista, regista di opere liriche nei più grandi teatri del mondo e autore teatrale, accademico di Santa Cecilia, che ha dedicato una vita all’approfondimento delle tradizioni popolari della sua regione, la Campania.
Il musicologo e regista Roberto De Simone

Nel 1967 l’incontro con alcuni giovani musicisti interessati a una nuova proposta di musica popolare, Giovanni Mauriello, Eugenio Bennato e Carlo d’Angiò, da cui nasce La Nuova Compagnia di Canto Popolare, di cui De Simone, fino al 1974, sarà animatore, ricercatore, elaboratore di materiali musicali. La sua è sempre stata una ricerca “sul campo”, all’interno delle feste popolari, attraverso interviste nei paesi dell’entroterra campano, alla ricerca di tracce dove la tradizione è già andata perduta. Un lavoro di recupero che va di pari passo con la tradizione colta, con l’analisi di materiali di biblioteca, di saggi su forme metriche del canto ormai smarrite, ma necessarie per “attualizzare” la tradizione. Un impegno in cui la famiglia Nonino ha riconosciuto lo stesso spirito da cui nacque il “Risit d’aur”, per far riconoscere, e riportare a tavola in forma “alta”, come elisir e non torcibudella, gli antichi vitigni autoctoni friulani in via di estinzione, distillati in grappe d’autore.
Copione ormai collaudato per la cerimonia di premiazione del 31 gennaio, che inizierà alle 11 alla presenza della blasonata giuria: Fabiola Gianotti - cui sarà dedicato un brindisi speciale - Adonis, Antonio Damasio, Peter Brook, John Banville, Emmauel Le Roy Ladurie, Claudio Magris, V.S. Naipul, Norman Manea, Edgar Morin, Ulderico Bernardi e Luca Cendali. Quest’anno, davanti al consueto parterre intellettual-mondano di ospiti, la famiglia Nonino, con Benito e Giannola, le figlie Cristine, Antonella ed Elisabetta e i tanti nipoti di tutte le età, distilleranno la grappa del monovitigno Schioppettino della vendemmia tardiva. Prima del ballo che conclude la festa, taglio della torta del quarantennale, con l’orgoglio di ricordare che il “Nonino” in ben cinque occasioni ha anticipato di parecchi anni il Nobel - per la Letteratura a Naipaul, Tranströmer e Mo Yan, per la pace a Rigoberta Menchù - e l’anno scorspo di soli nove mesi quello assegnato per la Fisica allo scopritore della particella di Dio, quel bosone che porta il suo nome, Peter Higgs.

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IL PERSONAGGIO

Maggiordomo della famiglia Addams è un gigante triestino

Filippo Musenga, 24 anni, nella parte del maggiordomo Lurch


«Quando ho fatto l’audizione per il personaggio c’erano altri sei candidati. Beh, devo dire che è stato confortante, mi sono sentito un po’ a casa. Sembrava una convention di giganti». Svettare a 1,98 di altezza e avere una voce da basso, in verità, a teatro può essere un vantaggio: limita di molto la concorrenza. Il rovescio della medaglia è che i ruoli non abbondano, ma Filippo Musenga, triestino, 24 anni, se ne è accaparrato uno che come esordio sul palcoscenico in una vera compagnia, non è niente male. È lui, infatti, il maggiordomo Lurch de “La famiglia Addams” con Elio e Geppi Cucciari, che resterà in cartellone al Rossetti fino a domenica, per poi continuare la tournée in varie città italiane e chiudere a Lecce il 28 marzo.
Fresco fresco di diploma alla Bernstein school of musical theater (Bsmt) di Bologna, Filippo Musenga è passato in due mesi dai banchi alla prova del palcoscenico e proprio grazie a un regista conosciuto a scuola, Gianni Marras, che gli ha procurato “un’audizione su chiamata” con il produttore del musical Borracini. «Pensavo di essere andato malissimo - confessa - perchè ero emozionato, nervoso. La prova non era facile, dovevo portare un brano cantato e poi un monologo. Per la prima prova ho scelto “Old man river” dal musical Showboat e poi, siccome Lurch non parla ma fa versi, ho fatto “Il suicidio” di Gaber nell’una e nell’altra versione, parole e versi. Non ci credevo, ma è piaciuto. Alla fine, non essermi caricato troppo, aver avuto paura del fiasco, è stato positivo».
A dirla così sembra facile, ma Filippo ha dovuto vedersela con gli altri sei giganti convocati insieme a lui e poi con gli aspiranti maggiordomi di una successiva “open call”, audizione aperta a tutti. A scegliere c’erano il produttore, insieme al regista Gallione e alla direttrice musicale Cinzia Pennesi, convinti così tanto dal giovane interprete triestino da affidargli, nel corso della tournée, anche la responsabilità della parte musicale dei cori. Debutto il 17 ottobre al teatro della Luna di Assago, sold out nei suoi 1600 posti. «È stata una bella soddisfazione - racconta - perchè quando provi un monologo senza il pubblico non ti rendi conto veramente se funziona. E, invece, dopo il mio monologo in “versi”, c’è stato un bell’applauso».



Filippo Musenga in scena
Formazione eclettica, scolasticamente parlando, quella di Musenga, che non fa mistero di aver perso un anno al liceo Petrarca e aver chiuso le superiori al Deledda, con il diploma radiologico-sanitario. Fin da piccolissimo, però, si misura con tastiere e batteria alla Scuola 55, poi studia pianoforte per qualche anno al conservatorio. «Al liceo - ricorda Filippo - scrivevo musica, avevo dei gruppi. Ho cominciato a studiare canto con Paolo Scacciati, a cui devo tantissimo. “Con la voce che hai puoi fare teatro” mi diceva ed è stato lui a spingermi su questa strada. Ho sentito parlare dell’Amtt, accademia triestina di musical dove insegna anche Paola Camber, come me diplomata alla Bernstein. Cercavano un batterista per accompagnare i saggi e io mi sono fatto pagare con lezioni di recitazione e canto. Finite le superiori, sono andato a Bologna. I miei? Molto intransigenti sulla scuola, ma anche se il mio percorso non è stato sempre lusinghiero, non mi hanno mai punito castrando i miei interessi. Anzi».
Alla scuola, non è mancata la gavetta e l’assaggio del palcoscenico: Filippo è stato Sweeney Todd nell’omonimo musical (reso famoso da Tim Burton con Johnny Depp) - «una partitura molto difficile da leggere», sottolinea - poi il protagonista di “City of Angels”, e ancora ne “Le streghe di Eastwick”, “Spring Awakening”, “Into the Woods”, “Wild Party”, col teatro di Bologna nel cast di “Les miserables” e “Ragtime”. Adesso, lui che a Trieste abita in via Crispi, sorride: «Praticamente scendo in pantofole e vado a lavorare nel teatro della mia città. È un’emozione e il pubblico è molto caldo».
Con Elio e Geppi il feeling è scattato subito: «Sono disponibili, aperti, dissacranti prima di tutto verso se stessi, non certo vip che se la tirano. Sembra di parlare con dei coetanei». È stato proprio Elio, durante le repliche a Milano, a venire in soccorso di Filippo, che con la testa rasata di Lurch è stato subito vittima dei malanni di stagione. «Avevo un brutto mal di gola e tosse», racconta. «Elio se n’è accorto e nell’intervallo tra due scene è andato a prendere le sue pastiglie miracolose in camerino ed è venuto a portarmele dalla mia parte del palcoscenico. Geppi? Una grande professionista. Una sera ha avuto problemi di microfono nella scena finale. Doveva recitare ancora delle battute ed è riuscita a cavarsela avvicinandosi a ciascuno dei personaggi e parlando nei loro microfoni, senza alcuna esitazione. Il pubblico ha apprezzato molto. Per la mia testa rasata mi consola: “resti sempre un bel ragazzo”».
Saltato dalla Bernstein alla tournée, Musenga non ha ancora avuto il tempo di pianificare il futuro. Dopo gli Addams, andrà a Firenze a studiare canto lirico con un insegnante del Conservatorio Cherubini, sognando di re-interpretare Sweeney Todd, o di essere Molokov nel musical Chess e anche il commendatore nel “Don Giovanni”. «Il musical mi piace tanto - confida - ma in Italia non ci sono molte opportunità per un fisico come il mio. Magari punto all’estero, a Londra o in Germania, per sfatare il mito che noi italiani non siamo all’altezza di questi palcoscenici. Sono giovane, è adesso che posso pensare in grande».

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"La famiglia Addams" con Elio e Geppi Cucciari