mercoledì 24 aprile 2019

MODA & MODI

Vale tutto e il suo contrario

I vestitoni a fiori. Le borsette mignon con le perle, come quelle delle bambole. I pantaloni a zampa. Le gonne e le salopette di jeans. Gli abiti fatti all’uncinetto. I cappelloni e i cardigan. Le vetrine della primavera sono una galleria del passato prossimo, una filologica passeggiata all’indietro.

Ecco gli anni Settanta, con le fantasie floreali, le camicie e gli abiti retrò ispirati alla biancheria delle nonne, le gonne a balze e i tessuti grezzi color sabbia, la corda e il sughero su cui marciavano le prime sensibilità green. Gli Ottanta portano le microgonne abbottonate davanti e le tute in denim, i pantaloni a vita alta, le cinturone e i tailleur pantalone dai colori gridati, nuova divisa delle donne in carriera cui servono spalle larghe e molto imbottite.

I Novanta si annunciano sotto una pioggia di paillettes e colori fluo, con le panterate in animalier e piattaforme da installazione, orgogliose di brandizzare ogni centimetro di guardaroba.

Decenni contraddittori e inconfondibili della moda si squadernano davanti a noi in contemporanea, in una linea del tempo piatta. Non è il normale corso e ricorso che, ogni due stagioni, ripropone linee, tagli, tessuti e accessori del passato come novità cult, è un’abbuffata di citazioni da un arco temporale che ha visto cambiamenti epocali, nella società e nella moda.

Nel calderone di oggi tutto è neo gipsy, sporty chic, boho glam, per dire che convivono la contestazione e l’esagerazione, la figlia dei fiori e la manager, l’impegno e il disimpegno. In tempi di confusione globale, la moda moltiplica le rappresentazioni, accumula piuttosto che prendere una direzione. Un album ampio, senza “in” o “out”. Un profilo Instagram privo di profondità, dove ognuno può pescare il sogno o la corazza dentro cui rifugiarsi. 
@boria_a

lunedì 15 aprile 2019

IL LIBRO

I Goldbaum, amore e potere di una dinastia di banchieri nella bufera della Grande guerra







Così ricchi, da avere le loro proprie favole, al posto di Esopo e dei fratelli Grimm. Quella sul bisnonno, per esempio, che si era giocato le sue quattro monete antiche fino a trasformarle in un mare d’oro alla corte di un principe benevolo. O quella del vecchio Moses, che aveva smistato i suoi cinque figli nelle capitali finanziarie d’Europa, dando a ciascuno un frutto di sicomoro d’argento, simbolo di resilienza, e la promessa di poter attingere alla linea di credito paterna. Così la storia diventa favola e viceversa: cinque fratelli fondano cinque banche e si trasformano in cinque cardellini su un ramo di sicomoro nello stemma di famiglia, il simbolo di un impero in grado di rivaleggiare con le casate reali.

Loro sono i Goldbaum. Ricchi, potenti, influenti. Ed ebrei. Collezionano palazzi e debiti dei governi, uova Fabergé e cavalli da corsa, arte e gioielli. Sulla Heugasse di Vienna, nel 1911, la loro dimora, costruita nella pietra bianca più bella d’Austria, abbacina. Ogni giorno, a dispetto di telefoni e telegrammi, i corrieri attraversano gli stati su cavalli velocissimi, portando documenti sigillati con informazioni scritte in yiddish, la lingua che li mette al riparo dalla curiosità degli estranei e ricorda le umili origini da cui sono venuti. I piccoli di casa li credono cavalieri di una favola, spesso sono cugini di grado lontano, esclusi dalle leve di comando ma messaggeri affidabili.


Chi sposano i Goldbaum? Solo altri Goldbaum, come nelle dinastie di sangue blu, per mantenere ricchezza, influenza, informazioni e titoli di credito sotto il controllo della famiglia. E così, l’intelligente e ribelle Greta è costretta a lasciare le sue frequentazioni nella vivace Vienna di inizio secolo per trasferirsi a Londra, dagli ancor più facoltosi Goldbaum inglesi, e diventare la moglie del cugino Albert, subito ribattezzato “il povero Albert”, per un’infreddatura che lo tiene lontano dalla sua stessa festa di fidanzamento. Lui ama le farfalle, di cui ha un’imponente collezione, lei non si fa conquistare nemmeno da quella con l’ala di brillante giallo Goldbaum 26 carati, perfetta riproduzione di un esemplare scoperto da Albert e non identificato, che lui ha voluto chiamare Greta aurum come poetico regalo di nozze. Non c’è da meravigliarsi che il primo approccio sessuale tra i giovani coniugi, in mezzo alle bacheche di coleotteri a cui Greta finge di appassionarsi pur di perdere la verginità, finisca con un vetro infranto e una pioggia di “cose orrende” tra i capelli della sposa. Tra i due giovani si instaura una gelida antipatia e le signore spettegolano su quella vita di vespa che non accenna ad allargarsi.


In una celebre battuta della serie televisiva Downton Abbey, la matriarca Lady Violet, sullo schermo Maggie Smith, dice: «Noi Crawley non facciamo mai matrimoni sbagliati». Non può esserlo nemmeno quello tra i giovani Goldbaum, fusione di patrimoni e di potere, che pian piano diventerà anche intesa sentimentale e sessuale, complice una farfalla che Greta, vincendo il disgusto, cattura per Albert, ma soprattutto del regalo che riceve dall’accorta suocera: un centinaio di acri di terreno a coltivare senza regole, uno spazio fisico di libertà e indipendenza, sottratto alle rigide regole della dimora di Temple Court.


Sullo sfondo della vicenda familiare e societaria, ispirata alla dinastia Rothschild, monta la bufera della storia. La prima guerra mondiale riuscirà a dividere quello che l’interesse e l’accortezza (anche nel tagliare i rami indisciplinati: il legittimo erede Clement, col vizio del gioco, viene subito emarginato in una villa sul lago di Ginevra) hanno sempre tenuto unito e fatto prosperare. Austria, Inghilterra, i fronti si dividono. E Albert, costretto ad assumersi la responsabilità per il fratello reprobo, si rende conto per la prima volta che gli interessi della nazione e della famiglia non coincidono e che il conflitto è l’incudine che si abbatte a spezzare gli anelli della catena Goldman in Europa. Anche l’identità ebraica solleva nuovi interrogativi sulla destinazione dei flussi di denaro: è giusto finanziare gli antisemiti?


Attraverso un’intensa storia d’amore (“I Goldbaum”, Neri Pozza, pagg. 478, euro 18), Natasha Solomons esplora le pieghe di un drammatico passaggio storico, con delicatezza e una vena di ironia. Quando Albert ritorna dal fronte, ripartono i messaggeri con la buona notizia per le altre case d’Europa e i due sposi si abbracciano sotto la neve, tra i ciliegi già in fiore. Perché se i Goldbaum non hanno il potere di fermare le guerre, possono sempre costruire le loro favole. 

@boria_a

giovedì 11 aprile 2019

LA MOSTRA

A Gorizia
dal baule griffato Vuitton
gli accessori
dei conti Coronini
influencer ante litteram 



Carmen Coronini Cronberg nel 1907

 
Francesco Coronini Cronberg nel 1920





Icona di moda ante litteram, il conte Francesco Coronini Cronberg. Guarda l’obiettivo del fotografo, con la mano guantata che regge il lungo bocchino, in una foto da studio degli anni Trenta. I guanti, accessorio indispensabile del gentiluomo, sono congeniali al profilo da dandy ventenne: li tiene in mano, in primo piano, in un’altra immagine in posa, il bastone da passeggio al braccio, in testa un Borsalino di feltro morbido. Li indossa per necessità, ma anche per civetteria, in pelle pesante dai polsi svasati, mentre addestra la sua aquila, quasi in dialogo con il dipinto “Ritratto di giovane con falcone”, della metà del XVII secolo, esposto nell’atrio del palazzo di famiglia.

L’eleganza nel dna. La madre di Francesco, contessa Olga, ultraottantenne negli anni Cinquanta, passeggiava per Gorizia al braccio della figlia Nicoletta, in impeccabile mise total black, guanti e cappello compresi, con un unico guizzo di bianco: lo jabot di pizzo Valenciennes appuntato sull’alto collo della blusa, secondo l’uso del secolo antecedente.
Immaginiamo di aprire il baule degli anni Settanta dell’Ottocento, raffinato complemento da viaggio della griffe Louis Vuitton e lasciamo uscire gli accessori degli ultimi discendenti della famiglia Coronini: ventagli, borsette, cappelli, guanti, scialli, merletti, fazzoletti, bastoni, tabacchiere e astucci laccati o smaltati, ovvero le “galanterie” che corredavano gli outfit di nobildonne e gentiluomini, carnet da ballo e la boccetta porta sali, in caso di svenimenti veri o di convenienza.



Baule di Vuitton, 1870, in pelle, legno e tela impermeabile, con coperchio piatto e non bombato (un'autentica novità)


Oltre centoquaranta pezzi compongono la mostra “L’indispensabile superfluo”, che si inaugura venerdì 12 aprile 2019, alle 17.30, a Palazzo Coronini Cronberg e sarà visitabile, tra scuderie e sale della dimora, in un percorso arricchito dai dipinti e dalle fotografie, fino al 10 novembre. Curata da Cristina Bragaglia Venuti, con un ricco catalogo (edito dalla Leg) che ospita anche l’intervento di Raffaella Sgubin, la prima storica dell’arte, la seconda storica della moda, la mostra racconta il dress code di una famiglia aristocratica e i vizi e vezzi di un’epoca, attraverso accessori che coprono un arco temporale che va dal ’600 - con una preziosa bordura da collo di merletto - a metà ’900.



Complementi, decori, “fronzoli” costituiscono il patrimonio glamour lasciato dal conte Guglielmo, fratello minore di Francesco e ultimo discendente, scomparso nel 1990: oggetti raccolti, conservati e tramandati tra le generazioni (i decori in pizzo, merletti, paillettes, vera e propria ossessione familiare, venivano certosinamente “staccati” dai vestiti e custoditi), perchè non soggetti all’usura del tempo come gli abiti, ma in grado di evocare con la stessa vividezza i gusti, le suggestioni, i riti sociali.


Il baule di  Louis Vuitton - all’epoca griffe del viaggio per eccellenza - è uno dei pezzi di maggiore pregio: in tela impermeabile e coperchio piatto (che favoriva il trasporto) è un’assoluta novità, un oggetto di tendenza. Come una borsa appartenuta a Carmen, sorella del conte Carlo, trasferitasi a Vienna agli inizi del Novecento per studiare medicina e rimasta a vivere nella capitale austriaca, dove esercitò da brillante anatomopatologa. Carmen morì nel 1968 e, priva di eredi, lasciò gioielli, arredi e opere d’arte al nipote Guglielmo, che li riportò a Gorizia insieme ad altri oggetti personali, tra i quali un’autentica chicca: la pochette realizzata dal dipartimento di moda della Wiener Werkstätte, innovativo laboratorio di design legato alla Secessione viennese.


Tra i pezzi più importanti, oltre una ventina, ci sono i ventagli, alcuni nelle scatole originali, dal XVIII al XIX secolo: Rococò, brisé, ossia con stecche rigide unite da un nastro, in neoclassico e neogotico, ventagli della prestigiosa manifattura parigina Alexandre, in pizzo o con piume di struzzo, strumenti di un codice di seduzione codificato nell’Ottocento da manuali e riviste di moda. E poi gli accessori in merletto - colli, colletti, polsini, fazzoletti, scialli e cuffie - che ripercorrono l’evoluzione degli ornamenti da collo, dalle rigide gorgiere testimoniate nei dipinti degli antenati, fino alla collezione di cravatte e papillon del conte Francesco. Al fratello Guglielmo, appassionato di Bidermeier, stavano invece a cuore gli scialli in cachemire, i cui esemplari in mostra provengono dai vari rami della famiglia, e i due mézzari genovesi, ampi scialli dai decori orientaleggianti, che il conte acquistò nel ’59 per esporli nella sua camera da letto e che ora sono stati restaurati e restituiti alla bellezza dei colori di fiori e animali, di ispirazione francese.



La pochette uscita dal laboratorio di design della Wiener Werkstatte


Ventaglio inglese d'avorio del 1790 circa. Nella tempera Coriolano con la madre e la moglie


Come indossare il cilindro, abbinato obbligatoriamente al frac, ce lo mostra ancora una volta il conte Francesco, immortalato in foto nel suo copricapo proveniente da un negozio di Trieste al matrimonio dei cugini Adamovich, negli anni ’50. Gli altri due esemplari di cilindri aprono altrettanti capitoli di storia della moda: il primo, con tanto di cappelliera, appartenuto al conte Oscar Cassini, vice ammiraglio della imperial-regia marina austriaca, uscì nella succursale berlinese del negozio di Preter e Carl Habig, fornitori della corte viennese; il secondo, della manifattura inglese Victor Jay e Co., fu acquistato a Vienna, da Joseph Prix, negozio cult per la moda maschile e anch’esso fornitore di corte.




E le signore? La contessa Olga e la figlia Nicoletta ordinavano i cappelli dalla goriziana Rosa Mungherli, che, nel momento di massimo successo, aveva ben dieci lavoranti. Alla morte della titolare, nel 1960, l’atelier passò alla figlia, “Rosuta”, amante del canto e poliglotta, che a sua volta rimase in affari fino al 1987. Rosa Mungherli vendeva modelli “basic”, adatti a ogni tasca, ed erano poi le clienti a personalizzare l’accessorio, in base all’estro e al censo, come faceva la regina Vittoria d’Inghilterra.

La più eccentrica, in fatto di cappelli, è però zia Carmen: nel 1907, giovanissima, sull’abito bordato di pizzo e vita di vespa, sfoggia un copricapo ornato di piume e grande fiore. Dieci anni dopo, nei tempi bui della guerra, sul cappotto dall’alto collo di pelliccia, il cappello è semplice, quasi maschile. Nel 1937 indossa una calottina con veletta e maliziosa punta conica alla Schiaparelli, su una camicetta chiusa da una farfallina maschile. Ancora, nel 1949, in una baita all’aperto, eccola in paglietta con visiera, da cui si alza un enorme fiocco. Carmen come il nipote Francesco, influencer prima di Instagram.

mercoledì 10 aprile 2019

L'INTERVISTA

Claudio Magris compie 80 anni: "Una polena mi ha salvato"




 

Claudio Magris compie oggi, 10 aprile 2019, ottant’anni. Un traguardo, per lo scrittore triestino, che va al di là della semplice tappa anagrafica.

Ottanta. Se li sente? «Beh, incidono soprattutto sulle mie camminate. Ma ne prendo atto, la ruota è giusta e continuo a fare quello che posso. Infatti, quando apro il giornale la mattina, la prima cosa che guardo è la temperatura del mare».


Quest’amore sembra alimentarsi ogni anno che passa... «È cominciato prestissimo, mia mamma si tuffava dal trampolino dell’Ausonia ancora in tarda età. Il mare è l’abbandono, la felicità. Non ho stile, non ho mai fatto scuola di nuoto, ma amo lasciarmi andare nelle braccia del mondo. E quello che mi piace di più è il mare disteso, immobile. Curiosamente la letteratura triestina ha potenziato il versante continentale, incappottato, il versante del disagio, mentre il mare per me è l’eros, l’amore, l’armonia, dove si desidera fare esattamente quello che si sta facendo in quel momento e non altro».


Sta pensando a un nuovo libro? «Mi affascinano le polene, queste figura di prua, in genere femminili, messe a prendere per prime le sberle del mare, col seno generoso che fa da scudo, con gli occhi dilatati che sembrano vedere catastrofi inevitabili che gli altri ancora non vedono. Le polene mi hanno aiutato mentre scrivevo “Alla cieca”, ci ho messo degli anni su questo libro. Un giorno, ad Anversa, andai a vedere il Museo navale. E lì, davanti agli occhi spalancati di alcune splendide polene, ho capito cosa mi bloccava. “Alla cieca” è una storia in cui tutto si spacca, si rompe. Io la raccontavo in un modo lineare, ed era lì che sbagliavo, perché anche la narrazione a un certo punto deve buttarsi nel mare della storia, rischiare il naufragio. La Capria diceva che i grandi romanzi del ’900 sono capolavori falliti, perché si assumono il carico dell’impossibilità di raccontare armoniosamente, di far finta di non vedere il disordine, quello che spacca tutto. Sto scrivendo un libro sulle polene, non sarà di invenzione, parlerà dei costruttori di polene, dei cimiteri di polene, delle polene nella letteratura».


I libri che hanno inciso sulla sua formazione? «“I misteri della giungla nera” di Salgari ha influito enormemente su di me. Me lo leggeva a voce alta mia zia Maria, poi quando ho imparato a leggere l’ho finito da solo. L’ho conosciuto come racconto orale, non sapevo nulla del suo autore, né me ne importava, e mi è rimasta sotto sotto quell’idea dell’infanzia che le storie sono per aria, come palle sospese, e chi è più bravo ne afferra una prima degli altri. Letterariamente, gli autori fondanti sono stati Tolstoj, Musil, Kafka e forse più di tutti l’Odissea, un libro molto più contemporaneo dell’Ulisse di Joyce, molto più inquietante. E ancora Dante, tantissimo, e naturalmente Svevo...».


Cosa significa per lei Svevo?
«Aveva ragione Bazlen quando diceva che non era tanto intelligente, ma aveva genio. Forse nemmeno lui se ne rendeva conto, l’aver visto come nessun altro il niente, il nulla, l’assenza di desiderio. Perché Svevo aveva capito che la cosa più terribile non è non essere amati, ma non amare».
Cos’è Trieste oggi?
«Ho vissuto a Trieste fino a diciott’anni poi sono andato a Torino. Avevo letto Dostoevskij e altri grandi autori, ma neanche un triestino, tranne Marin perché era un amico. Ho cominciato a farlo a vent’anni. Dal punto di vista generazionale sono stato fortunato, l’età mi ha preservato dalla guerra, mi sono affacciato al mondo del lavoro agli inizi degli anni ’60, appartengo a quella generazione che per la prima volta vive meglio della successiva. La generazione prima della mia, quella di Giraldi, di Kezich, di Vidusso non ha mai perdonato a Trieste il fatto di essere stata costretta ad andarsene. Io questo sentimento non l’ho mai provato. Torino per me è stata importantissima, nei miei anni di studio era in pieno cambiamento, c’erano l’immigrazione dal Sud, i rifiuti identitari, la mafia, l’Università era il centro della vita sociale e culturale. La popolazione cresceva, mentre allora Trieste declinava. A Torino ho cominciato a leggere Saba e Svevo e mi sono innamorato di Trieste. Oggi la vedo decisamente più vivace, meno fissata su se stessa, meno ripiegata. In passato c’era un’aria più mesta».


Un rimpianto, uno solo. «Non aver potuto né saputo fare il regista cinematografico. Il primo racconto, “Illazioni su una sciabola”, l’avevo pensato come soggetto di un film. Raccontare il gesto, il volto, con la macchina da presa è fantastico, ma non ho quel tipo di sintassi».


I viaggi. Partire è un po’ morire? «Si viaggia per ritornare, come insegna l’Odissea, come faccio con Trieste. Per viaggio intendo il fascino di valicare un limite, una frontiera, ma non necessariamente statale, linguistica o politica, anche culturale e sociale. Intendo il viaggio come idea di incontrare le diversità. Il viaggio che è anche capacità di erigere confini, perché è facile dire che bisogna superare le frontiere di culture diverse, ma se una cultura è portatrice di violenza e sopraffazione, bisogna alzare una barriera. Per me il simbolo del viaggio rimane il confine. Quando andavo da ragazzino a giocare sul Carso esisteva una barriera che non era un confine qualunque, ma la cortina di ferro, invalicabile. E dall’altra parte terre che erano state italiane, un mondo che conoscevo benissimo. L’idea che il noto è anche ignoto è stata fondamentale per me, perché mi ha fatto capire che ogni viaggio può essere andare da una stanza all’altra della propria casa».


L’esperienza politica? «Ha coinciso con il periodo più brutto della mia vita, quando mia moglie Marisa era malata. L’ho sentita come un dovere, non potevo dire di no alla candidatura voluta da cinque partiti diversi, che si erano alleati al tempo dell’ascesa di Berlusconi. Non ho un brutto ricordo degli avversari, non si sono mai approfittati della mia debolezza, diciamo che sono debitore di un colpo in canna. Ma la rappresentanza mi era ostica. Solo una volta ho perso le staffe, quando insultarono Margherita Hack al Tergesteo: mi scaldai, dissi che andava abolito il suffragio universale».


Si faccia un augurio. «Gli anni della malattia di Marisa sono stati una traversata, un viaggio negli inferi, ma mi hanno svuotato dalle pulsioni di morte. Dopo sono stato più capace di vivere e questo processo va avanti. Sono stato fortunato i miei figli Francesco e Paolo sono realizzati, la vita di chi mi circonda è molto più importante della mia, quindi farei da parafulmine volentieri se servisse. Vorrei continuare a fare il bagno a Barcola, farmi offrire una birra se ho dimenticato il portafoglio, andare in giro col mio cane Jackson, a cui devo la celebrità».


Si confida con lui?«Gli confido molte cose legate al momento, soprattutto se qualcosa va male». 


@boria_a

lunedì 8 aprile 2019

MODA & MODI 

Il cambio dell'armadio


Fare il cambio dell’armadio: lo diciamo ancora? Capita, ma il significato è capovolto. Fateci caso: è un’espressione che ritorna con l’arrivo della primavera, con il passaggio a una fase meteorologica e spirituale di maggiore luminosità, leggerezza, libertà di movimento. E se la pronunciamo con un sospiro preventivo di fatica, è perché ogni trasformazione porta con sè uno sforzo, un liberarsi di cose passate per abbracciarne di nuove.

Una volta l’operazione implicava una strategia complessa: trasferimenti, lavanderia, riparazioni, incellophanatura, antitarme, stivaggio. Ma capricci e progressi della moda hanno da tempo relegato il fatidico capovolgimento dell’armadio al lessico del secolo passato. Oggi i capi si sovrappongono senza badare alla consistenza e pesantezza dei tessuti, attraversano le stagioni, le accavallano, e i passaggi avvengono per sottrazioni progressive, anche grazie a materiali sempre più tecnici. Se parliamo di cambio è solo per marcare l’ingresso in una nuova fase, per rassicurarci su una volontà e un’energia che non hanno niente a che fare con scarpe e vestiti.


Marie Kondo, con il codice del riordino, ci ha insegnato che sistemare l’armadio ed eliminare il superfluo, è soprattutto far chiarezza dentro di sè. Possiamo allora far coincidere vecchie e nuove intenzioni. Riporre con affetto e cura i capi che ci accompagneranno di nuovo tra qualche mese, liberarci di quelli che da tempo non indossiamo o che neppure ci ricordavamo di avere (salutandoli con affetto, come compagni di una parte di percorso) e tendere all’obiettivo più alto: sistemare il guardaroba in modo da poter abbracciare a colpo d’occhio tutto quello che possiamo assemblare. Più che mai, less is more: meno stress, più stile.

@boria_a