martedì 22 novembre 2016

MODA & MODI 

 L'insostenibile leggerezza del piumino discount



Lidl sempre più fashion. No, non è una spesa couture, nessuna salsiccia in offerta griffata Valentino o gloss per labbra con l’autografo di Cavalli. Le mini-collezioni create in esclusiva dai grandi nomi per i grandi magazzini - H&M, per esempio, pioniere del cheap & chic, che ha portato tra i suoi scaffali un esercito di stelle, da Lagerfeld a Balmain - sono operazioni sfruttate. Adesso è il discount che fa moda, nel senso che ne crea una di sua, senza arruolare designer a tanti zeri per mettere il timbro su straccetti che andavano bruciati in poche ore da clienti invasate. Se straccetto dev’essere, tanto vale farselo in casa, risparmiando anche sul designer.

È proprio Lidl, colosso teutonico di alimentari a buon mercato, a proseguire imperterrito nell’assalto alle cristallerie del lusso: dopo linee uomo, donna, bambino, lingerie, la sua discount fashion punta allo sport. E mica in un posto qualunque: il pop up store, negozio temporaneo che sarà aperto dal 24 al 26 novembre per lanciare sul mercato #LidlSki, collezione per lo sci, si insedierà per due giorni in rue Antoine Dansaer 1000 a Bruxelles, nell’ex negozio di Marc Jacobs. Dal 28 novembre le giacche a vento pannoniche saranno disponibili in tutti i supermercati Lidl. Nel settembre scorso, un lancio analogo il colosso l’aveva ideato per la sua linea d’abbigliamento Esmara: un negozio temporaneo ad Amburgo sulla strada del lusso Wall Neue, fianco a fianco a negozi di Vuitton, Gucci, Ferragamo ed Hermès. Non meno aggressivo un altro gigante tedesco del discount, Aldi, che, in attesa del prossimo sbarco in Italia, ha pure cominciato a vendere abiti.
 

Non solo fast couture, con le firme a portata di scaffale e di qualsiasi tasca, per sentirci tutti ugualmente poveri ma belli e soprattutto (poveramente) griffati. Ora è il no-logo da quattro soldi che occupa i templi del lusso, vendendo piumini che costano cento volte meno. Gli hard discount hanno già aggredito le catene di abbigliamento low cost e ora sfidano i brand inarrivabili sul loro terreno. Ma non c’è niente di eroico o di democratico, nessun Davide anonimo contro il Golia firmato, e non solo perchè sempre di giganti si tratta. Il piumino deluxe e quello discount hanno qualcosa in comune: sono prodotti nei paesi dove il lavoro si paga in spiccioli, Bangladesh e Cina per il gruppo tedesco. Il resto è questione di numeri. Da Lidl entriamo in milioni, nel monomarca no. Con l'inganno che scegliere il vestito del supermercato ci fa sentire sostenibili, perfino solidali.
@boria_a

sabato 19 novembre 2016

 IL LIBRO

Ilie, orfano bianco di mamma badante







A pochi giorni dallo sbarco in tivù del vicequestore Rocco Schiavone, che, con il volto di Marco Giallini ha bissato negli ascolti il successo dei libri (Sellerio), Antonio Manzini esce con un nuovo romanzo “Orfani bianchi” (Chiarelettere, pagg. 240, euro 16,00). Chi ama il poliziotto ferito e scontroso, trasferito da Roma ad Aosta per le sue pratiche spregiudicate, si troverà in un mondo e tra voci completamente diverse, dove però non è difficile riconoscere l’autore e la sua straordinaria capacità di entrare nell’animo dei personaggi e di metterlo a nudo, fino in fondo ma con una sorta di pudicizia, fermandosi prima che tutto sia svelato e violato. 


Antonio Manzini


Oltre cinquant’anni fa le “vedove bianche” erano le mogli dei nostri immigrati, che rimanevano a casa, sole anche per interi anni, mentre i mariti lavoravano lontano. Oggi gli “orfani bianchi” sono i figli delle badanti straniere, lasciati in patria con i familiari, o, se nessun parente è disponibile, “internati” negli istituti, dove capita che gli orfani veri siano meno della metà. “Internat” si chiama appunto l’orfanatrofio dove la protagonista della storia, la moldava Mirta, è costretta ad abbandonare il figlioletto dodicenne Ilie. Una stufa difettosa ha mandato a fuoco la povera casa della nonna, l’anziana è morta nel rogo e nessuno può occuparsi del bambino, mentre la mamma sgobba a Roma lavando scale nei palazzoni e poi, in una ricca casa dell’Aventino, si prende cura di Eleonora, un’anziana incattivita e pressochè allettata.


«È inutile che ti dica che mamma avrebbe voluto un’italiana, ma non se ne trovano. Vada per una bulgara, romena o africana» le dà il benvenuto la nuora dell’inferma. «Come se fossimo la stessa cosa», pensa Mirta. Ma se lo tiene per sè. Perchè quel lavoro pesante, schifoso, ma ben retribuito è quello che le serve per portare Ilie finalmente in Italia, per strapparlo alla prigione per bambini dagli occhi vuoti dell’Internat. Per ottenerlo, quel lavoro, Mirta ha mentito e rubato e ora è disposta a mandar giù le umiliazioni di chi la considera a priori una delinquente necessaria da tenersi in casa e le “perimetra” gli spazi dove muoversi, come se fosse pronta solo ad allungare le mani, le dice in quale frigorifero tenere il suo cibo, in quali stanze non entrare, cosa toccare o non toccare.


La storia è tutta qui. Storia di distanze e silenzi, entrambi abissali. Quelli che dividono Mirta e Ilie, colmati dalle mail con i racconti della mamma, dai pacchi con i videogiochi confiscati dalla direttrice dell’orfanotrofio, dalle telefonate destinate a rimanere mute perchè il bambino sta mangiando, sta guardando un film, sta giocando con gli altri... Ilie non parla e non scrive, ma è come se lo vedessimo sprofondare a poco a poco nella disperazione degli ambienti lividi dell’Internat, soffocato dagli odori di cibi malcotti e dalla solitudine.


E distanze e silenzi inevitabili crescono anche tra Mirta ed Eleonora. Entrambe prigioniere, l’una della malattia, l’altra del bisogno. Entrambe annullate dalla reciproca dipendenza. La convivenza nella galera dorata dell’anziana è scandita dai tempi delle medicine, degli omogenizzati, del cambio di posizione, per evitare le piaghe da decubito in un corpo già martoriato dagli anni e dalle iniezioni. I tempi di Mirta sono fitti di istruzioni e posologie, tempestati dalla sveglia che le ricorda il momento di far rotolare Eleonora dall’altra parte del letto, complicati dall’odio feroce della vecchia che si sporca e si bagna per dispetto. E Mirta, a sua volta, le nega il programma preferito in tivù, la insacca in un grembiule, senza biancheria intima, e la pianta sulla carrozzella davanti allo schermo opaco. 


È il resoconto crudo e serrato di una settimana, in cui fra quattro pareti si combatte una guerra di resistenza. Entrambe hanno uno scopo da raggiungere, a qualsiasi prezzo. Finchè le due disperazioni si riconoscono, misurano la loro identica profondità. E dal corpo avvizzito di Eleonora esce un soffio di voce: «Voglio morire».
Mirta non può eseguire quest’ultima richiesta. Non può uccidere o, semplicemente, come le dice la signora, «accelerare la decomposizione». Anche lei ha un obiettivo: basta resistere ancora qualche mese, poi suo figlio la raggiungerà e con Pavel, l’uomo che potrebbe imparare ad amare, costruiranno una famiglia. Ma la storia corre ugualmente verso un esito di morte, in un finale precipitoso che non lascia margini di riscatto. Resta una domanda, nel bisbiglio di Eleonora: perchè man mano che cresce la ricchezza aumentano i muri dentro casa (e dentro di noi)?

@boria_a

giovedì 17 novembre 2016

 L'INTERVISTA

Laudomia Pucci: "Così siamo finiti su una tazzina da caffè"


 
Laudomia Pucci




La tazzina del caffè è griffata. Dopo tanti artisti contemporanei, da Marina Abramovic ad Anish Kapoor, da Jeff Koons a Robert Rauschenberg, per la prima volta nella celebre illy Art Collection entra la moda. E non un nome qualsiasi, ma il marchio Emilio Pucci, tra i fondatori del made in Italy. Era il 1951 quando il marchese Emilio Pucci di Barsento sfilava nella dimora di Giovan Battista Giorgini, Villa Torrigiani a Firenze, con un piccolo gruppo di sartorie italiane che portavano in passerella il loro gusto e il loro stile, decisi a liberarsi dalla supremazia francese.



 






Olimpionico di sci, aviatore durante la seconda guerra mondiale, il marchese Emilio venne arrestato nel ’44 dalla Gestapo, incarcerato a Milano e a lungo sottoposto a interrogatori e torture perchè rivelasse dove aveva nascosto i diari di Galeazzo Ciano, che l’amica Edda gli aveva affidato. Una volta liberato riparò in Svizzera e, per mantenersi, cominciò a dare lezioni di sci a Zermatt. Fu per caso che, nel 1947, una tuta da sci inventata per un’amica, piacque alla fotografa di Harper’s Bazaar Toni Frissel, che la pubblicò sulla rivista in un servizio sulla moda invernale in Europa. Da allora le collezioni firmate da Emilio Pucci hanno conquistato un pubblico internazionale, sinonimo di colore, grafica, eleganza e praticità.
Dal 2000 il marchio Pucci fa parte del gruppo Lvhm. E Laudomia, figlia di Emilio e direttore immagine del brand, è membro dell’associazione Altagamma delle eccellenze italiane, presieduta da Andrea Illy.



Laudomia Pucci e Andrea Illy


Nasce da qui l’idea della tazzina griffata. Sei stampe Pucci della serie “Cities of the World”, disegnate a mano, decorano l’ultima serie dell’ormai nutrita collezione illy. Londra, Milano, Parigi, Roma, New York: un giro del mondo colorato, avvolto nella palette di Pucci. Tra le stampe scelte c’è “Battistero”, che il marchese Emilio disegnò nel 1957, raffigurando piazza Santa Maria del Fiore a Firenze nei toni del giallo limone, arancio tangerino, rosa “Emilio” e fucsia intenso: una festa di colori come omaggio alla sua città.





 









Chiediamo a Laudomia Pucci di raccontare la nuova partnership, una prima volta per entrambi i brand, ma nel segno del made in Italy.

Signora, com'è avvenuto l’incontro col caffè? «Sono legata all'azienda Illy da vari anni, vuoi per l'ottimo rapporto che ho con Andrea Illy, presidente di Illy e di Altagamma, vuoi per il fatto che sono loro cliente. Ho due bar Illy, uno in ufficio e uno nel nostro museo privato (coperto in tessuto Pucci). Poi da cosa nasce cosa e abbiamo cominciato a immaginare una collaborazione tra due eccellenze italiane. Mio padre disegnava, dipingeva e creava continuamente. In un certo senso, è sempre stato un artista e un sarto, quindi è meraviglioso vedere il suo lavoro insieme a quello di un gruppo di artisti contemporanei molto riconosciuti».
 

Perché proprio la serie di "Cities of the World" per le tazzine? «Ci piaceva raccontare una storia che avesse un chiaro riscontro con la nostra collezione esclusiva di foulard dedicata alle città del mondo con cui abbiamo un particolare legame. E in verità ci piaceva anche il concetto di internazionalità da Firenze a New York passando per Londra».

Nella storia del marchio Pucci però ci sono tante "deviazioni" dalla moda in senso stretto. Suo padre ha firmato uniformi, divise, perfino il logo per gli astronauti della missione Apollo… «Credo che il marchio abbia una sua straordinaria capacità di contaminazione, dovuta al suo profilo lifestyle, e grande dimensione artistica. Va fatto sempre con attenzione al prodotto e con una logica, ma certamente ci piace pensare che vestiamo la donna e anche la casa e dei bei momenti della giornata, come con le tazzine dell'art collection».


Come interpretate la modernità conciliandola con il patrimonio di una griffe storica? «È sempre la domanda che ci facciamo: innovare rimanendo se stessi. Questa evoluzione viene data dal talento creativo in primis e dalla tecnologia (sempre di più). Infatti Massimo Giorgetti, il nostro direttore creativo, è un giovane di grande talento con un grande senso della modernità, il suo lavoro è fondamentale per noi».


Suo padre ha creato stampe, colori, fantasie inconfondibili. È difficile affrancarsi da questa eredità? «Ci sono alcuni marchi come Chanel che non solo non si affrancano da un'eredità, ma la sottolineano. Io credo che i codici di un marchio vadano coltivati, lavorati e interpretati ma mai confusi o tralasciati».


Oggi la moda entra nei musei senza complessi di inferiorità. Suo padre Emilio in questo senso è stato un geniale antesignano: più artista o stilista? «Mio padre si chiamava artigiano e sarto, con un'umiltà che oggi purtroppo manca a molti di noi. In realtà penso che fosse più un artista che uno stilista, ma poi ha applicato la sua arte, i suoi disegni e colori a tessuti e al mondo femminile… Prima con il ready-to-wear, per poi allargarsi a tappeti e lifestyle in genere».


Emilio Pucci è stato tra i fondatori del made in Italy. Oggi fate parte di un gruppo internazionale del lusso, Lvmh. Non c'è il rischio di diventare uno dei marchi di una costellazione? «Dopo sedici anni di lavoro con il Gruppo Lvmh il bilancio del marchio è molto positivo. La risposta è abbastanza ovvia».
 

L'Italia detta ancora legge in fatto di moda o la creatività nasce altrove? «L'Italia sicuramente ha il suo "posto al sole" nel senso di creatività, ma parlerei in senso più lato di estetica, di qualità, del saper fare il bello. Certamente in quel senso rimaniamo una pietra miliare».

Ha un'immagine di suo padre stilista che le è particolarmente cara? «Mio padre adorava disegnare, fare varianti di colore… Lo faceva con una grande naturalezza e con un senso di sfida. Ho imparato questo metodo da lui e rimane sempre valido».
 

Che insegnamento le ha lasciato? «L'attenzione ai dettagli, era maniacale».
 

Le piace la moda di oggi? «Certamente mi piace la moda dei giovani, anche se spesso sperimentale. La seguo con attenzione».

Suo padre ha vestito attrici, dive, signore di sangue blu. Chi è la donna Pucci oggi?«Oggi abbiamo una clientela internazionale trasversale, dalla ragazzina che compra il bikini alla signora che ha comprato tutta la sua vita. È interessante».
 

Se dovesse citare qualcosa che vi identifica subito? «Forse con il colore Rosa Emilio e Blu Capri».

Le città di Pucci sono finite sulle tazzine. Ci sarà un foulard Pucci con Trieste? «Perché no».

mercoledì 16 novembre 2016

IL LIBRO

I migliori oggetti (e forse gli anni) della nostra vita






 C’era una volta la cartolina, quel cartoncino colorato che passava di mano in mano latore di un messaggio destinato a una persona sola, al più a un nucleo “allargato”, che all’epoca si apostrofava enfaticamente con un “gentile famiglia”.... Quando vide la luce in Italia, nel 1873, con francobollo incorporato, il ministro Quintino Sella storse il naso: per i rappresentanti postunitari, eletti dall’uno o due per cento della popolazione, ovvero da loro simili rigorosamente maschi, le piccole gratificazioni delle persone comuni, a basso prezzo, non potevano essere più distanti.

Non avrebbe avuto nemmeno un fastidio, il ministro, se solo avesse immaginato che centocinquant’anni dopo la cartolina è pezzo da collezionisti. Un reperto da bancarella, un termine privo di significato per generazioni abituate a far volare il proprio “pensierino” su Instagram. Il post si è sostituito alla delicatezza del ricordo personale, alla dedizione dell’acquisto e della compilazione del messaggio cartaceo, alla calligrafia del mittente: veloce, anonimo, esibizionistico e compulsivo, infarcito di emoticon, schizza in rete verso una massa indistinta di amici e perfetti sconosciuti.


C’era una volta la macchina da scrivere, con cui risaliamo nel tempo ancora più indietro, all’Italia pre-unitaria. Corre infatti il 1855, dieci anni prima del successo su larga scala della massiccia americana Remington, quando Giuseppe Ravizza, un avvocato di Novara, presenta il suo “cembalo scrivano”, con la scocca in legno, il cui nome si deve ai tasti bianchi e neri simili a quelli del pianoforte. Un’invenzione troppo in anticipo sui tempi, in un paese contadino e analfabeta, diviso in otto stati e oppresso da stranieri. Non basteranno cent’anni (e, nel frattempo, un successo imprenditoriale come quello di Camillo e Adriano Olivetti) per farla entrare nella pubblica amministrazione, se ancora nel 1959 il ministro democristiano Giorgio Bo auspicava l’avvento di dattilografi e stenografi piuttosto che di diavolerie meccaniche per svecchiare la burocrazia.


Sono passati 140 anni da quando Madame de Stäel viaggiava in carrozza per la Germania, fogli, calamaio e penna custoditi nel sécretaire sulle ginocchia, divulgando in “De l’Alemagne”, pubblicato nel 1810, i testi del romanticismo. Ma in un paio di decenni dalla avveniristica macchina da scrivere, la scrittura sarà investita da un’altra rivoluzione: avanzano i computer portatili, in arrivo da Usa e Giappone, ancora più leggeri e ammiccanti dell’elegante Lettera 22. Se le prime tastiere ci ancoravano alla scrivania, oggi smarthphone e tablet ci connettono al mondo, ovunque ci troviamo. L’ufficio ce lo portiamo in tasca, meno ingombrante (ma più invasivo) di un sécretaire.


Cartolina, macchina da scrivere: oggetti smarriti. Automobile, Vespa, lavatrice, telefono: ci hanno cambiato la vita e sono ancora tra noi, evoluti e imprescindibili. Fotoromanzo: oggetto scomparso. Ha fatto sognare milioni di ragazze e, senza che se ne accorgessero, ha ampliato il loro lessico e educato il gusto, mentre il juke-box diffondeva una cultura musicale aperta, inventiva, densa di echi lontani. Oggi le eredi di “Bolero” sono le alluvionali soap opera alla “Beautiful” (dove più che a parlare si impara a contare: i matrimoni dei protagonisti, generalmente tutti tra loro), mentre il gettone per un disco da condividere, con cui si innamoravano i baby boomers, ha lasciato il posto all’ascolto solitario di iPod e cuffiette. “Stanno suonando la nostra canzone” (Loretta Goggi e Gigi Proietti, 1981), non vale più. Seduti accanto, ne ascoltiamo ciascuno una diversa.





I migliori oggetti della nostra vita, raccontano chi eravamo e che cosa siamo diventati. Com’è cambiata la società, che progressi ha fatto la salute, quanti diritti abbiamo acquisito e quanta poesia abbiamo perduto. Gli sforzi che non facciamo più, e i pericoli che corriamo quando la nostra vita viene sbattuta nella grande piazza virtuale della rete, che virtuale non è, perchè ferisce e uccide, come la cronaca di questi giorni insegna.


S’intitola così, “I migliori oggetti della nostra vita”, il libro che la giornalista e storica Marta Boneschi ha pubblicato per Il Mulino (pagg. 350, euro 35,00). Una lunga galoppata - con spunti da pubblicità e musica, cinematografia e moda, politica e letteratura - attraverso il trionfo della meccanica, l’avanzamento della chimica e della fisica, l’avvento dell’elettronica e dell’informatica lungo il Novecento. Un progresso, parallelo a quello del costume e della mentalità, che neppure due guerre mondiali sono riuscite a interrompere e che ci ha fatto approdare all’oggi, dopo settant’anni di pace e un lungo periodo di crescente benessere, alla crisi, alle fragilità sociali, alla stagnazione economica e demografica.



La scrittrice Marta Boneschi


Ma i migliori oggetti, corrispondono ai migliori anni della nostra vita? In quel 1957 che vide l’apertura del primo tratto dell’Autostrada del sole, il nastro d’asfalto che unirà il paese, come nell’Ottocento la rete ferroviaria, portando lavoro e benessere in molte terre d’emigrazione, il padre di famiglia milanese avrebbe risposto un “sì” convinto: «Risparmio un’ora per andare a Forte dei Marmi». E Carlo Emilio Gadda sull’infrastruttura della modernità vede già correre non solo le auto del nuovo benessere, ma il cambiamento delle donne italiane: «coi capelli castani lisci che ricadono loro sulle spalle, sul tailleur grigio, con calmi occhi alla strada, all’autostrada, spingono la loro Millecento o la loro Alfa in una corsa elegante, liberatrice».



L'autostrada del Sole


In fondo, gonne e chiome si sono già accorciate e la biancheria non è più quell’inestricabile armamentario di nodi, bottoni, lacci e fermagli che D’Annunzio celebrava nel “Piacere”: i misteri dell’intimo vengono dissepolti e nel 1956 perfino l’occhiuta tivù pubblica italiana, che scherma le gambe alle ballerine, manda in onda una Maria Luisa Garoppo, ventitreenne tabaccaia di Casale Monferrato e concorrente di “Lascia o raddoppia?”, con un reggiseno che spara e mostra molto di più della guêpière disegnata da Jean-Paul Gaultier per Madonna nel 1990.


Ma non è solo questione di biancheria. Dal frigorifero alla lavatrice, l’era industriale penetra in cucina, libera la donna dalle incombenze pesanti e, man mano che le domestiche si trasformano in operaie e gli elettrodomestici diventano alla portata di tutti, contribuisce alla democrazia sociale.

La plastica? Ormai ha ricoperto il pianeta, ma la sua invenzione fu paragonabile a quella della ruota: dal brutto Pvc dei serramenti, al bel Pvc per i vinili del boom post-bellico della musica, dal cellophane ingombrante degli imballaggi a quello lavorato all’uncinetto con cui Salvatore Ferragamo, il ciabattino delle stelle, realizzò la tomaia delle scarpe, nella povertà operosa della seconda guerra mondiale.

I farmaci hanno fatto il resto: nei primi del Novecento l’aspettativa di vita era di 45 anni, oggi è di 80. Il pensiero della morte non è più così incombente, piuttosto siamo assillati dall’eterna giovinezza. In campo sessuale, poi, il secolo breve abbatte muri: con gli anticoncezionali la pratica del sesso viene separata dalla procreazione, e, con la fecondazione assistita, la procreazione dalla pratica del sesso.


Quella pillola per inibire l’ovulazione, scoperta dal chimico americano Gregory Pincus, ha rivoltato la società civile, la mentalità, la morale. Nel 1968 è in vendita anche in Italia, dopo Usa, Gran Bretagna e Francia. Ma la strada sarà lunga. Nel ’69, il primo ministro canadese Pierre Trudeau commenta: «Non c’è più posto per lo Stato nelle camere da letto di questa nazione». Per il giurista ultracattolico Gabrio Lombardi, invece, la contraccezione «toglie alle donne la miglior difesa della loro virtù», cioè la paura.
Che anni, comunque. Anche non fossero i migliori.

@boria_a

mercoledì 9 novembre 2016

L'INTERVISTA

Paolo Legrenzi: "E' colpa della testa se perdiamo i nostri soldi"







Come investire i propri soldi in uno scenario in continuo cambiamento senza rischiare di restare al verde o di affidarsi all’imbroglione di turno? Molti pensano che gestire i risparmi con oculatezza sia questione prima di tutto di dimestichezza con la materia. Al contrario, spesso non è la specifica ignoranza su economia e finanza a metterci nei guai, ma i nostri stessi difetti: pigrizia, paura ed emotività. Paolo Legrenzi, professore emerito di Psicologia a Ca’ Foscari di Venezia, e Armando Massarenti, filosofo della scienza e responsabile del supplemento culturale del Sole 24 Ore, lo spiegano in un vero e proprio manuale sulle trappole che fanno perdere soldi, “L’economia nella mente” (Raffaello Cortina Editore, pagg. 149, euro 12,00). Con uno stile colloquiale, molti esempi e regolette di buona condotta a chiusura di ogni capitolo, i due autori ci mettono in guardia: insistere su scelte già sperimentate, cedere alla paura di fronte a un imprevisto, fidarci di altri e non informarci in prima persona, lasciare che le nostre emozioni abbiano la meglio sull’analisi obiettiva degli scenari, può mandare in fumo un capitale. L’abc economico, insomma, può poco se la nostra mente perde il controllo.


Paolo Legrenzi


Professor Legrenzi, perchè la fonte dei guai capitati di recente ai risparmiatori è nella loro testa? «I comportamenti economici sono filtrati dalla mente umana. E non possiamo capirli senza capire come pensano, come ragionano, come si emozionano le persone. I fatti economici, le truffe, gli imbroglioni sono ovunque nel mondo: nelle banche, nei governi, nelle scelte politiche. Ma ci sono delle precondizioni perché tutto ciò avvenga e sono dentro di noi, nascoste nelle pieghe del nostro pensiero, nei modi in cui funziona la mente umana. Quindi non si tratta solo di analizzare i fatti, ma anche di analizzare noi stessi: dobbiamo renderci conto di come imbrogliamo noi stessi, prima di farci imbrogliare dagli altri».
 

Molti dei risparmiatori che hanno perso tutto nel tracollo delle quattro piccole banche italiane del 2015 erano dipendenti delle banche stesse. Qui non c’entra l’ignoranza... «Certo che no. Una commerciante di Chiusi della Verna in provincia di Arezzo, paese con il record di persone truffate dalla banca del luogo, ha dichiarato con amarezza di essere stata ingannata perché ignorante in materia di economia. In questo caso è stata ingannata due volte: primo per la truffa in sè e, secondo, perché ritiene che la causa dei suoi guai sia solo l'ignoranza in materia di economia. Eppure anche gli impiegati di banca avevano comprato gli stessi prodotti dei risparmiatori, quindi hanno commesso gli stessi errori. Fare le cose giuste per i propri risparmi deriva dal conoscersi. E non sapere come funzionano i meccanismi dell'economia e della finanza è la parte meno rilevante dell'ignoranza di cui parliamo. Ne esiste una più grave, che ha a che fare con i meccanismi che governano le nostre emozioni e i nostri pensieri. Questi spesso si trasformano nei veri nemici dei nostri risparmi».

Parliamo di emotività e irrazionalità? «Il primo comportamento sbagliato è basarsi su quanto è accaduto in passato. E come se guidassimo guardando lo specchietto retrovisore. Il mondo cambia e noi non ce ne accorgiamo. L'emotività è la causa principale dei nostri errori. E poi c’è la paura. Abbiamo paura delle cose paurose e non di quelle davvero pericolose. Per esempio, affidare tutti i risparmi a una sola banca che li investe in un solo prodotto della banca stessa. Chi l'ha fatto credeva di aver adottato un comportamento prudente, in realtà aveva fatto una cosa molto pericolosa di cui non si accorgeva. Diversificare la destinazione dei propri risparmi è meno pericoloso che concentrarli in un unico prodotto».


La fiducia nel consulente è un errore? «Anch’essa fa parte della pigrizia. Affidiamo ciecamente a qualcuno quello che ci è costato un’enorme fatica mettere insieme per tutta la vita e non facciamo neanche un millesimo di quella stessa fatica per capire che cosa si deve fare e dove investire. La delega totale può portare a delusioni cocenti. Qui entrano in gioco emozioni, considerazioni personali e confidenze che non hanno nulla a che fare con il benessere dei risparmi, quanto piuttosto con la serenità del risparmiatore. Nel caso poi dei dipendenti bancari truffati, si tratta di una doppia pigrizia, anzi di un misto di pigrizia e superbia». 



Armando Massarenti e Paolo Legrenzi a Pordenonelegge 2016


Nel libro fate un parallelo tra la gestione dei nostri soldi e lo sport. Ci sono errori comuni? «Pensare che le cose siano semplici e intuitive. Una forma di superbia insidiosa, che ci induce a pensare di potercela fare da soli. Questa illusione caratterizza anche il mondo dello sport. Nel libro facciamo l’esempio di Roger Bannister, il primo a correre il miglio sotto i quattro minuti, il 6 maggio 1954 sul percorso della Iffley Road a Oxford. Bannister era uno studente di medicina, sapeva che non si trattava solo di andare più veloce degli altri. Divise il miglio in porzioni, cronometrò il tempo di ciascuna porzione e le correlazioni tra loro. Lo stesso metodo si applica ai risparmi. Pensiamoli come una torta, dividiamola in pezzi e vediamo come ciascuno si comporta in funzione degli altri. Questo concetto di fondo trova applicazione in molti ambiti diversi. E il libro è un manuale proprio per imparare come applicarlo nella gestione del proprio patrimonio. Pensiamo al dolore enorme che causa la perdita del denaro, magari frutto del lavoro di tutta una vita, quindi messo insieme con grande fatica, rispetto ai pochissimi sforzi che si fanno per tutelarlo al meglio».



 
Roger Bannister


 

Consulente finanziario come allenatore? «Gli esempi sono due: Claudio Ranieri, che ha portato il Leicester a vincere la English Premier League e l’ex allenatore di volley azzurro Julio Velasco. Ranieri ha saputo analizzare i dati e le prestazioni del passato e ha trovato la formula vincente. Per trent’anni non aveva avuto grandi successi, imparando a essere modesto e a costruire un rapporto empatico con i calciatori, che al Leicester non erano divi costosi ma venivano comunque da storie e culture diverse. Per Velasco era importante la formazione costante dei giocatori, l’analisi dettagliata delle partite giocate e l’accettazione dell’impossibilità di prevedere tutti gli eventi, pur senza perdere il controllo delle circostanze. In entrambi i casi sono cruciali armonia e spirito di gruppo, non farsi scoraggiare e non perdere il controllo. Se pensiamo al portafoglio come a una squadra e ai giocatori come ai propri clienti, per costuire un rapporto duraturo il consulente deve applicare gli stessi principi».


Claudio Ranieri


 
Julio Velasco



E' vero che col consulente finanziario funziona un po' come con il compagno di vita? «Nelle coppie consolidate, dove la fiducia è ormai cementata, il rapporto è simile. L'innamoramento serve a conoscersi e a gettare le basi di un futuro impegno duraturo. Anche il consulente deve piacerci, perchè non sarà mai un puro tecnico che conosce tutte le risposte. E' una questione di equilibri. Nella vita e nei risparmi possono capitare delle svolte, quindi è necessaria una salda fiducia reciproca. Il cliente deve fidarsi del consulente, ma deve anche accettare che non potrà cogliere tutti i dettagli».


Qualche regoletta per non ritrovarsi al verde? «Separare il bene rappresentato dai risparmi dal proprio benessere personale, compresi i sentimenti di amicizia e confidenza. Trovarsi bene con chi gestisce i nostri risparmi non è una garanzia: non è detto che questa buona relazione si traduca automaticamente nel benessere dei nostri soldi. Secondo punto: non bisogna continuare a compiere scelte che hanno funzionato in passato. Abbiamo già fatto l’esempio del guidare guardando lo specchietto retrovisore. Se ripetiamo quello che ha già funzionato, ci muoviamo verso il futuro con gli occhi rivolti indietro, cioè senza tener conto della nostra attuale situazione personale nè di quella dei nostri risparmi. Ancora un punto: non presumere troppo di se stessi». 
@boria_a

domenica 6 novembre 2016

MODA & MODI

Una libertà che costa pochi denari


Qualcuno dirà: potenza di Julia Roberts. O di una pubblicità surreale che centra in pieno il suo obiettivo: agganciarci al prodotto. Pretty woman si aggira tra gli espositori, anonima al punto che una cliente le chiede di allungarle una confezione collocata a un'altezza proibitiva per comuni mortali, e un'altra le consegna il neonato da spupazzare mentre si prova i collant. Quando Julia esce, abito corto e gambe inarrivabili in primo piano, ecco l'inquadratura sull'oggetto del desiderio: le calze velate. Possibile che siano di nuovo tra noi? Che surrettiziamente si siano annidate nei nostri cassetti? L’anno scorso il dibattito era molto più secco: gambe nude o gambe coperte.


L’aveva sollevato nientepopodimeno che l’autorevole Guardian, rivendicando per le donne normali il diritto a quei collant protettivi, confortevoli, resistenti, pratici per i mezzi pubblici e i piccoli e grandi trabocchetti delle incombenze di ogni giorno, smagliature in testa, contro l’esercito delle fashioniste, sempre a pelle nuda ai bordi delle sfilate o nelle auto di Uber che le scarrozzano da un appuntamento all’altro. Noi infilate nelle calze spesse, loro infilzate sugli stiletto, le estremità abbronzate e perfette in barba alle stagioni, esposte spavaldamente ai rigori dell’inverno.
In questa diatriba, per la via di mezzo non c’era posto. O tutto o niente, o nudo o opaco. 





E invece il 2016 ci restituisce la calza velata, quel nero trasparente, ombroso, penitente e penitenziale, sempre un po’ legato all’idea del mezzo lutto e della signora nella mezza età, che nasconde le imperfezioni e trasmette ordine e appropriatezza in ogni circostanza.


Ma è davvero così? In giro il panorama è cambiato. La “mezza misura”, tra il nero e il nudo integrale, si prende la sua rivincita. “Mezzo” è bello. Le calze velate sfoggiano un piglio trasgressivo, le portano le ragazzine con i miniabiti, dentro gli stivaloni a metà coscia, sotto gli adorati micro jeans (che così si riconvertono in capo anche invernale, con buona pace delle genitrici ).


Julia Roberts è la testimonial perfetta per suggerire: non è questione di età. Chi le indossa si allunga e piroetta, mostra le gambe (anzi, se può le esibisce) ma senza ostentare di far parte di una categoria di coccolate e privilegiate. E se le intellettualoidi continueranno a privilegiare il total black, così schermante e minimale, signore di ogni età sono pronte a riconsiderare i vantaggi della semi-trasparenza. Pochi “denari” comprano la libertà.