domenica 25 aprile 2021

 IL LIBRO

Stoffe, stracci e due Singer

Così Brigitte Riebe fa rinascere

il sogno della moda nella Germania 1945

 


 


 

 

Sembrano essersi passate il testimone Carmen Korn e Brigitte Riebe, scrittrici tedesche ed entrambe autrici di due trilogie tra fiction e storia sulle vicende della Germania nel secolo breve. Con Fazi, lo stesso editore che tra il 2018 e il 2020 ha pubblicato in Italia il fluviale romanzo della Korn, ambientato ad Amburgo dalla sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale al giro di boa del nuovo Millennio, è ora in libreria il primo volume della saga della Riebe, “Una vita da ricostruire”, in originale “Le ragazze del Ku’damm” (pagg. 365, euro 17,50).


Siamo a Berlino nel maggio 1945, in una città ridotta in macerie, anche se l’antefatto ci riporta al 1932, quando il capofamiglia dei Thalheim, Friedrich, contitolare, col socio ebreo Markus Weisberger, di lussuosi grandi magazzini di confezioni, liquidava il nazismo come un fuoco di paglia, destinato a un flop clamoroso alle legislative, dopo aver rastrellato seggi nelle diete. Invece, tredici anni dopo, il suo negozio è stato raso al suolo dal raid aereo del ’43, lui è prigioniero dei russi nel carcere di Potsdam, il figlio maschio Oskar disperso e le sue donne - le figlie Rike e Silvie, avute dalla prima moglie Alma, la seconda moglie Claire con l’adolescente Florentine - sono costrette a vivere di stenti nell’alloggio della nonna nel quartiere di Charlottenburg, dopo che la loro villa è stata requisita dai sovietici.


Riebe, storica di formazione, con alle spalle romanzi di successo che pescano nelle epoche più varie, dall’antico Egitto all’età moderna, fa scorrere sul fondo dell’intreccio i grandi eventi, richiamandoli poi in una precisa e utile cronologia in aggiunta al romanzo: le Trümmerfrauen, le donne che liberano la città dalle macerie per avere la tessera degli alimenti e diventano un simbolo della ricostruzione, i traffici della borsa nera, la riforma monetaria, il Blocco di Berlino e il ponte aereo degli alleati occidentali per rifornirla di cibo e carbone, fino alla divisione delle due Germanie.


Il primo piano, invece, lo riserva alla fiction, una storia di riscatto tutta al femminile che vede protagonista Rike, affiancata dalle sorelle e dall’amica ebrea Miriam, sfuggita alla deportazione senza lasciare Berlino, dormendo tra i cartoni nei magazzini dei grossisti ebrei mandati al lager. Il sogno di tutte è riaprire il negozio di famiglia, creare di nuovo abiti, alimentare il sogno della bellezza, del desiderio, della seduzione, quindi la speranza, collettiva, del ritorno alla vita.

 

Brigitte Riebe

 


Rispuntano due Singer scampate alle requisizioni e soprattutto, da un magazzino dell’azienda, molte balle di stoffa e un piccolo capitale nascosti dal padre, che nel frattempo è riuscito a tornare a casa grazie alla mediazione del fratello Carl, comunista, ma dovrà affrontare il processo di denazificazione. Nell’euforia della rinascita anche gli stracci si convertono prima in lana rigenerata, poi in tessuto, per collezioni alla portata dei berlinesi stremati dalle privazioni. La prima sfilata, con le assi sui binari per i carrelli su cui vengono caricati pietre e detriti, accompagnata dalla voce roca dell’esuberante Silvie, futura annunciatrice e programmatrice dell’emittente Rias Berlin, è un successo. I magazzini Thalheim riapriranno in occasione della prima Berlinale, il festival del cinema tedesco, che presenta “Rebecca” di Hitchcock.


L’autrice è anche una prolifica giallista e a metà percorso innesta sulla storia principale molti elementi di suspence in attesa di futuri sviluppi narrativi. Di chi è veramente figlia Rike, la cui madre Alma, morta in un incidente stradale dai contorni poco chiari, era al centro di un triangolo di passioni e sposò Friedrich già incinta e contro la volontà del padre? Al termine del primo libro si affollano precipitosamente, come una chiamata in palcoscenico, tutti i personaggi che incontreremo ancora lungo il percorso: Rike e Silvie, con i loro amori, i loro sbagli e una latente rivalità, l’adolescente Florentine in boccio, Markus, il socio ebreo dei magazzini rientrato dall’America. E un giovane uomo scavato dalla prigionia, sul cui volto brillano gli occhi azzurri dei Thalheim, che miracolosamente ha ritrovato la strada di casa. Un nuovo capitolo si è già aperto.

lunedì 19 aprile 2021

MODA & MODI

Vestito contro corsetto, liberazione

e costrizione del dopo lockdown 


Kim Kardashian in Schiaparelli couture (ph. Daniel Roseberry)


 

Le vetrine si ripopolano di vestiti ariosi, ma sulle passerelle sono ricomparsi corsetti e busti come accessorio di tendenza. Il parziale ritorno alla vita sociale è segnato da una forte contraddizione o forse da due modi opposti di interpretarlo e vestirlo. Libertà o corazza? Voglia di movimento o bisogno di protezione? Semplificando: apertura o chiusura? Il vestito del dopo lockdown è dappertutto e con caratteristiche precise. La lunghezza, che arriva almeno a metà polpaccio. La linea, che enfatizza ampiezze e volumi, spesso con l’aggiunta delle maniche a palloncino. L’accento è sulla comodità, anche dove le gonne scivolate lasciano il posto alle balze. Una cintura può segnare il punto vita, ma togliendola il vestito non perde la sua linea. I tessuti sono leggeri, i colori chiari, tante le fantasie floreali, i quadretti o le righe, con gli accostamenti cromatici rilassanti preferiti al color blocking che mette fibrillazione.


La ricerca di “vestiti ampi” e “voluminosi” vola in rete. Secondo la piattaforma globale Lyst è aumentata dell’87 per cento, i vestiti con maniche a sbuffo hanno raggiunto una crescita di interesse del 130 per cento, gli abiti midi del 158. Se i numeri danno la misura del fenomeno, le parole digitate trasmettono stati d’animo e bisogni del “destinatario” (perché anche “consumatore” è una definizione che piace sempre meno, per le implicazioni poco etiche che comporta): si predilige un involucro che metta d’accordo confortevolezza e stile. Dopo la lunga parentesi in tuta o abbigliamento domestico, la comodità è diventata una caratteristica irrinunciabile. L’abito rappresenta dunque il compromesso perfetto, la transizione dalla chiusura all’apertura, con un filo di indulgenza verso i cedimenti fisici o i chili recuperati durante l’isolamento.


Che cosa c’entrano allora corsetti e bustini, avvistati sulle passerelle e già nei negozi, da portare su camicie e t-shirt per sigillarci da seno a punto vita? Dopo il fascino delle signorine Bridgerton, con i loro burrosi décolleté rialzati, il capo più costrittivo che esista dilaga nella rete e sui social come Tik Tok. La reazione alla pandemia per alcuni stilisti è andata nella direzione opposta. Piuttosto che regalare fluidità e movimento, hanno preferito equipaggiare le donne con una sorta di armatura, sottolineare il senso di protezione più che la liberazione. Così ha spiegato Daniel Roseberry, direttore creativo di Schiaparelli, autore di molta corsetteria nella sua collezione haute couture. La Kardashian di turno, Kim per i registri, ha promosso l’idea strizzata in un corpetto anatomico, che, come il suo fondoschiena, trasmette un messaggio antitetico a quello di naturalezza e benessere.


Dallo schermo alla strada, si sa, il passo è lunghissimo. Ancora più lungo quello dalle passerelle ai capi che la gente si metterà addosso davvero. E i busti, per quanto oggi modellanti e in materiali tecnologici, portano con sè un’atavica natura di costrizione, di immobilità, di dipendenza. Sembrano termini usciti dal vocabolario della pandemia. Non ce ne dovevamo liberare?

martedì 6 aprile 2021

MODA & MODI

Che brutti quei manichini nudi, rivestiteli 




 

Una sì, una no. Le vetrine di primavera raccontano questo tempo incerto, sia quelle perfettamente allestite con i nuovi arrivi, sia quelle che si limitano a esporre i manichini nudi. È una sensazione strana camminare lungo le strade dello shopping e guardare quest’alternanza, questa macchia di leopardo dell’offerta, che in parte riproduce il nostro stato d’animo: un mix tra la speranza di vedere a portata di mano libertà e mobilità, con la voglia di rimpolpare l’armadio, anche di qualche capo che non ci servirebbe, e la tentazione di lasciar prevalere il pessimismo con cui abbiamo imparato a convivere, o comunque una cautela un po’ diffidente.
Gli abiti e gli accessori al di là del vetro sono un segno forte, ci danno una scossa. Tengono vive le aspettative, fanno volare la fantasia, suggeriscono occasioni e come vestirle.

Gli inglesi lo chiamano window shopping, in pratica “guardare e basta, senza l’intenzione di comprare”, ma possiamo prendere il verbo a prestito e un po’ cambiarne l’intenzione, perchè si può comprare e sognare anche con un vetro di mezzo, e fa molto bene all’umore.


Ci sono le stampe a fiori della primavera, che finora abbiamo provato solo virtualmente, cliccando il succedaneo delle photogallery nei siti, le borse e i cappelli di paglia, gli abiti-camicia per una leggerezza e una semplicità che oggi apprezziamo più che mai, i sandali aperti, i soprabiti di cotone, una palette delicata di rosa, arancio, verde, glicine, azzurro, colori morbidi per tornare a muoverci come dopo una lunga convalescenza. Tra tante serrande abbassate, alcune per sempre, è importante vedere nelle vetrine il cambio della stagione, che ci invita a liberarci delle tute e dei pigiami da casa come facessimo una muta.

Gli allestimenti nuovi - con l’entusiasmo di chi continua a pensarli e assemblarli, a dispetto del lockdown - ci ricordano il tempo che ci stiamo perdendo ma che vogliamo riacciuffare, magari forse soltanto con la coda dei saldi.


Anche i manichini nudi, o le vetrine vuote, hanno un messaggio, altrettanto forte per chi guarda. Alcuni commercianti hanno scelto di segnalare l’altro lato della medaglia: collezioni decimate, non consegnate, e che rimarranno comunque in buona parte invendute, rapporti da reinventarsi con una clientela che nel giro di due stagioni ha cambiato punti di riferimento, priorità, preferenze, e che agli esercizi più piccoli costerà fatica riconquistare, nonostante i social abbiano supplito alla mancanza di contatto fisico.


Un po’ disturbano questi manichini spogli, inutile negarlo, sembrano un segno di attesa, forse di resa. Smontano l’ottimismo della porta accanto. L’acquirente ha ancora bisogno di essere catturato, e coccolato, da una vetrina curata, che nessuna piazza virtuale potrà mai sostituire. Se andrà in porto la proposta della federazione della moda di aprire i negozi su appuntamento anche nelle zone rosse, vale la pena non rinunciare ad alimentare il desiderio, sfruttando quel potente mezzo di comunicazione che è la moda. Mettere qualche cosa addosso ai manichini è un primo messaggio.