domenica 21 agosto 2022

MODA & MODI

Linda Evangelista su British Vogue

una bellezza mostruosa 




 

Sulla copertina del numero di settembre di British Vogue la ritroveremo fulgida come negli anni Ottanta e Novanta, quando con le colleghe Naomi Campbell e Christy Turlington formava The Trinity, la trinità della bellezza, quintessenza della perfezione e della desiderabilità, contesa sulle passerelle da tutte le griffe. Le viene attribuita la celebre frase “per meno di diecimila dollari al giorno non mi alzo nemmeno dal letto”, manifesto di un’epoca dominata dal culto dell’immagine, di cui lei, e pochissime altre, erano le sacerdotesse.

 

Oggi la top model Linda Evangelista, 57 anni, torna in copertina, fotografata da Steven Meisel, ma avverte: quella che vedete non sono io, “quelli non sono la mia mascella e il mio collo nella vita reale”. Il suo viso, ce lo dice lei, è un fake. Il foulard le nasconde completamente testa e collo e l’ovale che incornicia è il risultato di una delicata e un po’ pulp operazione di Pat McGrath, una delle truccatrici più influenti al mondo, che ha lavorato con elastici e nastro adesivo per tirare indietro la pelle e sostenere il contorno. 

Dopo cinque anni lontano dai riflettori, mentre le colleghe negli “anta” continuano a sfilare, Linda Evangelista ha deciso di fare outing sul trattamento estetico che l’ha deturpata. Il freddo della criolipolisi, procedura sconosciuta ai più, che avrebbe dovuto liberarla dal grasso in eccesso senza bisturi e in poco tempo, ha generato una rara reazione avversa, lasciandole protuberanze su collo, braccia e gambe. Linda non può tendere le braccia, nè camminare senza un busto che impedisca alla massa adiposa, sempre più spessa e ampia, di sfregare e sanguinare. Non mostra il collo, che in tutto il servizio per Vogue è coperto, come la testa. Al magazine People, con cui ha parlato per la prima volta cinque mesi fa, ha detto di non riconoscersi più, né fisicamente né emotivamente. “Quella Linda Evangelista - alludendo alla donna che incantava le passerelle - è come se fosse scomparsa”.


Dalla copertina di Vogue la top model che non esiste più ritorna dal passato, intatta e siderale. La stessa ragazza che voleva continuare a essere. E il numero di settembre della bibbia della moda, quello che detta le tendenze per la stagione autunno-inverno alle porte, ce la mostra così, un ideale inarrivabile. «Sto cercando di amarmi per quella che sono ma le foto, beh, ho sempre pensato che le foto esistono per creare delle fantasie, dei sogni. Penso non ci sia niente di male. Tutte le mie insicurezze vengono risolte in queste foto», sostiene Linda, quasi a prevenire le perplessità su un’accettazione di sè che passa dal photoshop. La top model lo sa e l’ha dichiarato: con le protuberanze non potrà lavorare ancora senza «ritoccare, comprimere o usare stratagemmi».

Dovrà apparire senza difetti, come su British Vogue. Una provocazione in tempi di body positivity e inclusività, dove il mantra “come as you are”, vieni come sei, cerca di esorcizzare il pericolo di promuovere corpi così autenticamente irreali da essere loro sì “mostruosi”. Perchè questo ci trasmette la copertina, che non basta far sfilare di tanto in tanto un corpo con macchie, vitiligine, alopecia, cedente o menomato, per togliere di mezzo i modelli finti che alimentano il business del desiderio.

martedì 9 agosto 2022

MODA

 

Addio Issey Miyake 

e la magia del "Making things" 

 

Issey Miyake (Hiroshima 22 aprile 1938, Tokyo 5 agosto 2022)



 Si intitolava “Making things” la splendida mostra delle sue creazioni aperta nell’ottobre 1998 alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi e in quella definizione “in divenire”, concreta, tattile, rivolta al futuro, c’è il senso di tutto il mondo di Issey Miyake, uno dei più importanti stilisti e designer del Novecento, morto il 5 agosto a Tokyo a 84 anni per un cancro. Abiti che in quel contenitore di cristallo fluttuavano, si gonfiavano, vibravano, sembravano contrarsi e distendersi, seguendo i mille, imprevedibili percorsi delle pieghe.

 

"Making Things", Parigi, 1998-1999



L’hanno definito “il sarto del vento” (detestava essere definito stilista e preferiva chiamarsi “disegnatore di vestiti”), ma è il tessuto plissettato, e le sue infinite soluzioni, una delle cifre che identificano il lavoro di Miyake e lo rendono immediatamente riconoscibile anche chi non pratica la moda. La sua linea “Pleats”, mandata per la prima volta in passerella nell’89, aveva conquistato le strade e i musei: creazioni geometriche, da sovrapporre, frutto di una coerenza indifferente agli stravolgimenti stagionali. Nel ’93 aveva lanciato “Pleats Please”: vent’anni di sperimentazione su tessuti e proporzioni si traducevano in involucri senza confini geografici o temporali, per donne a ogni latitudine, “creazioni” pronte a essere appallottolate in una borsetta, strapazzate dalla centrifuga, indossate senza essere mai state sfiorate da un ferro da stiro o aver perso una goccia di colore. «Il design - diceva - ha il potere di destinare i vestiti a tutti, piuttosto che limitarli alla cena di gala di quattro persone». Su questa ricerca di linee, su questa disciplina dell’armonia e della misura, raffinata al punto da aver ridotto al minimo bottoni e cuciture, aveva innestato l’utilizzo delle tecnologie e la sperimentazione di materiali: poliestere, fili metallici, carta di riso, bambù, seta e caucciù mescolati assieme.

 

 


 


Era nato a Hiroshima il 22 aprile 1938 e a sette anni aveva vissuto l’orrore della bomba atomica. Sua madre, gravemente ustionata, sarebbe morta pochi anni dopo. Laureato nel 1964 alla Tama Art University di Tokyo, Miyake si forma a Parigi negli atelier di Laroche e Givenchy, poi a New York con Geoffrey Beene, quindi torna a Tokyo nel 1970 per aprire il suo studio.

Nei successivi cinquant’anni - aveva passato la mano da tempo, ma continuava a supervisionare le collezioni e all’ultima settimana della moda di Parigi aveva ancora una volta incantato con creazioni ispirate alla natura - lo stile di Miyake non è mai cambiato, valorizzando il corpo femminile senza alcun approccio sensuale, all’insegna della libertà, dell’armonia, della sperimentazione su tecniche e tessuti. «La cosa che da sempre mi affascina di più - spiegava - è lo spazio tra un abito e il corpo, è l’utilizzo di un elemento bidimensionale per vestire una forma tridimensionale. Se guardiamo indietro, nella storia, notiamo che molte culture hanno iniziato a creare indumenti partendo da un solo pezzo di tessuto. Io volevo partire da un elemento altrettanto semplice ed esplorare le diverse possibilità, unendo artigianato, tecnologia e tessuti sempre nuovi». Il concetto di “ma”, in giapponese lo spazio tra il corpo e la stoffa, per Miyake non è mai stato un’intercapedine vuota, ma una dimensione piena di energia, da sfruttare per costruire geometrie tessili, “fluide” prima che la parola diventasse di moda.

 

A-Poc, Parigi, 1999


A-Poc al MoMa


Tradizione e innovazione si sono sempre intrecciate nella sua storia. Tutto nasce dal kimono, tagliato in un unico pezzo da uno scampolo di stoffa di lunghezza e ampiezza standard. Nel 1999 Miyake studia A–Poc, gioco di parole tra “a piece of cloth” e “epoch”: un telaio controllato dal computer produce un tubo di tessuto da cui, una volta srotolato, ciascuno può ritagliare, seguendo le linee già marcate, l’abito che vuole, come i vestitini di carta delle bambole. Per descriverlo bastano le parole che i giapponesi usano per il kimono e anche per l’acqua: «Come le onde sulla sabbia, cancella ogni segno d’età, di sesso o di tempo».
 

lunedì 8 agosto 2022

MODA & MODI

 

Chemisier senza età

 

Jennifer Lopez a Parigi in luna di miele

 

 

Nel guardaroba da luna di miele parigina di JLo (tranquilli: sembra rientrata la fake news di un divorzio lampo dopo appena tre settimane), tra dimenticabili zeppole e pantaloni a zampa di elefante, c’è un pezzo che riscatta tutti gli altri: il vestito bluette. Finalmente liberata da jeans e top studiati apposta per far risaltare i plurimi lati, il B in testa, che l’hanno resa famosa, la neo signora Affleck è uscita per la cena dall’Hôtel de Crillon in un abito chemisier a maniche lunghe e a sbuffo, colletto, gonna ampia e asimmetrica, lunga fila di bottoni davanti e vita segnata.

Tributo alla griffe a parte (la firma è di Alexander McQueen, la stessa dell’abito da sposa), tanta linearità e sobrietà hanno colpito, non solo perchè incongrue al personaggio, solitamente inguantato in qualsiasi cosa si metta addosso, ma perché riassumono l’unica tendenza dell’estate che contrasta la deriva balneare dell’abbigliamento: il vestito. Un semplicissimo, fresco, coprente abito-camicia. Che non strizza, segna, aderisce, comprime, ma lascia il corpo libero di muoversi e respirare. Capo passepartout per eccellenza, è quello che merita comprare nell’onda lunga dei saldi: di moda ma fuori dalle mode, lo indosseremo ancora la prossima estate senza preoccuparci di avere addosso un vestito datato o segnato da un riconoscibile ghiribizzo di stagione. Se ne vedono parecchi in giro, anche nelle vetrine, e ci riconciliano con un senso di misura, e misure, che pare confuso.


Nell’abbuffata insapore di sederi e pance in libertà, lo chemisier spicca per la sua discrezione. JLo è solo l’ultima testimonial di un capo di ispirazione maschile che viene da lontano, molto prima che Hubert de Givenchy e la sua musa Audrey Hepburn ne facessero negli anni Cinquanta la quintessenza di una pratica eleganza senza tempo, abito femminile proprio perché parco di leziosità: tessuti rigati, colletto a punta, linea diritta.

 Ma già agli inizi del ‘900 Worth e Poiret sperimentavano il taglio a camicia, poi ripreso dai grandi nomi del secolo, Chanel, Paquin, Lanvin. Il vestito ha così attraversato i decenni giocando sulle lunghezze, ampliando la donna, alternando le tinte unite ai fiori e alle righe, ma restando sostanzialmente se stesso: un pezzo fresco e veloce, che si presta ad accompagnare diverse occasioni e ore della giornata.

 

Audrey Hepburn negli anni '50

 

Nel 1940 Katharine Hepburn vestiva uno chemisier bianco in “Scandalo al sole”, all’ultimo Festival di Cannes un’attrice altrettanto regale come Tilda Swinton l’ha indossato in diverse varianti e tutte con collo maschile, compresa quella da tappeto rosso, lunghissima e bianca, con la gonna che si apre a sirena. Per dovere di cronaca va segnalata un’altra affezionata allo chemisier, Meghan Markle, moglie del principe Harry, che ne ha sfoggiati parecchi in varie tinte, di qua e di là dell’oceano, compreso quello bianco svasato e con cintura nera, nella giornata inaugurale delle corse di cavalli ad Ascot, nel 2018, un mese dopo il matrimonio, perfettamente in linea con i rigidi codici dell’esclusivo Royal Enclosure, il livello di accesso dei reali, che impone alle signore abiti dal taglio modesto e cappelli con base minima di dieci centimetri.

 

Tilda Swinton al Festival di Cannes 2022

 

Meghan Markle e il principe Harry ad Ascot il 19 giugno 2018

 


Inappuntabile e versatile, lo chemisier non ha età. Copre, o scopre con misura. E questo è il segreto che funziona per tutte.