martedì 29 giugno 2021

MODA & MODI

 Le mules Lido e le loro sorellastre 


Le quilted mules Lido di Bottega Veneta


 L’estate del “post” zampetta (o ciabatta) su un sandalo che si riproduce all’infinito. Ma come? Non ci siamo detti e ridetti che la voglia di non omologarsi, dopo tanti mesi di divise domestiche obbligate, è il tratto distintivo del liberi tutti, almeno nel vestire? Non vale per le estremità, colpa di un oggetto del desiderio lanciato da un luxury brand come Bottega Veneta, che, ingurgitato immediatamente dalle catene di fast fashion, è stato risputato come la scarpa più replicata e banalizzata che ci sia in circolazione. Parliamo delle celebri “quilted mules”, quelle ciabattine imbottite con l’intreccio distintivo del marchio, che lasciano dita e tallone liberi, in versione con tacco o completamente flat.

Si chiamano Lido e sono destinate a chi è pronto a mettere mano al portafoglio e a pagare poco meno di mille euro per calzare l’edizione autentica, prevista in una palette di tinte che, tra nero e bianco optic, sconfina in cromatismi sognanti come papaya, glicine, canna da zucchero, limonata e un più prosaico e incomprensibile “cerotto”, forse in ossequio ai tempi tormentati. La pianellina è la quintessenza della confortevolezza glamour, adattissima dunque a molti piedi che per mesi si sono infilati solo in calzettoni antiscivolo e scarpe da ginnastica. Le Lido sono al cento per cento in pelle d’agnello, con il motivo a intreccio replicato sulla suola interna.

 


 


Capita, osservando le vetrine, che la vera Lido e la sua sorellastra, la replicante cheap, si sfidino da una parte all’altra della strada, guardandosi in cagnesco da dietro il vetro. Le due sono molto simili, ma la copia svela subito la sua natura godereccia e popolana. Non è di nobile ovino, ma di una pezzatura bovina molto più resistente e plebea. E i suoi colori sono i gialli e verdi acidi, i rosa barbie, i rossi, ciclamino, bluette. Un piede bello gridato, non circonfuso dalle sfumature soffici e burrose della vera griffe. E poi la Lido tarocca ama gli ammennicoli, le catenelle e le piccole fibbie dorate appoggiate sul nobile intreccio, in un’interpretazione coatta e allegramente eretica del modello. E anche dove la copia si avvicina il più possibile all’originale, l’inganno è presto svelato: la suola uscita dalla produzione massiva è tutta liscia, basta che il piede dondoli un poco per smascherare il dettaglio mancante. 

 


 


Se ne fa un baffo il tarocco delle profonde riflessioni post-pandemiche sulla moda sensibile-sostenibile-ecologica, sul bisogno ritrovato di personalità e originalità, sul rifiuto dei prodotti fotocopia che inquinano, sfruttano, distruggono il pianeta, mettendo in moto una catena di montaggio dell’imitazione dai ritmi serrati, che macina persone e risorse. Dalla dilagante autocoscienza green dei mesi del lockdown, esce impunita la Pedocin del sandaletto, la parente povera dall’augusta Lido. Pronta a fare tanta strada quest’estate, quanta almeno ce n’è tra i buoni propositi e l’industria del desiderio. Quasi quasi ci sta simpatica, perchè con i suoi tacchetti crudeli calpesta i fioretti da pandemia.

sabato 19 giugno 2021

IL LIBRO

Nelle vite nascoste dei colori

di Laura Imai Messina

è scritto l'alfabeto per imparare ad amarsi

 

 

La scrittrice Laura Imai Messina

 

Non c’è un solo bianco per Mio. Nè un solo blu o verde o nero. Nè esiste una sola parola per definire qualsiasi colore. Il bianco è polvere di valve d’ostrica, o bianco grezzo, o bianco impasto che ha una punta di giallo. Il verde è quello dei primi germogli primaverili o il retro delle foglie dei salici piangenti, il giallo può essere del soffione o della pesca che trascolora in arancio e rosso prima di staccarsi dall’albero. E poi c’è il blu ripostiglio, il suo colore preferito, il rifugio, quello che definisce l’oscurità dentro un armadio.


Fin da quando era piccolissima, Mio ha saputo cogliere ogni sfumatura cromatica, anche quelle invisibili agli altri, e non ha parlato finchè il suo vocabolario non è stato abbastanza ampio per definire con una lunga perifrasi ogni gradazione. Il suo destino è scritto nella nascita: venne alla luce su un vecchio kimono dismesso da anni e il sangue di sua madre Kaneko fu assorbito dal ciliegio in fiore dipinto sulla tela. Era una tradizione delle donne della famiglia Yoshida da almeno tre generazioni, che il parto avvenisse su abiti smessi, da conservare imbrattati fino alla morte per poi essere bruciati insieme al corpo. Nell’atelier dove la madre cuce e ricama kimono da sposa, Mio impara la pazienza e la potenza dei dettagli, affascinata dal bianco nuziale che poi diventa il cremisi del banchetto, quando ogni donna muore come figlia e in quell’onda rossa rinasce nella famiglia del marito. “Le vite nascoste dei colori”, con cui Mio decifra il mondo saranno per sempre il suo primo alfabeto, la sua chiave d’accesso al mondo. Un dono che alla madre fa paura.


Aoi, invece, è abituato ad attraversare le ore più buie delle persone e, nell’agenzia funebre dei genitori, ha appreso dal padre a lasciar andare i morti e ad accompagnare i “rimasti” nel distacco dai loro cari. I tempi del commiato e della consolazione e i tempi per la maturazione dei semi che il genitore gli insegna a piantare in un giardino strappato alla ferrovia. «Devi entrare nel rito in punta di piedi. Si sta costruendo uno dei ricordi più potenti per le persone che vi parteciperanno - diceva». Parla dei defunti, ma anche della forza di un germoglio che buca la terra. Il padre gli ha trasmesso le metafore tra la morte umana e la vita vegetale e di entrambe Aoi si occupa con dedizione.

 


 


Laura Imai Messina - l’autrice bestseller di “Quel che affidiamo al vento” (Piemme, 2020), da vent’anni trapiantata in Giappone - torna in libreria con un’incantevole storia d’amore ambientata in quella Tōkyō dove convivono riti e costumi millenari con la frenesia e le contraddizioni della metropoli, la palette di colori delicati che Mio ha il dono di percepire con i neon pulsanti delle insegne. In “Le vite nascoste dei colori” (Einaudi, pagg. 315, euro 18,50), racconta un incontro all’apparenza casuale dietro cui si nasconde un segreto lontano, che intreccia le vite dei protagonisti ben prima che loro nascessero.

Ma si può amare qualcuno che ci riporta prepotentemente la paura della morte, l’orrore dei funerali? Che ci obbliga a riaprire porte che credevamo chiuse per sempre? Che non vede allo stesso modo i colori? Nel negozio Pigment, dove lavora, in un universo ordinato di migliaia di pigmenti, tempere, lacche, Mio ha trovato la felicità. Quel tempio di sfumature ordinate le suggerisce l’idea che funzioni così anche per il mondo e gli individui, che basti classificarli o trovare la loro corrispondenza cromatica per capirli. 

Un giorno un anziano cliente le chiede di restaurare un quadro raffigurante la casa che lui e la moglie avevano costruito insieme, appena sposati, e che la donna aveva dipinto. Le tinte dovevano essere identiche all’originale, salvo il tetto, che insieme, in un restauro successivo, avevano deciso di cambiare da nero a rosso. «Quell’uso plurale della lingua, l’idea che il colore dovesse inseguire la loro vita e non l’inverso, l’aveva colpita». La vecchia coppia le aveva involontariamente consegnato un’altra chiave per comprendere gli altri e se stessa.

Molti anni dopo Mio, scoprendo in una mostra una fotografia “rubata” di lei e Aoi che guardano il giardino della ferrovia ormai distrutto, ricorderà quell’attimo. Quando il colore insegue la vita. E l’amore diventa un unico colore.

giovedì 10 giugno 2021

IL LIBRO

 

Marta Verginella il lockdown e tutti

gli attraversamenti che hanno fatto la Storia 




 

Il confinamento imposto dalla pandemia, che ha ristretto il mondo alle mura domestiche, come occasione per sperimentare nuove forme di scrittura e riallacciare il filo con ricerche e studi già compiuti. È nato così “Donne e confini”, primo libro “ibrido” della storica Marta Verginella (Manifestolibri, euro 16, pagg. 135), che intreccia il diario della vita dell’autrice nella reclusione imposta dal coronavirus, a una riflessione sulla mobilità femminile tra Otto e Novecento. Donne che si spostano tra città e campagna, tra mondo italiano e mondo sloveno, tra la Venezia Giulia e l’Egitto, tra l’Italia e la Jugoslavia di Tito, attraversando confini alla ricerca di una vita migliore e spesso scontrandosi con pregiudizi e paure, con forme di controllo e di dissuasione. I capitoli dei “Diari” e degli “Attraversamenti” alternano l’indagine storica alla quotidianità dell’autrice, che oppone alla sofferenza del lockdown un’insospettabile vena ironica. «La pandemia e soprattutto la quarantena, e le vicissitudini che ho vissuto in quel periodo - dice Verginella - mi hanno spinto a sperimentare la prosa autobiografica, una novità per me. In questo libro ho cercato di far vedere come le indagini e le ricerche che si svolgono in ambito accademico possano venir spiegate anche con le proprie appartenenze e come la storia familiare e la storia della comunità si intreccino con una storia più generale».

 

La storica triestina Marta Verginella

 

Dov’era quando c’è stato il primo lockdown? A Londra. In realtà sono partita dall’Italia quando la pandemia era già iniziata, ma non volevo perdere l’opportunità di lavorare nelle biblioteche londinesi. La situazione non era buona, ma io sono caparbia. A Londra mi sono trovata a riflettere molto sul fatto di rimanere, partire, quando farlo. Occupandomi di guerre e di periodi molto traumatici del ’900 mi sono sempre chiesta come le persone scegliessero in quei frangenti. Io stessa ho dovuto farlo sulla base di determinate circostanze e questa decisione, per quanto meno traumatica, mi ha riportata al periodo della grande guerra, del ventennio, quando un’infinità di europei si trovava davanti a scelte cruciali, da cui dipendeva la propria vita o morte.

 Che cosa l’ha colpita al ritorno? La chiusura completa del confine italo-sloveno, avvenuta dopo un decennio e più di una mobilità oramai capillare tra i due Paesi. L’interruzione di una quotidianità assodata, per nulla problematica, e il ripiombare in una situazione di totale chiusura che ci riportava al secondo dopoguerra, mi ha spinto a riprendere una serie di ricerche che ho fatto sulla mobilità delle donne dopo il ’45, quando non si riusciva a passare il confine o, comunque, chi lo faceva faticava molto a ottenere i documenti, e sugli spostamenti delle donne tra città e campagna. È stato un bel modo per cucire le tematiche odierne con questi attraversamenti femminili del passato. Perchè si muovevano le donne? Prendiamo la panificazione tra fine Ottocento e inizi Novecento. Era un’attività esclusivamente femminile, come ben evidenziato dagli elaborati catastali, che sottolineano anche il contributo economico apportato dalle donne alle rispettive comunità di villaggio, da Servola ai paesi della Val Rosandra, dove c’era l’acqua indispensabile ai mulini. Questo attraversamento ha ritardato lo smembramento della società contadina nell’entroterra triestino, dove il lavoro femminile ha sempre rappresentato una risorsa. Il lavoro si traduceva, almeno in parte, in una forma di autonomia? Certo. In quest’area c’era un alto tasso di testamenti femminili, un fenomeno quasi eccezionale nel panorama europeo per donne appartenenti alla classe contadina o dei piccoli proprietari. La mobilità femminile ha fatto mai paura? Questo aspetto è visibile nel caso delle lavandaie che venivano soprattutto dai dintorni di Trieste per lavare i panni nelle famiglie cittadine. Con il processo della nazionalizzazione della proprietà e la competizione nazionale tra italiani e sloveni, questo lavoro era sempre più malvisto dall’élite slovena, che cercò di disincentivarlo con un’apposita campagna. Ma guardando all’impero nel suo complesso, questo tipo di discorso nazionalista, mirato a rafforzare i confini delle comunità nazionali controllando le donne, lo troviamo anche altrove. A Praga l’élite boema promosse una campagna per dissuadere le ragazze dall’andare a servizio nelle famiglie tedesche. Il lavoro veniva vissuto come una contaminazione con l’altro, che indeboliva la propria comunità nazionale. Situazione ancora peggiore per le domestiche, che vivevano nelle famiglie... Questo dipendeva anche dalla vicinanza. Le lavandaie erano del territorio e su di loro c’era una maggiore attenzione, mentre le domestiche provenivano a volte dalle aree più lontane, Friuli, Carniola, Istria... Perchè siano fatte oggetto di attenzione da parte delle élite nazionali bisogna arrivare alla fine del’800 e agli inizi del ’900 e nel caso sloveno all’inizio del movimento femminile. A Trieste venne fondato l’Istituto San Nicola per dare sicurezza e accogliere le domestiche slovene disoccupate o appena arrivate in città, esercitando anche una sorta di controllo su chi, poco interessata agli ideali nazionali, tendeva ad assimilarsi con la parte maggioritaria di lingua italiana della città.

Una parte del libro tratta le cosiddette “alessandrine”. Negli ultimi anni il fenomeno dell’emigrazione femminile verso l’Egitto è stato molto studiato nelle sue problematicità e nei suoi punti di forza. Alcune di queste donne hanno aiutato a mantenere le proprietà delle loro famiglie e quando sono tornate sono state accettate, altre hanno vissuto malissimo il rientro, altre si sono rifatte una vita ad Alessandria, si sono rese autonome e non sono più ritornate a casa. Il fenomeno presenta quindi tutte le specificità delle migrazioni, femminili e maschili.

Erano balie e domestiche? Non solo, anche figure molto interessanti di governanti, cuoche, istitutrici. Nel mio parentando, una zia di mia mamma trascorse un periodo in Egitto e un’altra parente gestiva una rivendita ad Alessandria. Gran parte di queste donne proveniva dalle valli del Vipacco e dal Basso Isontino, ma anche dal Friuli e dal Carso.

Che cosa le resta di questo primo lockdown? Lo stimolo alla scrittura di un libro ibrido, a cui avevo già pensato senza mai trovare il tempo. Con una punta di ironia nella parte biografica, perchè di fronte alle difficoltà ti rimane il riso...