lunedì 29 febbraio 2016

MODA & MODI 


 Reckless sleepers (and confused)


Per nobilitarlo si rispolvera l'invenzione della principessa Irene  Galitzine che, nel 1960, rimase folgorata dalle splendide giacche di Yul Brynner nel musical “Il re e io” in scena a New York. Come racconta nella sua autobiografia del 1997, scritta insieme a Cinzia Tani, scovò un negozietto che importava sete da Bangkok e disegnò top, camicie e pantaloni da realizzare nello stesso tessuto, subito apprezzati nella cerchia di amiche di sangue blu, da Marella Caracciolo a Consuelo Crespi, e poi sulle passerelle.
La giornalista-guru dell'epoca, Diana Vreeland, l’antenata dell’odierna Wintour, lo battezzò “pigiama palazzo” e il capo fece fortuna soprattutto addosso a signore che si muovevano in ambienti aristocratici, tra un ricevimento pomeridiano e l'altro, per poi scivolare nell'auto con autista, fluide e inappuntabili, nel caso di un'emergenza di società dell'ultima ora.

 
Irene Galitzine, principessa-stilista


Oltre mezzo secolo dopo, il pigiama torna nelle vetrine, con coordinate di utilizzo capovolte. Non si tratta più di un completo da tè con le amiche, ma di un capo che vorrebbe essere comodo, pratico, svelto ma 
n sciatto, da portare in casa, per chi ci passa molte ore lavorando o studiando, oppure per uscire, senza l'ansia di “vestirsi” ma neppure quell'aria letargica e informe di chi si è appena alzata dal letto.
Un capo da “reckless sleepers”, dormienti temerari (come il quadro di Magritte), l'ha definito, sul magazine di stile T del New York Times, Francesca Ruffini che di pigiami produce una linea extra lusso in seta, F.R.S. La signora confessa, nell'intervista, che fin da bambina non vedeva l'ora, appena tornata a casa, di spogliarsi. Così, invece di lavorare su capi che le facessero passare questo impulso, sicuramente destinato negli anni a diventare fonte di imbarazzo, ha deciso di prolungare la confortevolezza e l'intimità del pigiama, rendendolo urbano e sciccoso: giacche maschili su pantaloni ampi, abbottonate davanti o chiuse in vita da una fusciacca, fantasie discrete, righe o tinta unita.
Pare che le star paparazzate in urban-pigiama lo trovino soprattutto comodo per i lunghi spostamenti in aereo, in modo da essere libere nei movimenti durante le ore di crociera e presentabili all'atterraggio.

Jessica Alba

 Come sempre succede, però, quando un capo dalla passerella scende in strada e arriva nelle catene di abbigliamento low cost, cioè per tutti, i buoni propositi si sono persi per strada. Nelle vetrine si stagliano completi fantasia a tinte forti, stile negozio cinese, consigliabili per una giornata di scarsa visibilità più che per una mattinata tra commissioni e negozi. Niente seta o fibre naturali, ma un mix imprecisato e in apparenza non ignifugo.
Più che dare, psicologicamente, la sensazione di un prolungamento del proprio habitat, di un rifugio contro il caos esterno, questo pigiama chic aumenta la confusione. Fuori e dentro di noi. 
twitter@boria_a


leggi anche    http://ariannaboria.blogspot.com/2007/10/moda-modi-lessons-of-lingerie-vivienne.html

venerdì 26 febbraio 2016

 IL LIBRO

Quante bugie sul sesso da quei monogami Flintstone





I Flintstone, quella perfetta famiglia di antenati felicemente monogamica, non esiste. Anzi, la “flintstonizzazione” del mondo preistorico, cara a molti studiosi, è un’autentica contraffazione. Prendiamo i bonobo, scimmie antropomorfe geneticamente molto simili all’homo sapiens sapiens, che vivono nel cuore della giungla in un paese travagliato come il Congo e per questa loro inaccessibilità sono stati tra gli ultimi mammiferi studiati nel loro habitat naturale. Per i bonobo, a differenza degli aggressivi babbuini, sempre in lotta per il potere, lo stress non è un problema. Femmine in posizione preminente ma, soprattutto, poca guerra e molto sesso, passatempo quasi quotidiano e allegramente promiscuo. Gli accoppiamenti servono ad allentare la tensione, a stimolare la condivisione del cibo durante i pasti, a favorire l’armonia negli spostamenti e a riaffermare l’amicizia nelle riunioni più agitate. Insomma, un fate l’amore non la guerra che si traduce in un modello di società matriarcale, pansessuale e pacifico, dove i maschi, pur sottomessi, non si trovano affatto male, anzi sembrano godersela molto di più rispetto ai colleghi scimpanzè e babbuini.
Perchè allora c’è tanta resistenza nel mondo scientifico all’idea che gli ominidi godessero di bassi livelli di stress e di molta libertà sessuale? È vero quello che sostiene Hobbes che la vita umana nella preistoria era “solitaria, povera, repellente, brutale e breve”? È fondata la teoria dell’«evoluzione sessuale» di Darwin, secondo cui i maschi lottano tra loro per accaparrarsi la femmina passiva e fertile, in un contesto così competitivo da scoraggiare qualsiasi libertà sessuale?


 
Affettuosità tra bonobo



Per Christopher Ryan e Cacilda Jethá, due studiosi statunitensi - lui esperto in sciamanesimo ed etnobotanica, lei, medico, in comportamenti sessuali, tra loro sposati - queste teorie fanno acqua da tutte le parti e muovono da un fraintendimento: ricondurre il matrimonio alle prime forme sociali e la monogamia a pratica seguita perfino nelle relazioni delle scimmie antropomorfe. Non c’è da stupirsi, dunque, che il loro “In principio era il sesso. Come ci accoppiamo, ci lasciamo e viviamo l’amore oggi” (“Sex at Dawn”), poderoso ma ironico e scanzonato saggio sull’amore ai tempi dei progenitori, tanto infarcito di dati e citazioni quanto leggero e divulgativo, abbia gettato un sasso nella comunità scientifica americana, scatenando polemiche vivaci. Best seller del “New York Times” e tradotto in quindici lingue, esce in Italia con Odoya editore (euro 22,00, pagg. 383). www.odoya.it


 
Christopher Ryan e Cacilda Jethà

 
Fin dai tempi di Darwin ci è stato detto che nella nostra specie la monogamia è un istinto naturale. E allora perchè oggi il matrimonio è così pesantemente in crisi, perchè crescono divorzi e tradimenti, perchè l’abitudine e la noia uccidono la libido? E perchè nei matrimoni longevi sono spesso gli interessi economici e la stabilità per la prole a far da collante, sacrificando qualsiasi stimolo erotico?
Il punto di partenza di Ryan e Jethà sono gli errori di Darwin che, con la sua opera brillante, avrebbe, suo malgrado, conferito una patina scientifica “a ciò che è essenzialmente un pregiudizio antierotico”. Quando, nel 1859, fu pubblicata “L’origine della specie”, la preistoria - dicono gli autori - era pressochè sconosciuta, gli studi sui primati agli inizi e le conoscenze sui 200mila anni in cui persone anatomicamente moderne vivevano senza agricoltura e scrittura, limitate agli insegnamenti della chiesa. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che Darwin, pur geniale, descrivesse come “naturale” e “inevitabile” l’incontro tra un maschio alfa e una femmina riservata e riottosa, pronta a concedere i suoi favori sessuali in cambio di stabilità economica e affettiva per sè e i figli (la triste scienza dell’«economia sessuale») e a congiungersi col compagno solo a fini riproduttivi. Una concezione perfetta per l’ipocrita società vittoriana, dove - scrive l’autore de “La donna del tenente francese”, John Fowles - «si sosteneva all’unanimità che le donne non hanno orgasmo e si insegnava a ogni prostituta come simularlo». Il filosofo Schopenhauer sintetizzava: «Nella sola Londra ci sono 80mila prostitute; che altro non sono, queste, se non sacrifici offerti sull’altare della monogamia?».
Di quanto poco si sapesse all’epoca di sessualità femminile racconta il delizioso “Hysteria”, il film di Tanya Wexler del 2011, in cui la provvidenziale invenzione del vibratore salva tante insoddisfatte da una diagnosi frettolosa che poteva condurre anche all’isterectomia. Nel 1875 Lord Acton, storico e politico britannico, asseriva: «La maggioranza delle donne non è turbata da tensioni sessuali di alcun tipo (il che è un bene tanto per loro quanto per la società)». Eppure in ogni cultura del mondo gli uomini si sono dati molto da fare per controllare questa inesistente libido: dai roghi delle streghe nel Medioevo alle cinture di castità, dal chador alle mutilazioni genitali femminili, per finire con le paternalistiche diagnosi mediche di isteria e ninfomania e col disprezzo sociale per le donne che vivono apertamente la loro sessualità.


"Hysteria"  di Tanya Wexler

E adesso? «Dopo aver scritto un intero libro sul sesso - filosofeggiano Ryan e Jethà - ci piacerebbe puntualizzare in modo meno strutturato che la maggior parte di noi prende il sesso fin troppo sul serio: quando è solo sesso, non c’è altro da aggiungere. In quel caso, non è amore. Nè peccato. Nè patologia. Nè una buona ragione per distruggere una famiglia altrimenti felice». Insomma, concludono: un ragionevole rilassamento nel moralismo dei codici sociali che rendesse l’appagamento sessuale più facilmente disponibile, lo farebbe diventare anche meno problematico.
Per dirla con Goethe «l’amore è una cosa ideale, il matrimonio una cosa reale». E «la confusione del reale con l’ideale non resta mai impunita». Non dobbiamo quindi per forza insistere su una visione “ideale” del matrimonio fondata sulla fedeltà sessuale duratura a una sola persona («che la maggior parte di noi alla fine capisce essere altamente utopica», perchè la passione se ne va col tempo), nè lasciare il partner infedele, distruggendo così l’unione e la serenità dei figli. L’antropologa Sarah Hrdy suggerisce un approccio più tollerante: «A partire da Darwin - scrive - abbiamo dato per scontato che gli umani si sono evoluti all’interno di famiglie dove una madre faceva affidamento su un solo maschio per tirare su la prole in un nucleo familiare; eppure la diversità degli assetti familiari umani si comprende meglio presumendo che i nostri antenati si siano evoluti come allevatori cooperativi».
Tornando ai bonobo, la “cooperazione” favorisce la rilassatezza individuale e l’armonia della comunità. Per le coppie di oggi, gli autori suggeriscono - forse davvero un po’ utopisticamente - una franca conversazione su uno dei territori in cui per uomini e donne sarà sempre difficile comprendersi a vicenda: il desiderio sessuale. Molte donne troveranno difficile accettare che gli uomini dissocino con tanta facilità piacere sessuale e intimità emotiva, e altrettanti uomini faranno fatica a capire perchè queste due sfere siano spesso così interconnesse per le donne. «Ma se abbiamo fiducia - concludono Ryan e Jethà - possiamo lottare per cercare di accettare perfino quello che non capiamo».
Dopo i Flintstone, però, gli autori distruggono un altro mito. Ricordate le tenere famigliole de “La marcia dei pinguini”, il documentario campione di incassi nel 2005?


 
"La marcia dei pinguini"


Nell’attitudine al sacrificio per la prole e l’uno verso l’altro, molti spettatori hanno visto un riflesso della propria vita matrimoniale, sentendosi prendere da una sentimento di “antropomorfica fratellanza” verso i simpatici uccelli acquatici sferzati dalle bufere dell’Antartico. Quell’esempio ideale di monogamia, però, dura solo fino a che i piccoli hanno imparato a nuotare: poco meno di un anno. Dopodichè mamma e papà, con un divorzio rapido e indolore, tornano in pista, o meglio, sul ghiaccio. Vivono in genere trent’anni, durante i quali questi “genitori modello” formano almeno due dozzine di famiglie.
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lunedì 15 febbraio 2016

MODA & MODI

Occhiali per D'Annunzio hipster

 
Gli occhiali "Sufficit Animus", edizione limitata



 D’Annunzio fashionista li avrebbe amati incondizionatamente, da dandy con la passione per gli accessori preziosi, eleganti, personalizzati. Un paio di occhiali tondi, ispirati a quelli che lo stesso Vate indossava in vita, ma perfetti per l’hipster contemporaneo. Ci ha pensato la Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, che, anche con alcune belle pubblicazioni, ha sempre approfondito il D’Annunzio inventore di moda, designer e stylist ante litteram (pure un po’ tirannico: ricordate l’imposizione del nero alla prima fidanzatina, Giselda Zucconi, fiore sedicenne?).
L’occasione, questa volta, è un anniversario da celebrare, il centenario dell’infortunio aereo che, il 16 gennaio 1916, a Grado, gli causò la perdita dell’occhio destro. Ebbene, per solleticare la vanità dell’augusto menomato e dei suoi posteri, il Vittoriale ha stretto un accordo con la Pugnale&Nyleve, giovane azienda di Fagagna (Udine) fondata da Emanuele Pugnale, specializzata in occhialeria di lusso (www.pugnale&nyleve.com), che fa produrre in Cadore.
Ne è nato “Sufficit Animus”, basta il coraggio - dal motto, sulle cui ali il Vate non rinunciò a volare, nonostante la limitazione della vista - un paio di occhiali tondi e superlussuosi che D’Annunzio avrebbe approvato per l’equilibrio di design, celebrazione e una buona dose di autocelebrazione.

 
Sufficit Animus di Pugnale&Nyleve

Acciaio e acetato, in sostanza la tecnologia e lo sguardo verso il futuro. Una placcatura in oro diciotto carati incisa con motivi orientali, punto di riferimento estetico imprescindibile dell’Immaginifico, avido di materiali pregiati, ori, lacche, piaceri decadenti. Dettagli in pelle e la firma serigrafata di D’Annunzio all’interno della montatura, in corrispondenza, appunto, della lente destra.
Neanche Mastro Paragon Coppella, come D’Annunzio chiamava il suo orafo di fiducia, Buccellati, avrebbe avuto nulla da ridire su questo mix di passato e futuro, design e ispirazione. Gli occhiali, poi, sono custoditi in uno speciale cofanetto con tanto di panno personalizzato da citazione dannunziana. “Io sono un animale di lusso; e il superfluo m’è necessario come il respiro”, diceva l’Orbo Veggente, come si definiva dopo lo sfortunato volo.




Il numero principe per il Vate è l’11. E 111 sono gli esemplari in edizione limitata di “Sufficit Animus”. Prezzo facilmente immaginabile giocando al rialzo da queste cifre. Gabriel Nuncius Vestiarius, ovvero il D’Annunzio designer, si sarebbe fatto correr dietro per pagarlo.

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Leggi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2012/09/il-libro-e-il-vate-precoce-stilista.html

giovedì 11 febbraio 2016

 IL LIBRO

 Diavolo di una frivolezza, che ci fa accumulare oggetti e abiti


 
Gertrude Stein



Gertrude Stein gelosa, che regala alla compagna Alice Toklas un ingombrante anello di diamanti non come pegno di fedeltà, ma per ostacolare il baciamano degli uomini. La marchesa Casati che, per ogni evenienza, nasconde una dose d’assenzio nel pomo del suo bastone d’argento, mentre Virginia Woolf pianta il suo sulla riva del fiume, l’ultima traccia lasciata dalla scrittrice sulla terra prima di suicidarsi. E il cappello? Marinetti inneggia alla praticità della paglia nel suo manifesto futurista del copricapo, ma in realtà preferisce la bombetta, proprio come De Amicis, Eliot, Waugh, Vitaliano Brancati che, secondo Montanelli, compie un atto di silenzioso eroismo nel portarla quando il fascismo la mette fuori moda. Il doppiopetto, invece, genera uno scambio gustoso di battute negli afosi giardini di Princeton tra due Premi Nobel: Albert Einstein chiede a Pirandello, chiuso nell’eterno doppiopetto grigio, “Pirandello, perchè non ti togli la giacca?”, e lui, di rimando, “Grazie, ma non soffro il caldo”.
Anello, bastone, cappello. E ancora: profumo, scarpe, sigaro, vestaglia, flirt e fellatio, letto e tradimento e molte altre voci, in un dizionario di oggetti, atti e luoghi della geografia del frivolo e del superfluo. D’altro canto lo dice proprio Einstein: “La prima necessità dell’uomo è il superfluo”. “La nostra sola necessità”, lo definisce, ancora più tranchant, Oscar Wilde. E un ventenne Jean Cocteau scrive sul muro della sua camera “Il troppo è appena abbastanza per me”.


 
Luigi Pirandello


Ancora una volta, come già nel “Dizionario del dandy” o ne “I piaceri dei grandi”, Giuseppe Scaraffia ci racconta, in un instancabile, raffinato e avviluppante gioco di aneddoti e citazioni, la dittatura delle cose nella vita e nell’opera dei maestri della letteratura, dell’arte, del pensiero. È “Il demone della frivolezza” (Sellerio, pagg. 226, euro 14,00), quello che, secondo Burgess, possiede i contemporanei. Che non assomigliano per niente agli asceti, ma, ne sono l’immagine rovesciata: il teschio e il crocifisso dei padri del deserto, illuminano il vuoto dell’esistenza, mentre la marea di oggetti di cui si circondano gli uomini di oggi ha il compito di testimoniare che la vita ha senso, il piacere è a portata di mano e la morte si può allontanare. «Il mio rispetto per le cose irrilevanti sta assumendo proporzioni gigantesche» ammetteva Karl Kraus, e D’Annunzio, attestando il trionfo della quantità sulla qualità, «Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi, non ho mai tregua».
Dice Scaraffia: nell’eclissi dell’ideologia, il pensiero, per non smarrirsi nel vuoto, ha bisogno di appoggiarsi all’unica concretezza rimasta, quella degli oggetti. Si spiega così anche l’attenzione in crescita abnorme per la moda: gli abiti parlano al posto delle idee, il look è l’erede delle convinzioni. André Gide sintetizzava: «Bisogna prestare un’attenzione particolare alle calzature, da cui si riconoscono le persone più sicuramente e intimamente che dal resto dell’abbigliamento e dai tratti del viso».


 
Giuseppe Scaraffia


Nelle favole si svegliano i giocattoli, oggi sono gli oggetti a destarsi e a parlarci, a raccontarci il nostro tempo, le sue idiosincrasie, le sue manie, i suoi malesseri. Pensiamo alla vestaglia, che l’autore definisce la tenuta più appropriata per la più privata delle cerimonie: il suicidio. La pittrice Dora Carrington, dopo la morte dell’amatissimo Lytton Strachey, disse addio al mondo in una vestaglia di seta gialla del defunto. Lo scrittore Romain Gary incaricava la segretaria di comprargli le vestaglie nei migliori negozi, ma, prima di spararsi in bocca, si recò personalmente da un rinomato tessutaio inglese per acquistarne una rossa, così da attenutare l’effetto del sangue.

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leggi anche http://ariannaboria.blogspot.com/2012/08/il-libro-gianna-manzini-signore-non.html

domenica 7 febbraio 2016

IL LIBRO

 Pagine da leggere e da indossare


"Colazione da Tiffany", il little black dress di Truman Capote

 Non si può dire “tubino nero” senza pensare alla svampita ed eterea Holly Golightly di “Colazione da Tiffany”. Praticamente tutti hanno visto la versione cinematografica con l’incantevole Audrey Hepburn nel little black dress smanicato e aderente, molti meno hanno letto il libro scritto da Truman Capote nel 1958, dove la protagonista, bisex, era decisamente più sgangherata e meno versata alla commedia sentimentale. Poco importano, però, gli aggiustamenti del personaggio nel passaggio dalla carta allo schermo. Quel vestito è una certezza, sinonimo di eleganza, sobrietà, versatilità, e fa parte del guardaroba reale o immaginario di ogni donna, da Hillary Clinton a una first lady televisiva come la Claire di “House of Cards”.

Claire Underwood, "House of Cards"

 

Chi ha due passioni, libri e letture, non può che partire da questo grande classico, le petite robe noir, per abbinarle proprio come due pezzi di guardaroba. Ed è quello che fa la giornalista e blogger Marta Elena Casanova in “Che libro mi metto oggi?” (Editrice Bibliografica, pagg. 103, euro 9,90), vademecum da borsetta per scegliere il capo adatto a varie occasioni e per andare alla ricerca del romanzo che quel capo propone e valorizza, mettendolo addosso a un personaggio chiave, facendolo comparire a uno snodo cruciale degli eventi narrati. Così può capitare di scoprire storie e autori meno scontati, che rappresentano i suggerimenti più curiosi del libro.

Il vademecum di Marta Elena Casanova


«Era una sera calda, lei indossava un abito nero, aderente e fresco, portava sandali neri e una collana di perle. Nonostante la sua elegante snellezza, aveva l’aria sana di chi vive di latte e burro e si lava con l’acqua e il sapone... Un paio di occhiali neri le cancellava gli occhi», scrive Capote della sua Holly.
Ma c’è un “Tubino nero” meno conosciuto, firmato da un’altra scapestrata, nello stile e non solo, Françoise Sagan, in veste di giornalista. Nel 1969 l’edizione francese di Vogue le commissionava un intero numero monografico: ne uscirono una serie di pezzi su moda, scrittura, amici famosi come Saint Laurent e Nureyev, charme, rapporti uomo-donna, pensieri libertini, poi raccolti e pubblicati da Barbès Editore con quel titolo, “Il tubino nero”, mai come in questo caso espressione di raffinatezza e spericolatezza. Un esempio? «Non ci vestiamo per fare colpo sulle altre donne o per far loro rabbia. Ci vestiamo per spogliarci. Un abito è davvero un abito solo quando un uomo ha voglia di potervelo togliere».
La Sagan ritorna nel capitolo dedicato al grigio, passepartout di eleganza da mattina a sera, soprattutto a una certa età, quando la consapevolezza di sè è pari alla capacità di giocare con gli accessori. Dimenticando le “Sfumature” di E.L. James, che l’hanno reso fastidiosamente invasivo e che l’autrice comunque si sente in dovere di segnalare, perchè non rileggere “Bonjour tristesse” (1954), dove il grigio è arma crudele e inconsapevole dello scontro tra generazioni? Lo vediamo riflesso negli occhi di Cécile, diciassettenne ribelle e immatura, mentre guarda la futura matrigna Anne e architetta come distruggerla: «Mi fermai sulla soglia. Aveva un vestito grigio, di un grigio straordinario, quasi bianco, che catturava la luce e brillava come certi riflessi del mare all’alba. Quella sera in lei mi sembrava concentrarsi tutto il fascino della maturità...».


 
"Bonjour tristesse" dal libro di Françoise Sagan


Sono molti gli abbinamenti estremi tra autori che un abito, un bijoux, una palette di colori propiziano. Karen Blixen con gli accessori etnici, il bianco e il kaki ventosi de “La mia Africa” (che, ancora una volta, per chi non ha letto il libro - 1937 -, ci restituiscono gli splendidi costumi di Meryl Streep nel film di Pollack, firmati da Milena Canonero, candidata all’Oscar) e V.S. Naipaul con il Congo fetido e infestato de “Alla curva del fiume” (1979). O Patrick Dennis e la sua eccentrica “zia Mame” (1955), divertente antesignana del bling-bling, ai cui polsi «tintinnavano braccialetti e braccialetti di giada e avorio», e Louise de Vilmorin con “I gioielli di Madame de***” (1951), in cui, da un paio di orecchini a forma di cuore, si origina una tela di ragno di menzogne e ossessioni intorno alla protagonista, prigioniera delle sue trame. 



Maryl Streep in "La mia Africa" di Sydney Pollack

 Anche un pericoloso costume intero bianco - che nessun uomo o donna metterebbe a cuor leggero, a meno di non essere in un videoclip di Dolce&Gabbana - suggerisce due letture interessanti e agli antipodi. Una è “Corpi al sole” di Agatha Christie (1941), dove la protagonista e vittima, la volubile Arlena, finisce strangolata sulla spiaggia e nelle grinfie dell’acuto Poirot (“Era alta e snella. Portava un costume da bagno bianco che lasciava la schiena scoperta, e aveva il corpo di un colore bronzo uniforme. Era perfetta come una statua...»), l’altra è “La vedova incinta” di Martin Amis (2010), che invita a sdraiarsi a bordo piscina in un castello dell’Italia meridionale nell’estate 1970, tra personaggi ricchi e disinibiti, volubili e meschini, narcisi e affamati di sesso, a veder passare pigramente la Storia.
Non c’è pezzo, per quanto importabile e inguardabile, che non evochi la suggestione di una pagina scritta. Marta Elena Casanova propone i suoi abbinamenti, ma le combinazioni variano all’infinito. La canotta maschile sdoganata sui palchi leghisti al tempo del celodurismo? «Devo essere proprio un pazzo. Barba lunga. Canottiera piena di buchi di sigarette. Il mio unico desiderio era di avere più di una bottiglia sul comò. Non ero adatto a questo mondo, e questo mondo non era adatto a me», scrive Charles Bukowski in “Hollywood, Hollywood!” (1989). La camicia a quadri? Non c’è solo “Sulla strada” di Kerouac, viaggio polveroso nella beat generation tra droga, musica, sesso libero e molto alcol, ma anche il trucido e malinconico declino della frontiera in “Città della pianura” di Cormac McCarthy (1999). E lo stesso vale per le paillettes, di cui fa ampio uso Bret Easton Ellis nella violenta critica alla società dell’apparire di “Glamorama” (1998), ma che ritroviamo appiccicate all’umanità pacchiana, marchettara e collusa con la politica dell’esilarante “Sicilian tragedi” di Ottavio Cappellani (2007). 


 
"Piccole donne" nella versione cinematografica del 1949


Dai guanti delle “Piccole donne” (1868) di Louise May Alcott (dove la moda, a dispetto delle ristrettezze delle signorine March, la fa da padrona, anche in termini di ingegno, basti pensare agli espedienti per nascondere le macchie o le bruciature degli abiti, all’arte sublime di rivoltarli, ai termini musicali e desueti come “calicò”...) fino al copricapo indossato dalla protagonista quindicenne de “L’amante” (1985) di Marguerite Duras (“Quel giorno porta in testa un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero. A creare l’ambiguità dell’immagine è quel cappello...”), con i libri ci si veste dalla testa ai piedi, lingerie compresa (Bridget Jones insegna...), non dimenticando bottoni, scarpe, occhiali, scialli, ballerine e stiletto, in un viaggio tra le pagine da Jane Austen alla Candace Bushnell autrice di “Sex and The City”.

 Ed è un libro a riconciliarci perfino con l’animalier, che osa Micòl ne “Il giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani, 1962: «Ad un tratto, sia pure di lontano, la vidi improvvisamente sbucare dal portone del Tempio e sostare sulla soglia. Indossava una corta pelliccia di leopardo, stretta alla via da una cintura di cuoio. I capelli biondi splendenti della luce delle vetrine, guardava di qua e di là come se cercasse qualcuno...».

 
"Il giardino dei Finzi Contini" di Vittorio De Sica dal libro di Giorgio Bassani


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lunedì 1 febbraio 2016

 MODA & MODI 


Diversamente Barbie


 Irriconoscibile Barbie, diventa alta, piccola, formosa. La Mattel annuncia la "normalizzazione" della quasi sessantenne bambola, di cui ha piazzato oltre un miliardo di esemplari nel mondo. Colpa delle vendite, in calo di oltre il dieci per cento in ciascuno degli ultimi otto trimestri.
Non basta più aver fatto un patto col diavolo, essere eternamente giovane e "performante" in ognuna delle mille avventure affrontate, l'emblema di una quasi terza età attiva e vitale, con l'argento vivo addosso. Anche Barbie deve piegarsi ai numeri: negli ultimi quattro trimestri le vendite si sono contratte del 14% rispetto ai dodici mesi precedenti, una débâcle che ha costretto a far le valigie l’ex amministratore delegato della Mattel, Bryan Stockton, rimpiazzato dal componente del consiglio di amministrazione di più lungo corso, Chris Sinclair. Dopo aver dato un'aggiustatina ai quadri dirigenti, Sinclair ha annunciato un sinistro proposito: fare giocattoli “migliori”.

Una Barbie "migliore"? Una diversamente Barbie? Verrebbe da liquidare la faccenda su due piede: la Barbie è la Barbie, un simbolo, un'epoca, una stagione, un modo di giocare. Tenetela fuori dalla strisciante ipocrisia. Non ha mai fatto paura a nessuno.
Eppure, il mercato. Così dove non sono riuscite le femministe, che la accusavano di essere incarnazione della donna oggetto, dove non ce l’ha fatta la concorrente zoccolona Bratz, con plateau e labbra siringate, sono arrivate le bambole Frozen della Walt Disney, tutte zucchero e buoni sentimenti, congelate nei loro scintillanti abiti da principesse.
Anche Barbie deve adeguarsi, i sogni delle ragazzine non li incarna più la platinata bionica con l'obiettivo di conquistare lo spazio o quantomeno lo studio Ovale, sempre perfettamente "cuaffata" a cavallo come in piscina, ma le Cenerentole povere ma belle, nel cui futuro c'è sempre un qualche principe salvatore, una spalla su cui piangere, non un principe consorte come Ken.
Tra qualche mese, sugli scaffali, troveremo dunque le Barbie più "umane", versione minuta (petit), alta (tall) e formosa (quel "curvy" che è la panacea di tutte le magagne del mondo dell'immagine). Avranno capelli crespi e ricci e pelli di diverse sfumature. Saranno più corte, più lunghe, più tonde: non un modello estetico immutabile, che intimidisce.

Basta seno scolpito sul vitino da vespa e proporzioni da catalogo irreale della bellezza. Per battere le avversarie con coroncine e scarpe di cristallo, Barbie diventa tappetta e stangona e pure con un filo di ciccia e cellulite, come tutte noi. Ci rassomiglia e ci rassicura.
Non dice più alle bambine che tutto è possibile e alla loro portata, che puoi avere cervello e intraprendenza anche se sei piacente, alla moda e un po' frivola. Dice solo che devi essere normale, politically correct.
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