lunedì 25 febbraio 2019

MODA & MODI

Favorita regale










C’è un rapporto stretto tra Olivia Colman e quello che indossa, sul set e fuori. Chi l’ha amata subito nella serie della Bbc “Broadchurch”, ricorda i suoi tailleur pantaloni color topo e le camicie maschili, un’uniforme anonima da poliziotta di provincia che su di lei era un segno di identità preciso. Lo stesso è accaduto in un’altra serie tv, “The night manager” dove, già in avanzata gravidanza e interpretando un agente segreto, faceva dei pantaloni dalla cintura estensibile e dei golf a tenda, capi obbligati di qualsiasi gestante, un messaggio diretto su maternità e autorevolezza. Perfino le camicie da notte cariche e ingombranti, in cui la regina Anna Stuart ne “La Favorita” di Lanthimos, trascorre buona parte della sua malata, capricciosa e perversa intimità, addosso a Olivia Colman trasmettono potenza.

Dagli schermi ai red carpet, l’attrice conferma la sua spontanea capacità di comunicare attraverso il vestito e il modo di portarlo. Consigliata dall’ex stylist di Vogue Mary Fellowes, sceglie abiti firmati da donne che, come lei, lavorano e hanno una famiglia, da brand attenti alla sostenibilità o che promuovono una moda alla portata di tutti. Ai Golden Globes 2019, una tunica nera con strascico di Stella McCartney, con maniche e spalle a rete, al photocall del Festival di Venezia una tuta di Roksanda, agli australiani Aacta Awards un abito con corpetto a cappa, blu topazio, del brand indiano Varana: tutti pezzi puliti, decisi, con un unico dettaglio importante, nel taglio o nell’accessorio.


Domenica, sollevando la statuetta dell’Oscar, in un sontuoso e monacale abito smeraldo di Prada, con scialle color ferro che, dal busto, gira sulla schiena in fiocco e poi si apre a strascico, non ha fatto eccezione. Regale (anche nel ricordare dal palco Glenn Close, il suo "idolo", che per la settima volta è rimasta a bocca asciutta. Un gesto di grazia...).
@boria_a
MODA & MODI


Politically ipocriti




Prima lo spot di Dolce&Gabbana con la giovane donna cinese che non riesce a mangiare pizza, spaghetti e un cannolo con i bastoncini. Poi la scimmietta Otto di Prada, accusata di “blackface”, ovvero di scimmiottare, è il caso di dirlo, il make up con cui gli attori bianchi interpretavano i neri, caricaturandone i tratti somatici. Ultimo in ordine di tempo il maglione-passamontagna nero di Gucci, con l’apertura per la bocca fortemente sottolineata in rosso, pure lui tacciato di razzismo.

A caricare la dose, il regista Spike Lee, che, a pochi giorni dal red carpet di Los Angeles, dove è ancora una volta candidato all’Oscar per “BlaKkKlansman”, ha fatto sapere al mondo di boicottare entrambi i brand, invitandoli ad assumere stilisti neri in grado di discernere l’opportunità di certe scelte. La rete fa il resto, surriscaldando la sua sconfinata platea. A dare il via alla caccia a Otto, un’avvocata attivista di New York che, avvistato l’animale-accessorio in una vetrina di Soho, l’ha inchiodato su Facebook. 

Stessa sorte per il maglione Gucci, che un’utente ha postato su Twitter giudicandolo offensivo nel “black history month”, il mese di febbraio, quando Usa e Canada celebrano la diaspora africana.
Prada e Gucci, brand aperti e inclusivi, hanno ritirato subito i pezzi contestati con tante scuse. Ma di che? Dolce&Gabbana, certo sessisti più che razzisti, (“è troppo grande per te?” suggeriva alla ragazza una voce maschile fuori campo...) si sono goffamente cosparsi il capo di cenere senza nemmeno provare a chiarire la loro scelta promozionale, per quanto poco felice.


Il maglione Gucci accusato di razzismo


Trionfa un politically correct acritico e un po’ untuoso. E la moda, dove la libertà è (o dovrebbe essere) la regola, per l’interesse economico sfoggia una gigantesca coda di paglia.

domenica 10 febbraio 2019

IL LIBRO


 Manuel Vilas: La memoria dei genitori e delle cose, in tutto c'è stata bellezza








I genitori che abbiamo avuto, quelli che siamo. Il nostro essere figli e i nostri figli. Il pudore degli affetti, i gesti mancati, i silenzi. Le case, le fotografie, gli oggetti. L’umile materia che ci accompagna mentre la vita scorre e che non seppelliamo, anche «se c’è gente a questo mondo che ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano».

“In tutto c’è stata bellezza”, dice lo scrittore Manuel Vilas. E così s’intitola l’edizione italiana del suo libro, un caso editoriale in Spagna nel 2018, come l’anno precedente “Patria” di Fernando Aramburu, e ora pubblicato da Guanda (pagg. 409, euro 19,00) nella traduzione di Bruno Arpaia.


“Ordesa”, il titolo originale, è una valle montana della parte spagnola dei Pirenei, che il padre di Manuel, commesso viaggiatore, tanto amava. Ci portò tutta la famiglia per una breve vacanza, nel 1969, quando lo scrittore aveva sette anni, guidando con orgoglio la sua Seat bianca dal paese di Barbastro, dove vivevano. Bucarono una gomma, quella mattina di luglio, ma il padre la cambiò fischiando, sorridendo, perchè era in mezzo alla natura, nel suo regno, e «tutto era futuro, allora, quando ci fu la foratura».


A Ordesa, Manuel torna cinquant’anni anni dopo, da uomo divorziato e solo, un passato da alcolista e due figli adolescenti per i quali è quasi un estraneo. Guarda le pietre e cerca il posto dove la ruota si afflosciò: è rimasto solo lui a ricordarlo, a custodire e trasmettere quell’episodio che è il paradigma di un patrimonio di legami, di una condivisione dalle radici antiche, il senso di una famiglia. Il padre è morto nel 2005, la madre nel 2014. Poco dopo lui ha smesso di bere. E Ordesa non è solo un luogo fisico, ma un momento che ne illumina altri, li riscatta dall’oblio, in quel lento ritorno alluvionale della memoria a cui si aggrappa per uscire dalla condizione di “orfanità”.



Manuel Vilas


Sembra di sentirlo raccontare, Manuel Vilas, mentre scorrono i capitoli del suo poetico, nudo, lacerante monologo, trafitto da brevi tratti di ironia. Persone e oggetti, entrambi testimoni di una storia domestica e universale, in cui è immediato riconoscersi e sentirsi avviluppati, che escono dal passato con la potenza dell’affetto per sottrarre l’autore alla sua solitudine.


I genitori belli e controcorrente - il padre elegante e silenzioso, la madre passionale, “una dea arcaica”, con le unghie laccate di rosso fino alla fine e la ricerca indefessa della parrucchiera giusta - una coppia che riempie e appaga gli occhi del bambino, gratificato dal sentirsi figlio loro. Sullo sfondo la Spagna degli anni Settanta, con l’aspirazione degli elettrodomestici, la classe media fiera di quelle Seat nazionali delle prime vacanze (fedele a quest’unico marchio, in cui identificava l’essenza stessa del suo paese, il padre la parcheggiava sempre all’ombra, odiando lui stesso il sole, quasi l’auto fosse una sua propaggine...) la lotta per la promozione sociale, la casa con l’ascensore, gli amici.


Poi, per Manuel, un lavoro da professore poco gratificante, il matrimonio e i figli, un’infedeltà che la telefonata inopportuna della madre rivela alla moglie, il divorzio («allora capii che la morte di un rapporto è in realtà la morte di un linguaggio segreto»), l’alcol. E sono poche, ma tremende, le pagine dedicate alla dipendenza, quando, dopo la concessione di un prestito trentennale, passa il pomeriggio a bere vino in un bar, stramazza per strada e si risveglia in un pronto soccorso ostile, col terrore che qualcuno dei funzionari di banca l’abbia visto perdere i sensi e crollare al suolo.
Infine, la scrittura. Il libro che, per sua stessa ammissione, è «come una lettera d’amore a mio padre e a mia madre». Una tensione a recuperare anche le parole mai pronunciate in famiglia, quelle sulle vicende dei nonni, per esempio, che uscivano da povertà e guerra civile, ed ebbero destini tremendi, uno la prigione franchista, l’altro il suicidio. Una narrazione lenta, misurata ma a tratti scarnificante, da cui emerge la forza rigenerante degli affetti, del prendersi cura della memoria come di se stessi, per sopravvivere e accettarsi nelle fragilità e nei limiti.


Metà novembre 1961. Vilas visualizza la stanza dove è stato concepito. I genitori entrambi giovani, che si preparano a chiamarlo dall’oscurità, a convocarlo alla vita. «Nel loro piacere c’è la mia origine, nella loro malinconia dopo l’amore c’è la creazione dell’insaziabilità del mio spirito». Ed è lì, in quella stanza, che è passata la bellezza. 

@a_boria

sabato 2 febbraio 2019

MODA & MODI

La ciabatta antagonista 





Tu chiamalo, se vuoi, l’oscuro fascino attrattivo delle Birkenstock. Ma la storia nella moda non insegna nulla? Ci aveva già provato Burberry, esattamente quattro anni fa, a redimere lo spirito del sandalo germanico per farne una calzatura fashionista, anzi “the field sandal”. Un tocco di colore, un po’ di lifting alla pelle, ed ecco l’illusione di trasformare la ciabattona in un accessorio ”2.0”, un must have, ovvero un “mai più senza” della stagione modaiola in corso.

Avrà pure tanti difetti, sarà la scarpa più divisiva del mondo, ma non si può certo dire che la Birkenstock manchi di autoreferenzialità. Con buona pace di Burberry, della versione birk glamour, sandaletto da risvoltino, non è rimasta traccia. Adesso ci riprova Valentino e si spinge oltre. Sulle passerelle maschili per l’autunno inverno 2019-2020, ecco l’ultimo plagio deluxe: versione nera con logo laterale o versione in pelle total rosso, da portare, per rispetto all’ortodossia birkenstockiana, con l’immancabile calzetto (e sborsando ben oltre trecento euro).

Chiaro che l’operazione si fonda su un accordo commerciale, una delle tante collaborazioni tra brand, che puntano a nobilitare l’abbigliamento per tempo libero o sport e a “democratizzare” le griffe del lusso, a caccia di nuove fette di mercato, soprattutto millennial tutti logo esposto. Ma la Birkenstock, siamo sicuri, resisterà ancora una volta alle nozze combinate. Spartana, ispida, con un dna poco addomesticabile, ciabatterà lontano dall’ennesimo pretendente di sangue blu e tornerà a solcare le strade del mondo, ai piedi di milioni di fan, nella sua autentica e indomita sobrietà. Un’antagonista che non va all’apericena. —