martedì 19 aprile 2022

MODA & MODI

 Busti e canottiere, estetica sottosopra

 

Bustini, canotte. Capi ripescati da un passato più o meno recente, riportati in auge nei periodici ricorsi della moda, che oggi ritroviamo trasformati, irriconoscibili nel loro significato e funzione. Manifesti di messaggi politici e sociali. Il bustier è l’esempio più evidente di questa rivoluzione apparsa sulle passerelle, ma resa virale dai protagonisti del mondo dello spettacolo che sul palcoscenico o nelle bacheche social stravolgono alcuni codici dell’abbigliamento per scrivere una loro estetica.

 


 


Da strumento di compressione e di condizionamento a manifesto di liberazione. Non potrebbe essere più estrema la parabola del busto, sui Måneskin tornato a riappropriarsi dell’originaria natura di capo per entrambi i sessi. Nei secoli è stato sinonimo di contenzione del corpo femminile, indispensabile per disegnare quella linea a S che strizzava la vita, enfatizzava i fianchi e spingeva in alto il seno, responsabile di non poche malattie e limitazioni nei movimenti, quindi strumento di controllo sul corpo femminile. 

Oggi il bustino, in materiali morbidi, si porta sui vestiti, sulle camicie, sotto le giacche. Lo propongono le griffe ma anche le grandi catene di abbigliamento low-cost come pezzo ludico, quasi un accessorio divertente e del tutto immemore del suo pesante passato. Damiano dei Måneskin ne ha fatto un manifesto potente della moda che scavalca i generi sessuali. Da capo restrittivo e costrittivo, a capo fluido.


E la canotta? Anch’essa si porta dietro un immaginario importante. L’indumento degli immigrati italiani in America, che toglievano la camicia per non sudare sotto il sole ed essere costretti a frequenti lavaggi. Nel cinema, su Marlon Brando in “Un tram che si chiama desiderio”, 1951, a connotare rozzezza e brutalità. Con i vari Kevin Bacon, Bruce Willis, Nicholas Cage ha vestito, in anni più recenti, personaggi sempre trasgressivi, sensuali ma violenti.

 



Nella politica è sinonimo di tamarraggine: Craxi fu inchiodato in un congresso a Bari nel ‘91, ventun anni dopo toccò a Bossi, con quella canottiera grossolana che parlò al suo popolo più di qualsiasi comizio. Oggi la canotta sfila in passerella, naturalmente griffatissima. Ha perso qualsiasi connotazione di indumento intimo, è di cotone, di pelle o tessuti tecnici, si indossa su gonne lunghissime, jeans o pantaloni ampi, sotto il tailleur. Non più capo maschile, non più biancheria, spogliato di riferimenti, è un altro pezzo da mettere nell’ideale guardaroba intercambiabile tra i sessi.

 


 


C’è infine una t-shirt in questa primavera che continua nel segno della guerra. Ne abbiamo tutti nel cassetto, moltiplicate dai lockdown, la ritroviamo rieditata dalla forza degli eventi. Niente a che fare con quella che, nel 2007 su Berlusconi, scatenò un pigro dibattito sull’opportunità di mostrare il collo rugoso. La t-shirt verde militare, divisa del presidente ucraino Zelensky, lancia un messaggio di vicinanza, appartenenza, resistenza. Un leader nella maglietta della salute che non perde ruolo o autorevolezza davanti agli interlocutori di tutto il mondo, anzi, li spinge all’emulazione come nel caso della presidente del Parlamento europeo, Metsola. Un pezzo di cotone trasformato in un’arma comunicativa, una strategia al pari di quella bellica. Non c’è bisogno di slogan, di scritte, la nuda t-shirt non può essere più solo un pezzo di sotto.

lunedì 4 aprile 2022

MODA & MODI

 

Cromoterapia col verde lime

 

 

Photo Voguemagazine

 

 L’onda verde di questa primavera ci mette alla prova. Accelerare per prenderla tutta o procedere con cautela? Non c’è vetrina che non abbia una punta di lime. Trench, pantaloni, abiti, cardigan in total green o con fantasie dove l’acido si impone. Non è solo il rassicurante e solido verde smeraldo, ma quella sfumatura che vira nel giallo, quella nuance elettrica e appuntita, che non nasconde di essere infida, così a metà tra il verde e il giallo conclamato.


Da un giorno all’altro è comparsa dappertutto, quasi insieme alla fine dello stato di emergenza pandemica. Mentre nelle prime liberazioni dai lockdown procedevamo a tentoni, ancora avviluppati nel nostro comfort wear, nelle tute e nei pantaloni di lana, adesso alcuni capi e colori sembrano volerci dare una scossa, spingerci a uscire dal perimetro rassicurante dell’abbigliamento per lo smart working: comodo, neutro, calmante più che elettrizzante.

Non c’è magazine di moda e una sfilza di copertine che non abbiano puntato sulla gonna più estrema della stagione, la cosiddetta mini di Miu Miu, fotografatissima ovunque in kaki, denim, blu avio, nero: un ritaglio di stoffa a pieghe appoggiato tra la linea del pube e quella delle natiche, con il dettaglio del bianco della tasca obliqua che spunta dall’orlo. Come se fosse quanto rimane di un paio di pantaloni cargo tagliati sotto la cintura, in una specie di furia liberatrice. Sopra si portano le camicie o i maglioni crop, anch’essi capi sforbiciati all’altezza del reggiseno, che scoprono tutta la fascia addominale. 

 

Bottega Veneta

 

Alcune proposte della moda ci sollecitano a estremizzare, per ristabilire il nostro potere sul corpo, a lungo sottoposto a imposizioni, da cui in qualche modo siamo stati per un periodo espropriati, anche se a fini superiori. E l’invito è stato colto, almeno in un’ampia fascia generazionale: temperature permettendo, spuntano le avanguardie degli ombelichi in libertà, mini e pantaloni a filo gluteo, per il momento sopra le calze velate.


Per i colori vale lo stesso. Il verde lime è la punta estrema di una palette di rosa, arancioni, rossi, gialli tutti carichi, zuccherosi, o con un ingrediente al neon. Le fan di Bridgerton su Netflix ci hanno fatto l’occhio nelle mise di Penelope Featherington, ovvero lady Whistledown, che sotto mentite spoglie svela i gossip dell’aristocrazia della Reggenza inglese. Per assurdo queste tinte spinte si distribuiscono di preferenza non su gonnelle sfuggenti ma sul capo più coprente in circolazione, il tailleur dal taglio maschile, sia nella versione pantalone lungo che in quella con bermuda, anch’esso ubiquo nelle vetrine.


Il tailleur verde: ecco il completo che sintetizza l’umore della stagione. Imperativo, eccessivo. Obbliga ad esporsi, come la micro mini. Tempo di scelte decise, o cromatiche o nelle proporzioni. Tornando alla domanda iniziale: seguire l’onda? Perchè no, se un vestito o un colore - che ci piace e ci sta bene - migliora anche l’umore, l’autostima, aiuta a rigenerarsi. Già lo sappiamo che la sua carica ha una data di scadenza, è legata a questo momento sospeso tra preoccupazioni e speranze: il prossimo anno sarà come una vecchia pelle, che avremo voglia di abbandonare. 

domenica 3 aprile 2022

L'INTERVISTA

 

Renato Balestra, da Trieste al mondo

un impero di moda fondato sul blu 



 

Oltre sessant’anni nella moda. Anzi, molti di più, perchè il primo abbozzo di modello, che diventò il vestito per un’amica, lo disegnò da studente di ingegneria all’Università di Trieste. Alla vigilia del suo novantottesimo compleanno, che festeggerà il 3 maggio, Renato Balestra ha scelto di passare la mano del suo impero. Gli succedono le figlie Fabiana e Federica e la nipote, Sofia Bertolli Balestra, che traghetteranno lo storico brand verso le nuove generazioni. La prima collezione di prêt-à-porter ha debuttato alla Fashion week di Milano nel febbraio scorso. Dopo teste coronate e attrici internazionali, che vestirono modelli firmati Balestra fin da quando, giovanissimo, il futuro couturier vendeva i suoi disegni per mantenersi a maison come Sorelle Fontana e Schuberth, oggi la sfida è conquistare il pubblico dei millennial e della Generazione Z.


Al telefono la voce di Renato Balestra è squillante.

I ricordi, tanti, fluiscono senza interruzione, dalle case triestine, al liceo Oberdan, ai bagni e alle passeggiate con gli amici, alle serate di musica al teatro Verdi, prima della decisione di lasciare la famiglia e inseguire il sogno della moda, a Milano e poi a Roma, dove nel 1959 apre l’atelier. Il desiderio di tornare a Trieste è forte, magari con quella mostra di abiti, disegni e bozzetti, anche per i costumi di lirica e musical, che avrebbe dovuto tenersi a Miramare nel 2019 e che la pandemia ha bloccato.

 

Renato Balestra nel 1980 accanto a Mila Schon e Gianni Versace

 


Signor Balestra, lei ha ceduto lo scettro. Ma si è riservato una nicchia?  Ho passato la mia vita in quella nicchia. Eccome, se me la sono riservata. Ma oggi è cambiato tutto, compreso il modo di concepire come vestirsi, come comportarsi. Non ci sono più i grandi balli, le grandi feste, le grandi occasioni, il nostro modo di essere e di vestire si è trasformato. È giusto che lo facciano i giovani, che forse sono più allenati.


Continua a disegnare? Sì, lo faccio per occasioni speciali. E spero che succeda ancora.


Immagino che qualche sua cliente avrà nostalgia di lei... Più di una, però anch’io ho nostalgia di loro. Poco tempo fa ho telefonato a New York a delle mie clienti importanti. Vengo da voi, ho detto. E loro: “Ma vieni, dai, che ci manchi tanto, però la collezione no, perchè non ci vestiamo più”. Anche per andare al Metropolitan, un vestitino nero, magari comprato in boutique, un bel gioiello e finito. I balli del secolo, come quello di Carlos de Beistegui, a Venezia nel ’51, queste occasioni clamorose, sono passati.

 

La collezione d'alta moda autunno-inverno 2015-2016

 


Parliamo delle signore reali che hanno scelto Balestra. Intanto devo dire una cosa. Con tutto il rispetto per la posizione delle regine e di alcune signore importanti che ho vestito, i nostri rapporti sono stati sempre amichevoli, senza l’impasse del ruolo. Amiche, prima che clienti, con cui ha avuto relazioni meravigliose.


Un aneddoto regale... Ero a cena con la regina di Thailandia, mi aveva fatto sedere alla sua sinistra. Nel suo enorme parco, al Chitralada Palace, dove abitava, aveva degli artigiani che creavano oggetti per lei, tra cui dei gioiellieri. “Guardi uno degli ultimi lavori” mi disse, mostrandomi la sua borsa, a uovo, tutta d’oro e completamente ricoperta di pietre preziose. Nell’attimo in cui me la mise in mano, la borsa si aprì. “Sua maestrà, credo di essere una delle poche persone che ha visto che cosa una regina tiene nella borsetta” le dissi. E lei rispose: “Ma mi fido di lei”.


Allora c’era qualcosa che non si poteva rivelare? Ma no. Un pettinino, un rossetto. Pur nella loro incredibile posizione, erano donne come tutte le altre.


Anche Farah Diba? Farah Diba è stata una delle prime che ho conosciuto, sono andato spesso a palazzo. Intimidito? No, forse un pochino all’inizio, ma lei era gentilissima, educatissima, deliziosa, per cui il rapporto fu sempre piacevole.


Imelda Marcos? È stata quasi sempre vestita da me. Andavo nelle Filippine dalle due alle quattro volte l’anno e lei ordinava le collezioni. A volte anche lo stesso modello in colori diversi. Sono ancora amico dei figli, della famiglia, è stato un rapporto bello. Era una donna molto potente, ma non con me. Ho sempre trovato un po’ ridicolo che fosse famosa per l’incredibile quantità di scarpe. Non le collezionava affatto. Per esempio, quando le facevo un gran vestito da sera le mandavo le scarpe intonate, senza che neppure me lo chiedesse. Ci siamo visti anche a New York. Quando a Broadway realizzai il musical Cinderella di Rodgers e Hammerstein lei venne in palcoscenico e io le feci portare da un valletto un cuscino rosso con una scarpetta bianca ricamata, come Cenerentola.

 

Autunno-inverno 1988-1989

 


Più capricciose le attrici o le first ladies? Le persone che non erano così importanti e pretendevano di esserlo. Per le first ladies c’erano dei canoni, non troppo scollate, non troppo corte, abiti che si confacessero al loro rango.


Un’attrice che le è piaciuto vestire? Mah, da me sono passate quasi tutte. Quando ero negli Stati Uniti Liz Taylor, Lauren Bacall. Tutte con molta grazia. Una sola, Tina Louise, lei sì era molto capricciosa. Un’attrice che non era mai diventata famosissima ma si credeva più famosa di quello che era. Aveva delle scarpe talmente grandi, che per ridere, in atelier, una volta me le infilai.


La prima signora Trump, Ivana, comincio con lei? Sì, in Canada, all’inizio della mia espansione in America. Sfilò per me, era bellissima e molto simpatica. Regine, miliardarie, noi le vediamo sempre con la corona in testa, ma in fondo rimangono donne, con i loro capriccetti, specialmente se possono permettersi qualsiasi cosa. Ma di solito più possono, meno sono pretenziose. Mi ricordo un’attrice francese che mi telefonava e mi diceva: “Balestra, mi deve fare una vestito come quelli di Chanel”. E io rispondevo: “E allora vada da Chanel”.


Lei doveva diventare ingegnere. In verità non ci ho mai aspirato. Mio padre era architetto e a tutti i costi voleva che diventassi ingegnere. Io amavo soprattutto la musica, ho cominciato a suonare il pianoforte a sei anni. Arrivai quasi a un livello concertistico ma a casa mia non c’erano grandi aspirazioni artistiche. Solo un fratello di mia madre, che non ho conosciuto, amava la musica e a casa, da piccolo, ritrovai molti dei suoi libretti d’opera. Tra tutti ne preferivo uno che aveva una bellissima copertina con una cornice viola: erano gli Iris di Mascagni. Avevo appena imparato a leggere e naturalmente non conoscevo le opere, ma leggevo e inventavo io la musica e la cantavo.

 

Nello showroom di via della Spiga a Milano, 1975

 


E come è arrivato alla moda? Ero al bagno Ausonia con degli amici. All’epoca avevo una ragazza che era la più elegante della scuola e aveva comprato una stoffa celeste a pois blu scuri, che poi ho scoperto fosse organza, perchè non conoscevo i tessuti. Voleva farsi un vestito e non trovava niente. Io già disegnavo molto, la mia giornata era musica e disegno. Spinto dagli amici e per non scontentarla, buttai giù un figurino che poi lei diede alla sua sarta di Trieste. La cosa finì lì. Poi, dopo qualche mese, mi chiamano dall’Ufficio della moda di Milano, all’epoca già istituito, e mi dicono che una casa d’alta moda voleva vedermi.


 

 




E chi era? Jole Veneziani. Approfittai di un viaggio premio che, agli ultimi anni di ingegneria, offrivano agli studenti più promettenti. Immaginatevi con che cuore io andavo a visitare fabbriche. Comunque siamo passati per Milano e andai a trovare quella signora, avevo come me dei disegni ambientati in un palazzo, in un giardino, sembravano dipinti più che figurini di moda. Lei mi propose di disegnare la sua prossima collezione. Mi offrì abbastanza soldi, ero uno studente squattrinato, così mi sono detto: io provo. Ho chiamo i miei e ho detto loro che già mi avevano tarpato le ali con la musica, che mi prendevo sei mesi e se non ce l’avessi fatta sarei tornato. È cominciato tutto così. In atelier, finite le prove, mi caricavo i rotoli di stoffa sulla spalla e li portavo in magazzino. La signora Veneziani mi diceva che non spettava a me farlo, in realtà il magazziniere mi insegnava i nomi dei tessuti. Così ho imparato.


E poi? Avevo cominciato a vedere altre case di moda. Jole Veneziani lo sospettava e un giorno mi chiese di portarle un disegno mio che aveva scartato, così dovetti confessare che li avevo venduti tutti. Da quella volta le mie azioni salirono. Disegnavo anche per altri. Poi le Sorelle Fontana mi offrirono un posto fisso da loro a Roma e lì imparai veramente come si fa un figurino. Lavorai un po’ con loro ma io ero arrivato a Roma di proposito, la moda tutto sommato mi stava un po’ stretta, volevo creare anche per il cinema, per il teatro. La capitale all’epoca era il non plus ultra... Disegnavo per diverse case e mi mantenevo così.


Poi ha aperto la sua... Da Fontana avevo conosciuto una signora che si chiamava Madelyn Fiorito, una delle prime buyer americane per i grandi magazzini, mi aveva preso molto in simpatia. Una volta passando per via Gregoriana mi disse: “ho trovato l’atelier per te. Te l’ho già prenotato per sei mesi”. Così cominciai. Lei mi introdusse negli Stati Uniti, nei grandi magazzini sulla Quinta Strada, poi pian piano mi invitarono in America a fare le collezioni.

 

 

Foto Skino Ricci

 

 


Trieste l’aveva lasciata alle spalle? No, ci tornavo spesso, avevo ancora i miei, mio padre Renato e mia mamma Maria Gladich, che chiamavano Mary, di origine dalmata. Sono nato in via Udine bassa, mi ricordo ogni dettaglio di quella casa, vivevamo con mia nonna ma solo mia mamma aveva un po’ interessi artistici. Da lì ci siamo trasferiti in viale XX Settembre, l’ultima casa sotto la scalinata. Ci ho passato tanti anni, ero iscritto al liceo Oberdan, mi ricordo le passeggiate tra studenti, ogni giorno facevamo tutto l’Acquedotto a piedi, e poi c’era Zampolli, che era il massimo col suo gelato. Amavo concerti e lirica, e per un posto al Verdi in piedi, o in galleria e loggione, stavo in fila per ore. Trieste era piena di fermenti culturali. Nel 1999 ho fatto al Verdi “Il cavaliere della rosa” di Strauss e quando sono uscito in palcoscenico ho avuto un sacco di applausi. Allora mi sono rivolto al pubblico: “Ricordatevi che il mio cuore è là, ho passato anni con voi, in loggione e in galleria”.


C’è un po’ di Trieste nel suo Blu Balestra? Non lo posso dire, perchè in realtà ho sempre scelto il blu, fin da quando ero piccolo e mia mamma mi comprava i vestiti. È stata una sorta di elezione. Ho sempre pasticciato con i colori e mischiandoli ne è uscito questo blu che è presente in tutte le mie collezioni. Poi sono stati i giornalisti a definirlo Blu Balestra. 


Che cosa ne pensa degli influencer? Non ne penso molto bene. Cosa c’è dietro? Non granchè. L’eleganza e la cultura vengono studiando, leggendo, viaggiando, informandosi. Mi sembrano un po’ superficiali.


Una donna protagonista di oggi che le piace. Kate Middleton, la moglie del principe William. È una persona che ha saputo adeguarsi alla sua carica, non è nata principessa, ma è più reale di tante reali. Non fa mai spropositi, mai un passo sbagliato.


Trieste non è una città che produce moda, ma ha dato quattro grandi nomi alla moda italiana: Renato Balestra, Ottavio Missoni, Mila Schön, Raffaella Curiel. Lei come se lo spiega? Non ne ho la minima idea. La città aveva fermenti culturali enormi e questo ha influito sulla mia formazione, ho cercato il bello sempre e quindi la moda. Probabilmente è successo anche ai miei colleghi, che ho conosciuto e con cui ho parlato a lungo. Poi una certa dirittura di pensiero, tutti abbiamo lavorato sodo per conquistare la nostra posizione nel mondo della moda.


Si farà a Trieste la sua mostra Celeblueation, bloccata dalla pandemia?
Lo spero tanto. Pensi che non conosco Miramare molto bene, l’avevo presa come un’opportunità per approfondire la storia del castello, di cui ho un’idea romantica, legata a Massimiliano d’Asburgo, alla sua partenza per il Messico. Mi piacerebbe tornare nella mia città, ci penso con nostalgia. Non ho più la casa, quando i miei sono mancati ho avuto una specie di rifiuto, per me la loro assenza è stata un grande shock. Nel 1998, però, ho esposto abiti e bozzetti al Museo Revoltella. E i Civici Musei conservano il quadro di un mio prozio....


Chi? Angelo Balestra, pittore di una certa fama. Io ho il ritratto del mio bisnonno Giovanni fatto da lui, che era sempre stato custodito con grande attenzione dai miei a Trieste, in particolare da un mio zio e da sua figlia, Renata, con cui sono sempre stato in contatto. Un giorno, forse prevedendo qualcosa, mi ha detto che voleva mandarmi il quadro, raccomandandomi di tenerlo perchè per la famiglia era prezioso. Ce l’ho a casa, l’ho fatto restaurare e chi ha eseguito l’intervento ha detto che si tratta di una mano molto buona. Per forza, ho risposto, è un pittore da museo.


Legge? Qualche volta un libro al giorno. Non leggo, divoro. Tutto. Quando non c’è di meglio anche romanzetti rosa. In questo momento una biografia di Lauren Bacall con foto. Ma mi piacciono molto i libri sui personaggi storici.


Come passa la giornata? Ah, mi passa presto. Un po’ leggo, un po’ disegno, un po’ incontro degli amici. Stasera (la prima del 22 marzo 2022, ndr) vado a sentire la Turandot all’Opera di Roma. Per la Turandot in passato ho fatto i costumi. E sa che so tutte le più importanti opere a memoria?


Cos’è l’eleganza? Armonia. Dove non c’è nessuna nota stonata, come in una bella sinfonia.


Un abito cui è legato? Ne ho fatti talmente tanti... Forse il primo che ho disegnato col mio nome, che ho rifatto poi e mostrato anche in altre collezioni. Un vestito corto di raso blu, naturalmente, con una specie di drappeggio davanti. E poi uno che a me è piaciuto sempre tanto, lungo, semplicissimo, ma con una stella tagliata sulla schiena, sul nudo. Sono tanti gli abiti, tutti figli miei, anche quelli che hanno avuto meno successo. 

 

 

Los Angeles, chiusura della sfilata nel 2011


Un consiglio a sua nipote? Cercare il bello, l’armonia, non fare passi falsi, ricordarsi sempre che non basta un successo per avere successo. Io ero sempre su un aereo, ho girato il mondo, a volte con la mia valigetta e senza neanche un assistente. Ero molto avventuroso. Una volta mi trovavo alle Filippine, ricevuto in pompa magna, e ho voluto andare a visitare i paesi del Nord. Così sono sparito, senza dire niente a nessuno, perchè volevo andare da solo. A un certo punto qualcuno disse che avevano visto una specie di hippy biondo, ma educato, che se ne andava in giro. Quando sono riapparso
mi hanno sgridato in tutti i modi, ma me la sono goduta.


Alla vigilia dei suoi 98 anni, ha ancora un sogno? Uno? Tanti, la mia testa è piena di sogni. Anche le mie collezioni, molte volte me le sognavo prima di buttarle giù. Ne sognavo l’atmosfera. La mia testa è rimasta quella di un ragazzino, sempre allerta.