IL LIBRO
Marta Verginella il lockdown e tutti
gli attraversamenti che hanno fatto la Storia
Il confinamento imposto dalla pandemia, che ha ristretto il mondo alle mura
domestiche, come occasione per sperimentare nuove forme di scrittura e
riallacciare il filo con ricerche e studi già compiuti. È nato così “Donne e
confini”, primo libro “ibrido” della storica
Marta Verginella (Manifestolibri, euro 16, pagg. 135), che intreccia il
diario della vita dell’autrice nella reclusione imposta dal coronavirus, a una
riflessione sulla mobilità femminile tra Otto e Novecento. Donne che si spostano
tra città e campagna, tra mondo italiano e mondo sloveno, tra la Venezia Giulia
e l’Egitto, tra l’Italia e la Jugoslavia di Tito, attraversando confini alla
ricerca di una vita migliore e spesso scontrandosi con pregiudizi e paure, con
forme di controllo e di dissuasione. I capitoli dei “Diari” e degli
“Attraversamenti” alternano l’indagine storica alla quotidianità dell’autrice,
che oppone alla sofferenza del lockdown un’insospettabile vena ironica. «La
pandemia e soprattutto la quarantena, e le vicissitudini che ho vissuto in quel
periodo - dice Verginella - mi hanno spinto a sperimentare la prosa
autobiografica, una novità per me. In questo libro ho cercato di far vedere come
le indagini e le ricerche che si svolgono in ambito accademico possano venir
spiegate anche con le proprie appartenenze e come la storia familiare e la
storia della comunità si intreccino con una storia più generale».
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La storica triestina Marta Verginella
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Dov’era quando c’è stato il primo lockdown? A Londra. In realtà sono
partita dall’Italia quando la pandemia era già iniziata, ma non volevo perdere
l’opportunità di lavorare nelle biblioteche londinesi. La situazione non era
buona, ma io sono caparbia. A Londra mi sono trovata a riflettere molto sul
fatto di rimanere, partire, quando farlo. Occupandomi di guerre e di periodi
molto traumatici del ’900 mi sono sempre chiesta come le persone scegliessero in
quei frangenti. Io stessa ho dovuto farlo sulla base di determinate circostanze
e questa decisione, per quanto meno traumatica, mi ha riportata al periodo della
grande guerra, del ventennio, quando un’infinità di europei si trovava davanti a
scelte cruciali, da cui dipendeva la propria vita o morte.
Che cosa l’ha colpita al ritorno? La chiusura completa del confine
italo-sloveno, avvenuta dopo un decennio e più di una mobilità oramai capillare
tra i due Paesi. L’interruzione di una quotidianità assodata, per nulla
problematica, e il ripiombare in una situazione di totale chiusura che ci
riportava al secondo dopoguerra, mi ha spinto a riprendere una serie di ricerche
che ho fatto sulla mobilità delle donne dopo il ’45, quando non si riusciva a
passare il confine o, comunque, chi lo faceva faticava molto a ottenere i
documenti, e sugli spostamenti delle donne tra città e campagna. È stato un bel
modo per cucire le tematiche odierne con questi attraversamenti femminili del
passato. Perchè si muovevano le donne? Prendiamo la panificazione tra
fine Ottocento e inizi Novecento. Era un’attività esclusivamente femminile, come
ben evidenziato dagli elaborati catastali, che sottolineano anche il contributo
economico apportato dalle donne alle rispettive comunità di villaggio, da
Servola ai paesi della Val Rosandra, dove c’era l’acqua indispensabile ai
mulini. Questo attraversamento ha ritardato lo smembramento della società
contadina nell’entroterra triestino, dove il lavoro femminile ha sempre
rappresentato una risorsa.
Il lavoro si traduceva, almeno in parte, in una forma di autonomia?
Certo. In quest’area c’era un alto tasso di testamenti femminili, un fenomeno
quasi eccezionale nel panorama europeo per donne appartenenti alla classe
contadina o dei piccoli proprietari.
La mobilità femminile ha fatto mai paura? Questo aspetto è visibile nel
caso delle lavandaie che venivano soprattutto dai dintorni di Trieste per lavare
i panni nelle famiglie cittadine. Con il processo della nazionalizzazione della
proprietà e la competizione nazionale tra italiani e sloveni, questo lavoro era
sempre più malvisto dall’élite slovena, che cercò di disincentivarlo con
un’apposita campagna. Ma guardando all’impero nel suo complesso, questo tipo di
discorso nazionalista, mirato a rafforzare i confini delle comunità nazionali
controllando le donne, lo troviamo anche altrove. A Praga l’élite boema promosse
una campagna per dissuadere le ragazze dall’andare a servizio nelle famiglie
tedesche. Il lavoro veniva vissuto come una contaminazione con l’altro, che
indeboliva la propria comunità nazionale.
Situazione ancora peggiore per le domestiche, che vivevano nelle
famiglie...
Questo dipendeva anche dalla vicinanza. Le lavandaie erano del territorio e su
di loro c’era una maggiore attenzione, mentre le domestiche provenivano a volte
dalle aree più lontane, Friuli, Carniola, Istria... Perchè siano fatte oggetto
di attenzione da parte delle élite nazionali bisogna arrivare alla fine del’800
e agli inizi del ’900 e nel caso sloveno all’inizio del movimento femminile. A
Trieste venne fondato l’Istituto San Nicola per dare sicurezza e accogliere le
domestiche slovene disoccupate o appena arrivate in città, esercitando anche una
sorta di controllo su chi, poco interessata agli ideali nazionali, tendeva ad
assimilarsi con la parte maggioritaria di lingua italiana della città.
Una parte del libro tratta le cosiddette “alessandrine”. Negli ultimi
anni il fenomeno dell’emigrazione femminile verso l’Egitto è stato molto
studiato nelle sue problematicità e nei suoi punti di forza. Alcune di queste
donne hanno aiutato a mantenere le proprietà delle loro famiglie e quando sono
tornate sono state accettate, altre hanno vissuto malissimo il rientro, altre si
sono rifatte una vita ad Alessandria, si sono rese autonome e non sono più
ritornate a casa. Il fenomeno presenta quindi tutte le specificità delle
migrazioni, femminili e maschili.
Erano balie e domestiche? Non solo,
anche figure molto interessanti di governanti, cuoche, istitutrici. Nel mio
parentando, una zia di mia mamma trascorse un periodo in Egitto e un’altra
parente gestiva una rivendita ad Alessandria. Gran parte di queste donne
proveniva dalle valli del Vipacco e dal Basso Isontino, ma anche dal Friuli e
dal Carso.
Che cosa le resta di questo primo lockdown? Lo stimolo alla
scrittura di un libro ibrido, a cui avevo già pensato senza mai trovare il
tempo. Con una punta di ironia nella parte biografica, perchè di fronte alle
difficoltà ti rimane il riso...