sabato 24 giugno 2017

IL LIBRO

Troppa attesa per la suprema felicità





Anjum, che si sente imprigionata in un corpo di uomo e lascia la casa per unirsi alla comunità degli “hijras”, ermafroditi e transgender. Tilo, la studentessa di Architettura dai capelli selvaggi, nata nel Kerala e desiderata da tre uomini - un giornalista, un agente dei servizi segreti, un combattente kashmiro - le cui vite finiscono per intrecciarsi nel sangue. Due donne che hanno la guerra dentro, di genere e di identità, in cui si riflette quella di un intero paese, l’India. Sarà una bambina abbandonata dalla madre a far combaciare i loro destini, in un cimitero in cui tanti fantasmi umani, vittime di abusi diversi, relitti di tutte le discariche di un territorio immenso e piagato da conflitti di ogni genere, cercano di ritrovare la dignità. «Di mettere insieme i pezzi per aggiustarsi», come ha detto Arundhati Roy a proposito del suo nuovo libro.

È una storia fluviale, complicata e profondamente politica, quella che la scrittrice indiana, di madre cristiana e padre induista, racconta ne “Il ministero della suprema felicità” (Guanda, pagg. 493, euro 20,00), attesa seconda opera che esce a vent’anni di distanza dal bestseller “Il dio delle piccole cose”, vincitore nel 1997 del Man Booker Prize. Quasi cinquecento pagine di esistenze pervase una dell’altra, lasciate in sospeso, apparentemente abbandonate, e poi riprese a parecchi capitoli di distanza, quando altri accadimenti le hanno attraversate e spesso dilaniate.


Perchè Arundhati Roy in questi due decenni ha scritto molto, saggi e reportage, si è fatta sentire come attivista civile, ha abbracciato le battaglie dei dimenticati. E il nuovo libro riflette profondamente questo impegno, forse troppo, organizzando la trama e i personaggi intorno ai temi al centro delle sue riflessioni, in modo che con le loro vicende personali se ne facciano rappresentanti e portavoce, ne diventino un manifesto: il nazionalismo indù, l’indipendentismo nel Kashmir represso con stragi e torture, la devastazione ambientale, la corruzione del sistema, la società castale con i suoi intoccabili. Ancora: dal disastro industriale e ambientale di Bhopal nel 1984, con la nube tossica che provocò migliaia di vittime, al massacro dei musulmani nel Gujarat del 2002, dai combattenti maoisti confinati nelle foreste dell’India centrale insieme al loro sogno di rovesciare lo Stato con le armi, alle manifestazioni anticorruzione a New Delhi nel 2011, non c’è fronte dove la trama non approdi (magari con un pugno di righe), sostenuta dalla forte tensione dell’autrice contro la globalizzazione che cancella identità e culture e la scomposta crescita industriale che devasta il paese.


È dove la vicenda umana più intima dei protagonisti riesce a farsi largo e a prendere il sopravvento sull’urgenza della denuncia, che il libro restituisce l’anima di quegli ultimi con i quali Roy aveva affascinato ne “Il Dio delle piccole cose”. Quando Anjum trova una bimba abbandonata e urlante e le offre un dito, cui la piccola si aggrappa:
«Vedersi ignorata anzichè temuta da quella minuscola creatura placò (almeno per un momento) ciò che tanto tempo prima e con tanta sagacia Nimmo Groakhpuri aveva chiamato la guerra tra India e Pakistan. Le fazioni in lotta dentro Anjum si zittirono. Il suo corpo divenne un ospite generoso anzichè un campo di battaglia. Era come morire o come nascere? Anjum non sapeva spiegarselo. Nella sua immaginazione, ciò che provava aveva la pienezza, il senso di completezza di una di quelle due esperienze».

O quando Tilo, insieme all’amato Musa, percorre la Valle di Lolab, considerata il posto più bello e più pericoloso di tutto il Kashmir, le cui foreste brulicavano di ribelli, e beve l’acqua trasparente dei ruscelli mettendosi carponi come un animale, mentre il gelo le colora le labbra di azzurro. «Una notte si sedettero accanto al fuoco in un rifugio di pietra deserto sulle più alte pendici dei monti, usato d’estate dai pastori Gujjar quando portavano lassù le loro greggi dalle pianure. Musa le mostrò la via che spesso i militanti percorrevano per attraversare la Linea di Controllo. “Berlino aveva un muro. Noi abbiamo la catena con le cime più alte del mondo. Non crolleranno mai, ma le scaleremo”».


Legando queste pagine, dove Arundhati Roy parla attraverso Tilo col cuore prima che col cervello, la storia si gonfia e prende il volo. Tutto il resto è tortuoso, faticoso, spesso superfluo.

@boria_a

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