lunedì 27 luglio 2020

IL LIBRO

La moglie, l'amante, l'amica:
quasi perfette
le donne di Madeleine St John



Dopo “Le signore in nero”, le commesse di un grande magazzino che nell’Australia degli anni Cinquanta, cercavano l’indipendenza e la realizzazione in un mondo dominato da ipocriti e rigidi codici maschili, uscito per la prima volta in edizione italiana nel 2019 e diventato per passaparola un piccolo caso editoriale, Garzanti propone il secondo libro di Madeleine St John, “Una donna quasi perfetta”, pubblicato nel 1996 (il titolo originale è “A pure clear light”), tre anni dopo il precedente, nella traduzione di Mariagiulia Castagnone.



È un piacere scoprire o riscoprire la penna affilata e ironica di questa scrittrice, aguzza e mai soffocante femminista e prima australiana candidata al Man Booker Prize, che esordì ultracinquantenne, a Londra, dove si era trasferita lasciandosi alle spalle un’infanzia segnata dal suicidio della madre, depressa e alcolizzata, un padre anafettivo e distante, un matrimonio fallito.

Seguendo il percorso della scrittrice, abbandoniamo l’Australia, ambientazione solo del primo dei suoi quattro romanzi, e ci ritroviamo in una Londra intellettuale e alto borghese, che St John disseziona dal suo osservatorio privilegiato, le librerie e gli antiquari di Notting Hill e Kensington, dove visse - lei fumatrice accanita, elegante e snob, amante delle delicatessen di Harrods - con alterne fortune facendo la commessa, fino alla morte, a 64 anni nel 2006, per enfisema.



Madeleine St John


La storia. Flora, mamma di tre figli, mentre per noia rispolvera la fede religiosa, non si rende conto che il marito ha trovato altrove ciò che tra loro riscalda saltuariamente solo il gin. Simon, sceneggiatore velleitario e partner tiepido ed elusivo, a sua volta riscopre qualcosa fuori dalle mura domestiche, la tempesta del desiderio rotolandosi sui tappeti con Gillian, commercialista della City, indipendente nel lavoro e nel privato. Lydia, l’amica di Flora, che Simon detesta perchè bruttina e poco curata, in realtà ai suoi occhi ha una ben più fastidiosa, duplice colpa: aver inopinatamente risvegliato in lui il desiderio, con l’impulso di baciarla, e averlo sorpreso in un locale con l’amante.


Il romanzo si apre mettendo in scena tutti i protagonisti di questa rarefatta commedia delle parti, quando quel poco che accade nel libro è già tutto accaduto: la coppia clandestina in un ristorante, Gillian che nota l’occhiata insistente di una sconosciuta dall’altro capo della sala, Simon a cui lo specchio rimanda il volto familiare dell’amica della moglie.


È qui il “quasi” del titolo: il quasi di un uomo che sa di non voler scegliere («Flora e i ragazzi erano la bandiera che orgogliosamente sventolava sull’orlo dell’abisso”), il quasi dell’«altra», che vorrebbe di più che “essere scopata fino a istupidirsi”, ma preferisce accampare la sua autonomia che metterlo alle strette, il quasi dell’amica che tace l’adulterio scoperto, suo malgrado attratta dalla doppiezza del “verme”, del “vero porco”. E anche Flora ha un “quasi” che si insinua nella perfezione di organizzatrice familiare, madre presente, imprenditrice: «Come faceva da tanto tempo, tenne per sé la sensazione dolorosa che qualcosa non andava, qualcosa che non era in grado di identificare, a cui non poteva porre rimedio».

Quando Lydia cattura lo sguardo di Simon in quel ristorante tutte tre le donne dovranno scegliere come porsi di fronte all’unico uomo che le lega: Lydia si vendica e pretende la rottura con l’amante in cambio del suo silenzio con l’amica. Ma la parola fine l’ha già pronunciata Gillian: «Proprio non capisci, vero? Che dover raccontare una storia plausibile è brutto, bruttissimo. Sai, mai scusarsi, mai spiegare - una volta che si imbocca quella strada, è tutto finito. Mi dispiace ma è così». E Flora?


Con una scrittura lieve, perfidamente salottiera, Madeleine St John ci introduce negli interni eleganti dei quartieri alti di Londra, ci fa partecipare ai fitti scambi di battute che impastano ipocrisia e borghese decoro, allontanando qualsiasi sospetto, qualsiasi “quasi” possa intaccare l’armonia del quadro familiare, del ruolo sociale conquistato, delle aspettative che un deragliamento portato allo scoperto potrebbe diminuire. St John non demolisce l’istituzione del matrimonio, su cui è scopertamente scettica, piuttosto ne registra con acume gli impercettibili smottamenti, l’inaridirsi dei rivoli, il senso di colpa sufficiente al maschio per assolversi. E si schiera sempre dalla parte delle sue donne, anche quando la ricerca della felicità finisce per essere solo la resilienza che impedisce il disastro coniugale.

venerdì 17 luglio 2020

LA MOSTRA

Matea Benedetti: Mi vesto di bucce di mela e foglie di ananas per salvare il pianeta 



Matea Benedetti ph. Ok Tibor Golob


«L’abito ha conseguenze, dice Matea Benedetti. E per lei, costumista e stilista slovena, non è affatto uno slogan dell’ultima ora. Oggi che la moda è messa sotto accusa come grande inquinatrice e che anche le catene del fast fashion si affrettano a produrre collezioni (presunte) ecologiche per lavarsi la coscienza, Matea, che sulla sostenibilità lavora da anni, vuole fare un altro passo, cogliere una sfida. «Il mio - racconta - è un brand di lusso ma senza alcun prodotto animale». Luxury animal free: una nicchia e una chicca, che può contare al massimo su una scelta di cinque materiali al mondo. 

Un assaggio di questo progetto, la sua prima collezione glamour vegan in assoluto, per inverno ed estate 2021, è in mostra alla Casa della Musica di Grado, protagonista della rassegna “Maravee Dress” ideata da Sabrina Zannier. Dall’esplosione di colori alla tavolozza dei diversi neri, abiti, camicie, gonne, trench, haute couture, ogni pezzo è al cento per cento biodegradabile. Sono involucri fatti con scarti di frutta, dove perfino la colla deriva dal mais e non ha nulla di sintetico. Si chiama “Benedetti Life”, perchè il marchio, spiega Matea, «protegge la vita». Quella degli animali e del pianeta, certo, ma anche quella degli umani che nella filiera della moda lavorano e che hanno diritto a essere pagati equamente, anche nei più remoti angoli del pianeta dove le tutele non esistono. La produzione massiva dei grandi magazzini low cost inquina il pianeta così come la vita delle persone. E “sostenibilità” significa anche sostenere gli altri. Una filosofia integrale e integrata che parte dalla realizzazione delle stampe dei tessuti, passa per i bottoni, il packaging e arriva al trasporto delle collezioni e al magazzino. E che le è valsa, nel 2017, un posto tra i cinque finalisti del Green Carpet Award, conferito alla Scala di Milano durante la settimana della moda. Nel 2018 un altro riconoscimento, il Positive Luxury Award per aver saputo coniugare il glamour col rispetto dell’ambiente, e l’attenzione di una giornalista guru come Suzy Menkes.





 


 
Benedetti Life, Parrots' Poetry, ph. Valentina Cunja


 
Octopus Intelligence ph. Belinda De Vito




Matea Benedetti, nata a Capodistria (al secolo Mateja, ma quella “j” veniva pronunciata diversamente in ogni paese e così è stata eliminata, una laurea in Textile e clothing design a Lubiana, una specializzazione in Fashion design a Utrech, una lunga esperienza di costumista teatrale in Italia e all’estero) comincia a lavorare sulla moda green nel 2014 con il suo marchio Terra Urbana, utilizzando la peace-silk, la seta organica, ricavata da bozzoli che non uccidono la larva ma le consentono di completare la trasformazione, insieme a canapa, cotone e lana ecologica, colori a base di acqua. Per l’effetto rettile sperimenta la pelle scartata del salmone. Le sue collezioni sono dedicate a specie animali in pericolo, la prima alle farfalle, la seconda al lupo bianco, stremato dal surriscaldamento del pianeta, all’epoca imperiosamente vestita da una testimonial come l’attrice Katarina Čas (la ricordate in “The Wolf of Wall Street” foderata di dollari?).

Agli inizi dell’eco couture firmata Benedetti i materiali sono pochi, pizzi e tulle inesistenti. Tre, e basici, i colori per le sete. Ma la tecnologia va avanti e “Benedetti Life” oggi presenta una cinquantina di capi da giorno e da sera realizzati con materie prime che normalmente facciamo finire nella spazzatura. L’animale su cui quest’anno la designer ha deciso di accendere l’attenzione sono i pappagalli della foresta amazzonica, decimati dai cambiamenti climatici, dalla caccia e dai traffici illegali. È la sua Parrots’ Poetry, un tripudio di rossi, verdi, gialli che si inseguono come in un piumaggio, realizzati con colori biologici, privi di metalli pesanti. Non inquinare, spiega Matea, significa anche ridurre al minimo il trasporto: le sue stampe e le sue tinte arrivano dall’Italia, la produzione è in parte slovena in parte italiana, lo sviluppo del prodotto viene fatto in Slovenia. L’obiettivo di un futuro prossimo è “made in Italy” totale, lusso a chilometro zero.



Le paillettes ricavate da bottiglie di plastica riciclate. Benedetti Life ph. Belinda De Vito


Eccoci immersi nel mondo di “Benedetti Life”. Al primo piano Matea esalta poeticamente il polpo con gli abiti di “Octopus Intelligence” per l’inverno 2021. Ancora una volta l’ispirazione viene dal mondo animale e da un esemplare dotato di più cervelli e più cuori, la cui intelligenza supera quella dell’uomo. Accanto una sezione dark, per illustrare le declinazioni del nero nei materiali. Ma su tutti ruba la scena l’abito haute couture che ha incantato il Green Carpet Award, un bustier che si gonfia in una cascata di dischi fino ai piedi, in rosso denso e bianco, realizzato in Appleskin, il biopolimero derivato dagli scarti delle mele nella produzione dei succhi di frutta, brevetto di un’azienda di Bolzano. La pellicola allude alla pelle animale, ma non viola l’ambiente e ricicla quanto di un’altra produzione andrebbe perduto, in una virtuosa economia circolare. E il Piñatex? È un tessuto a base di fibre di foglie di ananas prodotte nelle Filippine e lavorate in Gran Bretagna, da due anni sul mercato, riassorbibile al cento per cento. Completano la gamma dei materiali la viscosa Enka, derivata dalla pasta di legno, a sua volta estratta con un complicato processo sostenibile da alberi di foreste non devastate dagli abbattimenti, mentre i bottoni sono in “avorio vegetale”, ovvero corozo, dalla noce essicata della palma tropicale proveniente dall’Ecuador. Solo le paillettes eco non esistono ancora e allora Matea ha optato per il riciclo, tagliandole a mano da bottiglie di plastica e cucendole sopra uno dei modelli in mostra. «Ci hanno lavorato cinque persone per tre mesi - racconta - ma l’abito sembra fatto di vetro».



 
Haute Couture in Appleskin selezionato al Green Carpet Awardsph. Tomaz Pancic


Haute Couture in Appleskin selezionato al Green Carpet Awards


Green equivale a slow. «Impossibile fare un prodotto sostenibile e a basso costo», avverte la designer. La riduzione dell’acqua nelle lavorazioni e l’attesa per la maturazione naturale delle materie prime impediscono produzioni massive più volte l’anno. Gli outfit di Benedetti Life si vendono per ora solo online e su ordinazione, i capi in stock sono un altro spreco. I costi? Quelli di una griffe medio-alta. Tracciabilità e trasparenza in ogni passaggio della filiera lo impongono. «La gente non capisce che un capo per pochi euro costa alle future generazioni la Terra. È un concetto molto difficile per l’acquirente. Ma i brand lussuosi cominciano a cambiare e la loro influenza è fondamentale sulle catene di fast fashion, che li copiano. L’obiettivo dovrebbe essere la totale sostenibilità di tutti i marchi nel 2021», conclude Benedetti.



ph. Belinda De Vito


L’abito ha conseguenze, appunto. Ci trasforma e trasforma l’ambiente che abitiamo. Sta a noi, creatori e fruitori, scegliere come.

lunedì 13 luglio 2020

MODA & MODI

Il mito di Dior in un film e la passerella si dissolve





La sfilata, la passerella, è un rito che questo tempo strano che stiamo vivendo ha reso improvvisamente obsoleto, lontano. La scelta di Dior di affidare al regista Matteo Garrone la presentazione della sua collezione haute couture, ha messo un punto fermo nella comunicazione della moda. Quindici minuti di pura poesia, nel bosco del Sasseto nell’alta Tuscia dove Garrone aveva già girato “Il racconto dei racconti”, per evocare “Le Mythe Dior”, il mito di Dior, in un paesaggio fatato e sospeso, tra creature acquatiche e silvestri, sirene, fauni, statue di marmo, tutti stregati dal desiderio di quegli abiti magnifici. https://www.youtube.com/watch?v=yxBFwqRbI8c

Due fattorini attraversano il bosco reggendo un baule dalla forma dell’edificio dove ha sede la maison, in Avenue Montaigne a Parigi.
All’interno, un carico prezioso, i manichini mignon vestiti con i modelli della collezione, che richiamano le pupées de la mode del ’700, le bambole-manichino (chiamate “piccola Pandora” per gli abiti da giorno, “grande Pandora” per quelli da sera) inviate alle clienti lontane perché toccassero, scegliessero, sognassero le creazioni da ordinare. Quei manichini, che all’inizio del video vediamo certosinamente preparati dalle sarte della maison, intente a cucire loro addosso gli abiti in scala ridotta ma perfetti in ogni dettaglio, sono stati il filo conduttore anche nella grande mostra sui cinquant’anni di Dior, tra il 2017 e il 2018 al Musée des arts decoratifs di Parigi: in ogni bacheca l’abito e la sua replica minuscola, quintessenza della sapienza sartoriale, puro oggetto del desiderio.



Ecco: quella stessa magia è il filo conduttore anche del video di Garrone, che si riallaccia alla narrazione fatta da sarti e sarte sul profilo Instagram della griffe.

Al di là del digitale - le prime settimane della moda virtuali sono state Londra e Parigi, ora tocca a Milano - Dior ha intrecciato un racconto su più piani, ha fatto dialogare l’immaginario di Maria Grazia Chiuri, la direttrice artistica, con quello di Garrone, ha connesso e integrato le narrazioni, coinvolgendo una platea molto più ampia di quella della sfilata. Chiuri ha ragione: l’alta moda ha bisogno di essere apprezzata da vicino, toccata, nel ’700 come oggi. Ma il film sul mito di Dior ci dice che la passerella non basta più e che il suo cerimoniale per pochi addetti ed eletti è ormai relegato, confinato proprio, in un’altra epoca. 


twitter@boria_a