mercoledì 28 agosto 2024

MODA

Emily in Paris veste Roberto Capucci

L'abito nell'archivio a Villa Manin

 

 



 Roberto Capucci cade dalle nuvole. «Non ne sapevo niente» dice il grande couturier romano, il cui preziosissimo archivio è conservato a Villa Manin di Passariano dove ha sede anche la Fondazione che porta il suo nome. Il suo abito “Nove Gonne”, rosso fuoco in taffetà di seta, anno 1956, agli esordi del made in Italy nel mondo, comparirà nella seconda parte della serie “Emily in Paris”, le cui nuove puntate debutteranno su Netflix dal 12 settembre.


È una citazione, non l’originale. Emily, in trasferta romantica a Roma, scenderà la scalinata di Piazza di Spagna in un modello quasi identico a quello di Capucci, anch’esso custodito a Villa Manin, con la sostituzione di un paio di pantaloni Capri alla gonna a tubo che nella versione autentica esce dalla raggiera di nove strati di tessuto, poi raccolti in un breve strascico (questioni di copyright?).

«Nessuno ci ha consultato - conferma il nipote del designer, Enrico Minio Capucci, responsabile della Fondazione - ma ne siamo felicissimi. L’abito fa parlare quasi più della serie. È comparso su Vogue Spagna, su molti blog, su Vanity Fair, dove nell’articolo è riportato in fotografia un altro abito Capucci attualmente esposto a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia, nella mostra su moda e design degli anni Sessanta, un modello della Linea Optical ispirato all’Op-Art e alle opere di Victor Vasarely».


Il “Nove Gonne”, disegnato da Capucci a 26 anni guardando i cerchi concentrici disegnati da un sasso lanciato a pelo d’acqua, è una delle creazioni più iconiche ed esposte della sterminata collezione storica del couturier, accanto al celebre “Fuoco”, ed è appena rientrato a Passariano da un allestimento alla Fondazione Zani di Brescia dedicato al rosso nei busti di porfido romani e al rosso nella moda.

 Il “Nove Gonne” fu realizzato per una delle tante, famose clienti del couturier, le fedeli “capuccine”, la nuotatrice Esther Williams, protagonista di “Bellezze al bagno”, ma in una versione diversa da quella custodita a Villa Manin, con spalle e schiena scoperte, per permettere all’ex nuotatrice di mettere in mostra la sua notevole fisicità. Ha fatto anche pubblicità, fotografato nel ’57 per promuovere una fiammante Cadillac sullo sfondo del Foro Romano. L’anno scorso, sempre a Palazzo Attems Petzenstein a Gorizia, l’abito era tra i più celebrati della mostra dedicata agli anni Cinquanta e alla nascita dello stile italiano.

 

 

"Italia Cinquanta" nel 2023 a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia


L’Emily della serie, l’attrice Lily Collins, pr di Chicago esportata nella Ville Lumière, dove per i critici, in particolare d’oltralpe, interpreta fin troppo filologicamente gli stereotipi sullo stile francese visto dagli americani, nella nuova parte della stagione si sposta a Roma. E qui, fatalmente, proprio come Audrey Hepburn nelle “Vacanze romane” di William Wyler del 1953, con cui vinse l’Oscar, incontrerà il suo Gregory Peck, che nella serie - a proposito di stereotipi - non poteva che chiamarsi Marcello (l’attore Eugenio Franceschini), e si farà scarrozzare in Vespa nella città della Dolce Vita con una serie di mise, dal foulard al collo alla gonna ampia con sottogonna di tulle, modellate dalla costumista Marylin Fitoussi su quelle indossate dell’inarrivabile Audrey.


A Villa Manin, intanto, si lavora al Museo dedicato al genio inventivo di Roberto Capucci, che dovrebbe aprire entro l’anno, in vista della Capitale della Cultura. Esposizioni a tema che presentino al pubblico non soltanto le sue architetture tessili, ma anche le sculture e l'infinito giacimento di disegni e costumi, gli ultimi per “Le creature di Prometeo. Le creature di Capucci” al Festival dei due mondi di Spoleto.

martedì 20 agosto 2024

MODA & MODI

Bermuda, slip, perizoma: le opzioni del maschio al mare 

 

Alain Delon e Romy Schneider in "La piscina" (1969) di Jacques Deray

 


 Mutande, boxer, bermuda? Slip o calzoncini? Gli uomini non sono esenti dalle regole del bon ton da spiaggia, anche se le loro opzioni sono apparentemente più semplici e scontate. Regole non scritte e non sanzionate - salvo quelle in vigore in molte località balneari, che vietano di aggirarsi senza maglia o in costume in città, per scongiurare che un popolo seminudo attraversi le strade, entri nei negozi o si accomodi al ristorante - si richiamano al buon senso e al buon gusto, territorio scivoloso e interpretabile, dove è facile sentirsi nel giusto.

 

Questione di misure e di proporzioni, prima di tutto. Se i costumi maschili non conoscono il cut out, perché nessun designer potrebbe arrivare a tanto da tagliare un pezzo di stoffa qua e là, scoprendo che ne so una porzione di gluteo o uno spicchio di pube pur di esercitare la sua creatività su un pezzo di stoffa pressoché immodificabile, lunghezza e forma fanno la differenza, eccome.

 

Bermuda fino al ginocchio o oltre? Banali considerazioni sulla scomodità dovrebbero scoraggiare questa opzione. È consigliabile non aggirarsi in spiaggia con un paio di pantaloni da città, peggio se con tasche posteriori o laterali, inutili ammennicoli soprattutto sulla sabbia. Il calzone urbano non diventa calzone da mare solo perché si attraversa il confine tra città e spiaggia, non è un capo fungibile e ancora meno un alibi per evitare di cambiarsi, fa solo sembrare troppo vestiti e appesantiti per il contesto.

 

Gli slip a mutanda? Il coro dovrebbe levarsi solenne, come nella tragedia greca: rasentano il filo della volgarità e non stanno bene a nessuno, per quanto palestrati e asciutti possiate essere. Brutti sui magri, inguardabili su chi è sovrappeso o sovrapancia. Certamente le recenti olimpiadi hanno suscitato qualche fantasia emulativa, da allontanare senza patemi. Le mutande possono serenamente rimanere confinate nell’intimo inteso come categoria vestimentaria e come privacy. E c’è un’aggravante: l’utilizzo, il sale, il cloro, ne allentano i bordi, rendendo ancora più difficile sottrarsi all’effetto penzolamento.

 



La scelta che rimane è la migliore: il pantaloncino a metà coscia. Alain Delon ne "La piscina" con Romy Schneider (1969) è l'immagine che in queste ore abbiamo davanti agli occhi. D'accordo, Delon. Ma il pantaloncino è decoroso per qualsiasi età e fisico. Chi vuole sbizzarrirsi ha colori e fantasie a volontà, per gli altri c’è la palette dei blu. Il dilemma, semmai, è che cosa metterci sotto per evitare il fastidio delle reticelle contenitive. Ecco allora che lo slip-mutanda può ritrovare, ben nascosto, una sua ragion d’essere. Non così il comune boxer di cotone con il bordo griffato - i sempiterni Armani-Calvin Klein-Ralph Lauren - da lasciar uscire dai pantaloncini, in pratica l’urbana mutanda a vista trasferita al mare, purchè ci sia il logo.

 


 


Veniamo all’estremo, l’innominabile. Pensavate che fosse esclusiva delle scuole di danza? Non è così. Il perizoma si aggira tra noi (molto più vicino di quanto pensiate) complice il fisico senza maniglie di qualche temerario estimatore. Qui gli aggettivi vengono meno per non essere tacciati di un qualsivoglia shaming, dal body al cervello. Lavorate di fantasia, la risposta verrà da sé.

lunedì 5 agosto 2024

 MODA & MODI

 Che brat quel verde

 


 

 

Farà bene il verde brat a Kamala Harris, la candidata democratica che sfiderà Trump alle presidenziali americane? Se vi state interrogando su che sfumatura sia il brat green, per la Gen Z non siete altro che cringe, in sostanza “inadeguati”, una sotto categoria del boomer. È il verde che campeggia sull’omonimo album della cantante pop britannica Charli XCX, dal titolo omonimo: un verde acido, irritante, disturbante, con una punta di giallo, il verde da ragazzacce che vogliono sovvertire le regole, scocciare e scuotere le convenzioni, essere anche brutte e fastidiose, pungolare, al contrario della perfettina e leccata Taylor Swift con tutti i suoi fan legati dai braccialetti dell’amicizia. Il verde brat è infido come quel campo unico sulla copertina del disco, dove è stampigliato il titolo volutamente sfocato, brat, appunto, termine diventato categoria di un’opposizione alle regole che rifiuta ogni categorizzazione.

Verde tossico, che può far male. Niente di nuovo, insomma, perché il verde, per secoli, ha avuto una connotazione sinistra. “Kamala is brat” ha lanciato Charlie XCX su X - il social di Elon Musk sostenitore di Trump - e immediatamente i profili della vice presidente americana hanno reagito, assorbendo colore e logo e gongolando per l’endorsement che fa breccia nelle giovani generazioni. Difficile immaginare Kamala, congelata nei suoi tailleur pantaloni maschili da consiglio di amministrazione, nelle giacche dalle spalle forti così corporate, farsi galvanizzare e spiazzare da un colore che irrompe nella palette scontata della donna di potere: il blu del suo partito, il bianco delle lotte femminili, il nero della stabilità istituzionale.

Quando Kamala ha indossato il viola per la cerimonia dell’insediamento - caricando su quel cappottone imponente il senso dell’unione nazionale, blu più rosso, democratici e repubblicani, l’omaggio alla prima donna nera eletta al Congresso, Shirley Chisholm, che amava il viola, e tutti i contenuti antirazzisti del film “Il colore viola” di Spielberg - ha esagerato nella simbologia e nei significati impliciti, lasciando l’impressione di un colore sopra le righe. Il power dressing, che lega moda e politica, ha equilibri sottili.


Intanto, ringalluzzito dall’ondata di popolarità delle ultime settimane, il verde brat spunta nelle vetrine degli agonizzanti saldi di stagione: qua e là una gonna, una camicia, un accessorio. Testimonial d’eccellenza Miuccia Prada, che da sempre privilegia un verde anticonvenzionale, piu virato sul lime, portandola in versione total anche all’evento degli eventi, il Met gala nel 2018 e 2023.

 

Miuccia Prada, Met gala 2018 ph. REX/Shutterstock

 

 È dal 1996 che la signora dell’ugly chic maneggia con disinvoltura il verde, abbinandolo al marrone, come nelle piastrelle e negli arredi anni Cinquanta, in una combinazione poco commerciale e proprio per questo spiazzante, come il brat di oggi. Vale dunque la pena comprare un pezzo di questo colore? Ha diluito e poi spazzato via il rosa Barbie, col suo coccoloso buonismo, è diventato il colore intruso di questa mezza estate. Dove una staffilata cromatica ci vuole. Non solo per la candidata.

lunedì 22 luglio 2024

MODA & MODI

 J. D. Vance, Carola Rackete, Ilaria Salis

L'estate di barbe e peli al potere

 

Meno male che è arrivato J.D. Vance, candidato repubblicano alla vicepresidenza degli Usa, a farci dissertare sulla sua barba e, peggio, sul presunto uso della matita nera intorno agli occhi azzurri per infondere solennità alla sua faccia rotonda da ragazzone cresciuto a cibo spazzatura e riscattato dal sogno americano.

La sua autobiografia (da leggere, davvero, e all’inizio molto apprezzata dai liberal, che vedevano nell’autore, di una famiglia marginale immigrata dai Monti Appalachi verso la rust belt, la cintura industriale, e poi laureato a Yale, la prova vivente del successo delle loro battaglie) si intitola Hillbilly Elegy, perché hillbilly, gente di collina, erano chiamati dispregiativamente i poveracci bianchi delle classi rurali, immigrati di origine irlandese o scozzese, privi di istruzione. Bifolchi, insomma, o red neck, colli spellati dal sole, o white trash, spazzatura bianca.


                                          Nel 2017 ai tempi del successo repentino di Hillbilly  Elegy


J. D. Vance alla Convention repubblicana di Milwaukee - Evan Vucci /Ap


Meno male, appunto, che si è appalesato Vance, con la sua barba disciplinata, perché altrimenti il dibattito estetico-politico-vestimentario dei sonnolenti mesi estivi, tra saldi imperdibili e future tendenze, si sarebbe incagliato sugli scontati outfit delle neofite europarlamentari Ilaria e Carola.

 Le statistiche sulle barbe alla Casa Bianca stanno appassionando i giornali: riassumendo, se Trump ce la farà, il numero due del ticket sarà il primo barbuto dal 1893, quando terminò il mandato il presidente Benjamin Harrison. Tutta la galleria dei presidenti dell’Ottocento è popolata di barba e baffi, poi si preferirono candidati che l’elettorato potesse guardare a viso aperto e scoperto. 

Tuttavia, l’idea di conquistare gli Stati in bilico con il “proletario“ Vance ha fatto superare a Trump la proverbiale pogonofobia, l’avversione per i peli facciali, che provava anche Silvio Berlusconi, al punto che The Donald si è avventurato a paragonare il suo vice a un giovane Abraham Lincoln. Su matita e forse addirittura kajal il tycoon non si è pronunciato, ma è noto che per se stesso non disdegna la doratura di fondotinta e spray abbronzanti, esattamente come il fondatore di Forza Italia faceva con il make up che gli regalava quel pastoso e omogeneo incarnato da Muppet.

 

(leggi la recensione a "Elegia americana" su questo blog)

IL LIBRO

Elegia Americana, con J. D. Vance

dentro l'America dei perdenti

 

Di un’altra forma di irsutismo hanno parlato i giornali italiani di area conservatrice, commentando l’immagine della neoeletta in Europa, la tedesca Carola Rackete, immortalata accanto alla collega Salis in scarpe da ginnastica nere, vestito arancione e nessuna preoccupazione per l’esuberanza pilifera dei polpacci.

 

Carola Rachete, Mimmo Lucano e Ilaria Salis a Strasburgo

 

Poco sapido il commento della leghista Susanna Ceccardi, già nota per la campagna elettorale basata sulla comparazione estetica con le avversarie. Quel “pronte per la fashion week” ha scatenato ancora una volta l’indignazione della rete al grido di body shaming, tema sensibilissimo e trasversale. “Quando ci mettiamo un vestito diciamo quel che siamo e gli altri lo capiscono. Vestirsi è scrivere la propria identità sul corpo…” dice il semiologo triestino Ugo Volli.

 

E Rackete e Salis hanno interpretato filologicamente. Scarpe da ginnastica, zaino, zeppe di corda e capi anonimi e quotidiani, sono il messaggio che le due europarlamentari trasmettono: portiamo avanti le nostre battaglie anche qui, restiamo quel che siamo e siamo state, nessun compromesso e soprattutto non abbiamo vinto un jackpot. Ilaria si è spinta oltre, evidenziando una propensione a magliette semi-crop che le lasciano scoperta solo una fascia lattea di addome, appena sopra l’ombelico, tra jeans e gonne. La “body hair positivity” per la Gen Z esprime libertà nei confronti della “norma di genere” che alle donne impone la depilazione, ha dunque un contenuto politico. La pancia al vento dentro il Parlamento europeo sortisce l’effetto opposto: toglie alla politica, nel senso di persona fisica, il contenuto.

lunedì 8 luglio 2024

MODA & MODI

 L'ombelico va in ufficio 

 



 

È appropriato lasciare l’ombelico a vista al lavoro? La risposta sembrerebbe scontata, ma l’interrogativo mi si è parato davanti qualche giorno fa, in centro a Trieste, osservando l’addetta di un’agenzia immobiliare al piano marciapiede, in jeans e pancia scoperta. Nella stagione che si inorgoglisce dell’aver cancellato i codici, giocoforza ci affidiamo a un sostantivo scivoloso come «appropriatezza» per cercare di argomentare sulla questione. Quanto mini può essere appropriata una minigonna in ufficio? La faccenda ha impegnato in questi giorni i lettori del New York Times in un’accesa discussione, moderata dalla prima firma della moda, Vanessa Friedman, che si è spinta a scomodare un’esperta del Fashion Law Institute della Fordham University, Susan Scafidi: nessuna limitazione di centimetri può essere imposta per legge, ha detto l’interpellata.

Ovvio: la contropartita è essere pronte ad affrontare il giudizio delle persone e abituarsi all’idea di essere valutate più per quello che si indossa che per quello che si è o si fa, come accadeva nella serie tv degli anni Novanta Ally McBeal, avvocatessa in gonnelline estreme e tacchi a spillo. I pro e contro ci sono da entrambe le parti: irrita che i vestiti siano un metro di giudizio per liquidare le donne come decorative e irrita altresì dover mortificare la libertà di mostrarsi per provare di avere un cervello. Alla fine i commentatori sono arrivati a un compromesso onorevole: fatta salva la valutazione sull’ambiente di lavoro in cui ci si muove, se la minigonna è indossata con disinvoltura, senza tirarsela giù a ogni movimento, magari con un paio di calze spesse ed evitando di scervellarsi su che cosa gli altri ne penseranno, allora si possiedono abbastanza assertività e confidenza nel proprio corpo da portarla. E magari farla pure diventare uno strumento di empowerment, di autoaffermazione.


Ma l’ombelico al vento? Qui non si tratta di centimetri di tessuto, ma del corpo scoperto, che dalla notte dei tempi segnala pericolo e tentazione. Un altro dibattito sull’autorevole quotidiano americano è sceso al piede: nudo al lavoro si può? Leggi in materia non esistono, i codici di abbigliamento delle varie società sono spesso opachi e interpretabili, quindi che fare? Tra i negazionisti più estremi e i feticisti a oltranza, vale ancora la via di mezzo: la slingback, scarpa aperta con la cinghietta sul tallone, preferita da Anna Wintour, incornicia la nudità e la rende meno esposta.


Ma non eludiamo il punto di partenza: l’ombelico. Qui non c’è niente da incorniciare o schermare. O sì o no. Intergenerazionale, protagonista dell’onda libertaria post pandemia, esiste solo lui, al centro di una pancia più o meno tesa. E allora, se non ci sono codici interni - che comunque danno sempre la sgradevole impressione che il dipendente debba essere “guidato” - bisogna avventurarsi su un terreno ancora più insidioso dell’appropriatezza. Sono credibile vendendo una casa con la pancia all’aria? Se il problema non si pone per la barista che mi porge il caffè in shorts-mutanda e unghie ad artiglio, certamente “inappropriata” all’ambiente, in un luogo dove è d’obbligo instaurare un rapporto di fiducia con l’interlocutore, l’ombelico è ingombrante? La risposta, dicevamo all’inizio, non è scontata. Ma la domanda sì.

mercoledì 26 giugno 2024

 LA MOSTRA

Italia Sessanta. Arte, Moda e Design

Dal Boom al Pop a Gorizia 

 

Divano Bocca® di Studio 65, 1970 ©Courtesy Gufram
 

Design, moda, arte per raccontare i formidabili Sessanta. Un decennio di crescita economica e di trasformazioni sociali, di conquiste e rivendicazioni, attraversato da una spinta creativa che disegna nuovi spazi e forme, esterni e interni, crea oggetti colorati e poetici, dove funzionalità e invenzione si compensano, ripensa abiti, accessori, gioielli, che sperimentano materiali, diventano prove d’artista, in un nuovo rapporto con il corpo e le sue decorazioni.

Il mangiadischi arancione ideato da Mario Bellini nel ’68, portatile come una borsetta, suona ovunque la colonna sonora delle nuove generazioni, a cavallo del Ciao o della bici Graziella. Nelle case, dal ’67, entra il Grillo di Marco Zanuso e Richard Sapper, il più piccolo telefono mai progettato, antenato dei primi cellulari a ostrica. Al cinema si ride con Fracchia la belva umana, che rovina a terra dalla poltrona Sacco di Zanotta, pensata nel ’68 da Gatti, Paolini e Teodoro. Tutti pezzi premiati col Compasso D’oro, interpreti di un’epoca che guarda al futuro con speranza, fino a spingersi a immaginare l’uomo sulla Luna, nel futuribile “Allunaggio”, sedile per esterni dei fratelli Castiglioni, anno 1965, che precede di quattro la passeggiata degli astronauti Armstrong e Aldrin. Pezzi ancora in produzione, come la radio cubo, la Ts 502 di Zanuso, ricercatissima in rete anche nella versione vintage.

 

Giradischi portatile GA45 POP, 1968 (Minerva) di Mario Bellini ©Triennale Milano(f. Amendolagine Barracchia)

 


Apre per il pubblico sabato 29 giugno alle 10 (l’inaugurazione domani alle 18 con le autorità, a invito), a palazzo Attems Petzenstein di Gorizia, la mostra “Italia Sessanta. Arte Moda e Design. Dal Boom al Pop”, che sarà visitabile fino al 27 ottobre 2024. Una mostra a grande richiesta - dice Raffaella Sgubin, direttrice dei musei e archivi storici dell’Erpac e curatrice della sezione moda con Enrico Minio Capucci, mentre il design è affidato a Carla Cerutti e le arti visive a Lorenzo Michelli - inserita nella programmazione regionale sull’onda dell’entusiasmo che ha accompagnato, l’anno scorso, il capitolo precedente, sugli anni Cinquanta e la nascita del made in Italy. Con una sfida in più: mettere in dialogo oggetti diversi per materiali, funzioni ed esigenze conservative, in un percorso intrecciato e unitario per rappresentare un decennio in cui cambia per sempre il mondo di abitare, lavorare, nuoversi, vestirsi, di vivere il tempo libero, la socialità, il sesso.


Diciannove spazi - tra gli altri, quelli dedicati all’optical, al pop, alla plastica colorata e trasparente, al cinema e alla televisione, la sala “Diabolik” con i gioielli d’artista firmati anche da Afro e Dino Basaldella per Masenza di Roma, in oro e pietre preziose, la sala sulla natura, quella sul segno, sul colore, su vetri e ceramiche, sulla Luna - circa duecento oggetti, sessanta tra abiti e accessori, una quindicina di opere d’arte, con testimonianze importanti della ricerca compiuta in regione dagli artisti di Raccordosei: Miela Reina, Enzo Cogno, Lilian Caraian, Nino Perizi, Claudio Palcic. Ricerca che, nello spazio centrato sull’”Alluminio” ricorda una collaborazione importante tra arte e moda, come fu quella tra l’udinese Getulio Alviani e la designer toscana Germana Marucelli: abiti dai giochi optical, poi con inserti di dischi metallici, che riflettono la luce e creano sul tessuto l’effetto delle “superfici a testura vibratile” di Alviani.

 

Ken Scott, 1969, tunica e pantaloni in Ban-Lon



 
Aperto, all’ingresso di Palazzo Attems, da una Ferrari 275 gtb del 1965, simbolo di pensiero e tecnologia, il percorso propone una galleria di pezzi entrati nella storia del design internazionale e nei più importanti musei del mondo. Ci sono le celebri labbra del divano Bocca di Gufram, realizzate dagli architetti di Studio 65, e l’altrettanto celebre UP 5 di Gaetano Pesce, la poltrona attualissimamente “politica” dal corpo di donna, un ventre accogliente da dea della fertilità che termina nel pouf come una palla al piede, simbolo di pregiudizi, prigionia, violenza. Accanto alla “Sacco” di Fracchia, un’altra seduta cinematografica, l’«Elda» di Joe Colombo, consacrata nel capitolo di 007 “La spia che mi amava”.

Piero Gatti, Cesare Paolini, Franco Teodoro, Seduta Sacco, 1968 (1969), Zanotta©Triennale Milano (foto Amendolagine Barracchia)

 


Il “radical design” propone oggetti di invenzione pura, dove la spinta della fantasia rompe con ogni condizionamento funzionale. Arredi firmati dallo studio fiorentino Archizoom, nato nel 1966: la poltrona Superonda, la Mies, il divano Safari con l’animalier ecologico.
Trasversali a tutti gli spazi sono anche gli abiti in mostra, una passerella ideale proiettata nei Sessanta: dall’optical di Roberto Capucci a nastri intrecciati bianchi e neri del 1965 alle esplosioni pop di Ken Scott, dagli outfit “lunari” di Paco Rabanne ai colori di Pucci, Missoni, Balestra, Mila Schön, dal pigiama palazzo di Irene Galitzine agli stivaletti in cavallino zebrato di Ferragamo, alle borse di Gucci e di Roberta di Camerino, per finire con due modelli dell’«Imperatore» Valentino.

 

Abito da sera di Valentino, 1969




 

 Poltrona UP5 con pouf UP6, 1969 ©Courtesy B&B Italia  

 
Pantaloni e camicia da sera ricamati di Roberto Capucci, completo appartenuto a Patty Pravo, 1969

 


Sintesi di un’epoca il memorabile debutto dei Missoni, nel 1967, alla Piscina Solari di Milano. Sull’acqua le modelle “sfilano” sedute sulle poltrone gonfiabili di plastica trasparente firmate dall’ingegnere vietnamita Quasar Khanh, marito della designer Emmanuelle, collaboratrice di Tai e Rosita. I vestiti e gli oggetti in dialogo rompono gli schemi e, dagli scambi, nascono nuovi linguaggi, ancora nostri.

lunedì 10 giugno 2024

MODA & MODI

Loro portavano le scarpe da tennis

 

 

Può un paio di scarpe da ginnastica influenzare il destino di un uomo politico? O permettere a un tycoon multimiliardario di mettersi sotto i piedi codici e convenzioni? Sembra proprio di sì, a giudicare dai titoli che autorevoli quotidiani internazionali, nonchè siti e riviste, hanno dedicato negli ultimi tempi alle estremità “sportive” di alcuni uomini di potere. Ricordate l’affaire-Samba, protagonista il primo ministro inglese Rishi Sunak, presentatosi nell’aprile scorso a un’intervista a Downing Street in camicia bianca, pantaloni scuri e i piedi calzati nel celebre modello Adidas, che dal 2022, merito di collaborazioni fortunate, versatilità, prezzo contenuto, estetica vintage, vive un momento di popolarità esplosiva, con ricerche su Tik Tok volate oltre 1,7 miliardi e aumento su Google del 300%?

 

Rishi Sunak

 

Le Samba sospettosamente immacolate di Sunak non ne hanno frenato la caduta libera nei sondaggi e nel gradimento degli stessi conservatori, ottenendo l’effetto opposto a quello di apparire un british disinvolto e alla moda, soprattutto parlando di politica fiscale. La comunità dei fan del modello gli si è rivoltata contro, costringendolo a pubbliche scuse alla radio, mentre Telegraph, New York Times, GC e Guardian hanno trattato la faccenda molto seriamente, quest’ultimo con un epitaffio per il premier: “le Adidas Samba erano le scarpe più cool della stagione finché Sunak se n’è preso un paio”.


Per le ginniche non va meglio oltreoceano. Donald Trump ha appena lanciato la sua capsule, approfittando della Sneaker Con di Philadelphia, raduno dedicato alle calzature sportive, giusto a pochi giorni dalla sua condanna per frode finanziaria (454 milioni di dollari). Non per nulla il modello di punta, edizione limitata in mille esemplari già esauriti in prevendita, si chiama Never Surrender High top, la scarpa di chi non si arrende: 399 dollari, un incrocio tra le Converse All Star e le Air Jordan 1, in pelle dorata, con la bandiera americana e la T, viene definita ”audace, dorata e resistente”, se non come l’ispiratore certamente come la sua chioma.

 

Donald Trump

 

 

Le critiche hanno investito prima il presidente della convention, finanziatore di Trump secondo la stampa, poi l’ex presidente Usa, il n. 45, come stampato su un altro modello di sue scarpe, le più proletarie Potus, per aver fatto nient’altro che propaganda elettorale sotto le spoglie poco credibili di testimonial.


Ultime sneaker divisive sono quelle indossate dal multimiliardario Rupert Murdoch, squalo dell’informazione, 93 anni, per convolare al quinto matrimonio con la biologa molecolare Elena Zhukova, ex suocera di Abramovic, nella sua tenuta agricola in stile toscano a Bel Air. Completo scuro, pochette bianca nel taschino, cravatta caffelatte e ai piedi scarpe da ginnastica nere con una supermolleggiata suola bianca, che gli esperti hanno individuato essere firmate Hoka, le stesse che usa il presidente Biden.

Alcuni hanno giustificato la scelta di Murdoch con l’età avanzata e la necessità di non stramazzare sull’erba davanti alla signora, di 26 anni più giovane, in formale abito bianco e tacchi a spillo, altri, come Guy Trebay, fashion editor del New York Times, hanno parlato di “strafottenza rispetto alle convenzioni sociali”, mentre per Eugene Rabkin della rivista StyleZeitgeist “le sneaker con giacca e cravatta sono orrende”.

 

Rupert Murdoch ed Elena Zhukova

 


Il severo Financial Times l’ha scritto in tempi non sospetti: “Un politico va giudicato anche per quello che si mette ai piedi”. Era l’inizio degli anni Duemila e all’epoca si dissertava sulle polacchine radical-chic del segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti.

Altre scarpe, altro passo.
 

martedì 4 giugno 2024

FOTOGRAFIA

 

La Trieste che non c'è più sulle carte

da poker della Modiano 


Piazza Unità nei primi del Novecento con negozi e locali (Archivio storico Modiano)

 

 

Dieci di picche, il Giardin pubblico, ma in Piazza Grande. Due di fiori, il Gran Bazar alla Tettoia in Cittavecchia. Due di quadri, la sartoria Forcessin in Corso, la cui specialità sono gli articoli in gomma. Nove di cuori, si sale al Belvedere dell’Obelisco, dove le signore scrutano il golfo col binocolo e si riparano dai raggi col parasole.


Giocare a poker come sfogliare un album fotografico di Trieste. Le atmosfere dei caffè, le botteghe di artigiani e commercianti, il mercato dei fiori in piazza del Ponterosso e la via dell’Acquedotto illuminata dai lampioni, Il Grand Hotel Obelisque e il Castello di Miramare, il tram della Società Anonima delle Piccole Ferrovie di Trieste e il Porto vecchio. E poi dettagli di palazzi che non esistono più o che hanno cambiato destinazione, e negozi inghiottiti dal tempo e cancellati dalle trasformazioni commerciali: chi ricorda il Deposito Cappelli, la Fabbrica Ombrelli in piazza Grande o il Caffè Bizantino in Barriera Vecchia? La città colta in una lunga sequenza fotografica dal 1906 al 1911, economicamente in pieno sviluppo e dalla vita sociale effervescente, aperta al progresso e all’innovazione, come testimoniano i binari dei tram, messi a terra nel grande porto dell’impero prima che a Parigi e a Roma.
 

Il nuovo mazzo di carte da gioco ideato e prodotto dalla Saul Daniel Modiano s’intitola “La Trieste della Belle époque” e per la prima volta utilizza le lastre fotografiche custodite nell’Archivio Storico dell’azienda, che agli inizi del Novecento servirono per la produzione delle cartoline postali illustrate.

 

Avventori al Caffè Milano in via Giulia 3 a Trieste (Archivio storico Modiano)

 


Le cinquantaquattro riproduzioni tracciano un percorso in bianco e nero nella città austro-ungarica. Si entra nei suoi Caffè, il Milano di via Giulia, l’American Bar di via San Nicolò 33 dalle sedie maestose e le tende come sipari, il Tommaseo in quella che era allora piazza dei Negozianti, il Bizantino aperto in un edificio cancellato dal tempo, il Caffè Fabris di piazza della Caserma.


Le sartorie da uomo e da signora si affacciano tutte sul Corso, quella di Carlo Gasser, di Ignazio Steiner, di Carolina Fiegele, con vetrine trionfanti di nastri e cappelli, il superbo negozio di calzature americane e inglesi da uomo De Rossi, mentre in piazza della Borsa, da Öhler, pubblicità d’antan richiamano l’attenzione sull’assortimento di pellicce, boa, piume, bluse, corredi da sposa.
Ecco le drogherie, la celeberrima Toso, un tuffo nel secolo scorso che caparbiamente ancora resiste, e la Rizzoli di Rotonda Pancera. 

Le farmacie, le librerie, tra cui la Moderna di Giuseppe Mayländer, poi acquistata da Umberto Saba, e la curiosità delle Società Cooperative di Consumo fra impiegati privati di via Madonna del mare e via Pellico. Tante botteghe ormai dimenticate che la legenda inclusa nel mazzo aiuta a individuare, con l’indicazione della collocazione e del toponimo dell’epoca. Il quattro di fiori è la vecchia sede del Piccolo, affacciata su Piazza della Legna.


«Sulla scorta della mostra allestita nel salone del Palazzo delle Poste centrali su “Botteghe, caffè e negozi nella Trieste delle cartoline S.D. Modiano” - spiega il presidente Stefano Crechici - abbiamo pensato di portare su un mazzo di carte la Trieste che in parte non c’è più e che in parte si può ancora ammirare. L’avevamo già fatto con la Venezia dei tempi andati, ora per la prima volta abbiamo aperto il nostro archivio per illustrare con Trieste le carte da gioco. Al posto del tradizionale catalogo, per testimoniare la mostra alle Poste abbiamo scelto un modo più originale e inerente alla vocazione della nostra azienda».

 

 

Una Cooperativa tra Impiegati Privati di Trieste (Archivio Modiano)


Per il rovescio delle carte la Modiano si è ispirata al decoro liberty della Casa Bartoli di piazza della Borsa e al rosone della cattedrale di San Giusto, realizzando una grafica che idealmente fonde due tra gli elementi architettonici più noti di Trieste, insieme alle alabarde, simbolo della città. E c’è un’altra curiosità. Nel mazzo anche la storica catena di produzione della Modiano. I lavoratori di oltre cent’anni fa diventano protagonisti: sui due jolly sono rappresentati un’operaia al lavoro nel reparto asciugatura e donne e uomini addetti al taglio delle carte da “giuoco”.


«Sarà per tanti triestini una riscoperta di luoghi e botteghe - prosegue Crechici - ma “La Trieste della Belle époque” è anche un souvenir ideale per i turisti, un modo per passare il tempo del viaggio o un oggetto prezioso da conservare». I mezzi tecnici di oggi, infatti, consentono di utilizzare le lastre per le cartoline ottenendo una definizione molto maggiore, che fa delle carte triestine piccoli oggetti da collezione. Quasi come un paio di “Barry shoe” in vetrina da De Rossi.

lunedì 13 maggio 2024


MODA & MODI

E tu di che core sei? 




 

Balletcore, Tenniscore, e sono solo le più recenti. Non passa mese senza che una “tendenza” spunti a orientare e decifrare i nostri gusti, anche quelli che non crediamo di avere. Tendenza? È termine da rottamare, oggi tutto è “core”, un genere, un modo di vestire che accomuna gruppi di persone, con elementi ben definiti a disegnare un’estetica unificante. Volatile, evanescente, effimera, ancor più di quanto per definizione non sia la moda.

Di che “core” sei? Dopo la sfilata di Valentino Pink PP autunno inverno 2022-2023, quando ancora alla guida artistica del brand c’era Pierpaolo Piccioli, ma soprattutto dopo il film con Margot Robbie, era tutto un Barbiecore, un rosa caramella spalmato su vestiti e accessori. Su Netflix, intanto, sbarcava Mercoledì Addams, a ribaltare i riferimenti cromatici: ecco pronto il Gothcore irto di borchie e chocker, abiti neri col colletto bianco, gonne a pieghe e maglioni a scacchi. E il Regencycore? È ancora la serialità a materializzarlo: Bridgerton fa leva nel cuore degli spettatori con le sue donzelle da marito vestite in colori pappagallo, taglio impero e gioielli chiassosi, tiare e guanti, che l’imminente terza serie minaccia di resuscitare.

Vi piace la comodità dei pantaloni di fustagno, la rilassatezza dei gilet e i blazer di tweed? Allora siete in pieno Grandpacore, il guardaroba del nonno, e se vi aggirate in abiti a fiori e gonnellone a disegni cachemire, o sentite un’insana attrazione per la casa nella prateria, appartenete senza dubbio al clan del Cottagecore. Mai sentito il Gorpcore? Più difficile a scriversi che a farsi: è acronimo di Good Ol’ Raisins and Peanuts, buona vecchia uvetta con noccioline, ovvero lo snack degli escursionisti, i cui adepti indossano scarpe da ginnastica, pantaloni con tasche in tessuti tecnici, zainetto (o peggio: marsupio) e l’inevitabile piumino. Non sfugge alla legge del core chi preferisce pochi capi essenziali, no logo: anche senza saperlo, è un alfiere del Normcore, il minimalismo nato con la crisi economica del 2008. Oggi la definizione si aggiorna: è Recessioncore che, in barba all’etimologia, si rifugia in capi elitari, di alta qualità e griffe invisibile ai più (quiet luxury, lusso sussurrato, ricordate?).

Torniamo al ballet e al tennis, freschi di questo scorcio di stagione. Il primo impazzisce per le ballerine di Miu Miu, il brand più cliccato in rete, e per tutte le più modiche varianti con nastri da legare alla caviglia, punte quadrate e palette rosa antico, l’altro ha per testimonial l’iconica Zendaya, in tour per presentare il triangolo di sport e amore nel film di Guadagnino Challengers. I follower amano le sue décolleté candide con stiletto infilzato nella pallina fosforescente griffata Loewe, e il microabito-gilet dalla scollatura inguinale.

 A guardare gli aumenti nelle percentuali delle ricerche in rete parrebbe che l’estate sia destinata a popolarsi di ragazzine sgambettanti in microgonne plissè e calzettini di spugna. Ma i pezzi di “core” hanno un che di buono: nascono e muiono rapidamente, il tempo di un video su TikTok.