lunedì 24 febbraio 2020

MODA & MODI

 Il trend fa male alle donne. E anche l'influencer 





Ammosciate le sfilate milanesi dal terrore del coronavirus, ci voleva Re Giorgio a scuotere le pagine dei quotidiani con un titolo forte: “Esistono molti modi di stuprare la donna, la moda può essere uno di questi” ha detto Armani. «Costringere le donne in nome delle tendenze è indegno. Le tendenze per me non esistono, non sono niente. Ci sono talmente tante voci nel sistema che è come se fosse possibile tutto allo stesso momento». Parola terribile, stupro, che ha sortito l’effetto, accostando la seduzione del sogno a un crimine odioso. Con termini meno impattanti ma altrettanto provocatori, lo stesso concetto l’ha espresso Andrea Batilla, designer e ricercatore tessile, ex direttore dell’Istituto europeo di design, nel suo libro “Istant Moda” (Gribaudo).


Andrea Batilla


Il trend? È una fake news, concetto archeologico che risale agli anni ’70-’80, quando gli stilisti si pronunciavano come oracoli e milioni di compratori si adeguavano passivamente sfogliando le riviste. «Cosa andrà la prossima stagione?»: ecco un perfetto esempio di domanda obsoleta. «Dagli anni Novanta - dice Batilla - si sono formate sacche di resistenza ai trend dominanti e parlare di trend oggi non ha più senso perché sul mercato esiste tutto e il contrario di tutto e il consumatore finale è abituato a cambiare orizzonte estetico alla velocità della luce, non rispettando i diktat di qualcuno ma sviluppando la capacità di costruire una propria personalità, un gusto personale, non facilmente schiacciabile dalle mode passeggere».

Se dunque il trend è out, siamo finalmente davanti a un nuovo corso, dove sull’omologazione prevalgono l’individualità e il rispetto di se stessi? Proprio questo dice Armani: basta pubblicità con donne seminude, che inducono involontariamente chi le guarda ad assomigliarvi il più possibile. 


Siamo davvero così stupide? Certo che no. Ma si può cominciare anche dal linguaggio. Basta hot, it, cool, must have e tutte le adorabili scemenze di cui sono infarciti i siti per convincerci dell’assoluta necessità di un capo o accessorio, di solito tanto più aggettivato quanto più deperibile. E gli influencer? Se Armani ha ragione, hanno una data di scadenza. Ricoperti di diktat altrui dalla testa ai piedi, magari dovranno cominciare a trovarsi un mestiere. O forse un proprio stile. 
@boria_a

sabato 22 febbraio 2020

IL LIBRO

Casa Tyneford, l'ebrea Elise trova l'amore
nella bufera della Storia






«Ebrea viennese, 19 anni, cerca posizione come domestica. Parla inglese fluidificato. Cucinerò la vostra oca». È un annuncio surreale e involontariamente comico a procurare alla giovane Elise Landau, secondogenita di una artistica e facoltosa famiglia della capitale austriaca - la mamma Anna è una cantante dell’Opera, il padre Julian un noto scrittore - un “visto di lavoro domestico”. Siamo nel 1938, all’indomani dell’Anschluss, la morsa dei nazisti si stringe inesorabilmente e chi può cerca di mettersi in salvo, tutti gli altri di rendersi invisibili.

La destinazione di Elise è la ventosa costa del Dorset, in Inghilterra, dove prenderà servizio nella magione di Mr Rivers, vedovo quarantenne, e di suo figlio Kit. Un ricevimento per la Pasqua ebraica - «sapevo che era la mia ultima festa da invitata», dirà Elise - è il congedo scintillante dai genitori e dalla sorella Margot, musicista, in partenza col marito per l’America, tra invitati in frac e signore ingioiellate, «perchè se in passato temevamo di apparire vistosi, o smodati, o piccolo borghesi, ora che tutto stava scivolando nell’oscurità ci chiedevamo come avessimo fatto a preoccuparci di cose simili». I Landau non sono religiosi, non frequentano la sinagoga di Leopoldstadt, mangiano schnitzel nei ristoranti non kosher e sono fieri di appartenere alla nuova borghesia austriaca. «Eravamo ebrei viennesi, ma finora ad avere la precedenza era sempre stato il lato viennese»: non basterà a evitare l’esilio a tutti, in un paese straniero o nella loro stessa casa.


“The novel in the viola”, il secondo romanzo di Natasha Solomons, è uscito in Inghilterra nel 2011, ma sulla scia de “I Goldbaum”, ispirato alla famiglia Rothschild e bestseller nel 2019, Neri Pozza l’ha ripescato e riproposto come “Casa Tyneford”, titolo più accattivante de “La fidanzata inopportuna” scelto da Frassinelli per la prima edizione italiana nel 2011.


La storia si muove tra Downton Abbey, con identiche gerarchie di domestici cui sovrintendono il maggiordomo Wrexham e la governante Mrs Ellswort, e Jane Eyre. Perchè se la giovane Elise dovrà innanzitutto imparare, oltre alla lingua, nuovi codici di comportamento, sarà soprattutto il primo incontro col padrone di casa, in pigiama e in piena notte al buio del cortile, e quella mano che una cameriera, seppure riluttante e per necessità, mai avrebbe dovuto porgere al suo datore di lavoro, a mettere subito anche il lettore più sprovveduto sulla strada che prenderà la vicenda.


La guerra rimane a lungo sulla soglia della dimora di Tyneford, e la sua eco arriva ovattata, con le lettere di Margot dagli Stati Uniti e l’angoscia per i genitori che non riescono a lasciare Vienna, vanamente in attesa di un visto. Elise e Kit, rampollo godereccio e inquieto, si innamorano, ma sul loro acerbo sentimento prevale la smania del ragazzo di combattere, il sogno infantile dell’eroismo in mare. Quando si imbarcherà per la seconda volta per raggiungere la Francia, non ci sarà Wrexham sulla spiaggia a raderlo, come si conviene a un gentiluomo soldato, scapperà di notte, senza prendere congedo da nessuno, per non fare più ritorno.


È allora che Solomons accelera bruscamente il corso degli eventi. Ogni regola della casa è sovvertita, come se in nuce Tyneford incubasse la trasformazione epocale ormai alle porte. Quando un pilota tedesco catturato viene portato in casa e si rivolge a Elise nella loro lingua comune, evocando Vienna, la ragazza è travolta dalla rabbia, per la contraddizione irreprimibile che le fa sentire quel nazista molto più suo compatriota di chi ha intorno. Cambiare identità è necessario, ma non solo per sfuggire ai suoi persecutori. Elise non può che diventare Alice, fare sua un’altra lingua, un altro paese, abbandonarsi all’uomo che i pettegolezzi le hanno già assegnato. E squarciare la viola che ha portato da Vienna, dov’è nascosto l’ultimo romanzo, inedito, del padre. Che testamento ha lasciato nel manoscritto?


La storia è in parte vera, ispirata da una prozia dell’autrice, Gabi Landau, che lasciò l’Europa a fine anni Trenta per impiegarsi come bambinaia in Inghilterra, mentre sua sorella Gerda emigrò negli Stati Uniti. Si rivedranno dopo trent’anni e non si riconosceranno. È proprio il filone biografico, col frammentato rapporto tra le due sorelle divise dalla furia della Storia, la parte più convincente della trama, che condivide con i Goldbaum molti temi e un’orchestrazione di tanti personaggi, ma senza il respiro della saga.

 

sabato 1 febbraio 2020

IL LIBRO


Il bambino nascosto di Roberto Andò 
una scelta di paternità e riscatto






Due mondi contigui e sideralmente lontani che si intercettano per un caso. Due solitudini che si incrociano, si annusano, confliggono, si guardano con diffidenza per poi restare senz’armi e abbracciare il rischio di conoscersi, forse di riscattarsi. Un uomo e un ragazzino. Un insegnante di pianoforte al conservatorio e uno scugnizzo senza istruzione. Un omosessuale colto e solitario e un piccolo selvatico cresciuto in un ambiente criminale, dove i ricchioni sono barzellette per uomini. Filiazione e paternità, non per sangue ma per elezione.

Nello stesso condominio di Forcella, due monadi: l’appartamento del professore, incongrua isola piena di note e dei versi dell’amato Kavafis, che recita sbarbandosi, in un mare di ordinario squallore. E l’appartamento del camorrista, dove il codice criminale si apprende per osmosi, nella rassegnazione delle donne.


Intorno, una Napoli gelatinosa e velata, il magma della criminalità di second’ordine che si allarga lento fino a impregnare ogni spazio vitale, dove nessun cattivo grandeggia ma la vita quotidiana scorre torbida e brutale, tra minacce, delazioni e regolamenti, ragazzini che tirano calci al pallone in cortile e sanno usare la pistola. E occhi, tanti occhi, che si allungano fin nei sacchi dell’immondizia, per registrare ogni cambiamento, ogni scarto dalla malata normalità.

La pistola la sa usare anche Ciro, il piccolo protagonista de “Il bambino nascosto” (La nave di Teseo) di Roberto Andò, regista e direttore artistico del Teatro stabile di Napoli, premio Campiello Opera Prima per “Il trono vuoto”, diventato un film, “Viva la libertà”, con Toni Servillo e Valerio Mastandrea.



Roberto Andò


Dalla porta lasciata aperta per un fattorino, Ciro si infila nell’appartamento del maestro Gabriele Santoro, concertista fallito, una vita affettiva irrisolta, l’omosessualità come uno stigma antico, identico nei lazzi dei delinquenti come nei pregiudizi ipocriti del rarefatto e narcisistico ambiente musicale. Ciro fugge da uno sgarbo al boss del quartiere, sa che rischia di essere ammazzato, e Gabriele, con un gesto istintivo e irrazionale, accetta nella sua casa quel bambino “dalla grazia rallentata, quasi riflessiva, del tutto in contrasto con l’aspetto volgare dei suoi fratelli”.



Entrambi si scelgono a pelle, l’uomo che non sarà mai padre e il figlio, confusamente, inconsciamente in cerca di un padre diverso. In quindici giorni, quasi tutti trascorsi nell’appartamento, Gabriele e Ciro scrivono insieme un nuovo ed esclusivo alfabeto affettivo, da cui piano piano si allontanano tutti gli altri, come fantasmi delle loro reciproche solitudini: Biagio, il compagno del maestro, con cui il rapporto si è ormai prosciugato, gli allievi e i colleghi del conservatorio, la famiglia del bambino e soprattutto suo padre, il criminale gregario, che sa bene il prezzo da pagare per questa rottura, questo gesto di libertà. Gabriele apprende come si spara e Ciro suona qualche nota al pianoforte, perché “non c’è nulla che si possa insegnare se non quello che si è, e non c’è nulla da imparare se non che l’amore si presenta in una sconcertante varietà di forme impreviste“. Uno insegna all’altro il movimento corretto, l’abbandonarsi del braccio che fa arrivare all’obiettivo, il bersaglio o la nota, in una metafora dello scambio che alimenta tutta la storia.



Quando la porta dell’appartamento alla fine dovrà aprirsi, la violenza del mondo fino allora tenuto lontano si riversa tutta su Gabriele e Ciro. L’isola felice è stata violata, non resta che andarsene.



“Il bambino nascosto” diventerà presto un film e cinematograficamente è facile immaginare la fuga dei due nel tentativo estremo di salvarsi dalla vendetta, dov’è il più piccolo a guidare l’adulto in un ambiente impervio che non conosce. Un’ingenuità di Ciro, che in quei pochi giorni di segregazione volontaria ha riacciuffato i giochi, si è riappropriato del diritto alla fragilità di un’infanzia mai vissuta, trascina la vicenda all’epilogo. La breve parentesi si interrompe tragicamente, ma chiama in causa altri, quelli che si sono accontentati dell’acquiescenza, e passa a loro, con un gesto ultimo d’amore, la responsabilità di andare avanti.
LA CURIOSITA'

Il trisnonno di Natalia Ginzburg, che perse tutto per correre dietro a Bodoni 


Una rara foto di Salomone de Parente




«Era stata in passato, mia nonna, molto ricca, e s’era impoverita con la guerra mondiale; perchè siccome non credeva che vincesse l’Italia, e nutriva una cieca fiducia in Francesco Giuseppe, aveva voluto conservare certi titoli, che possedeva in Austria, e così aveva perso molti denari; mio padre, irredentista, aveva inutilmente cercato di convincerla a vendere quei titoli austriaci. Mia nonna usava dire «la mia disgrazia» alludendo a quella perdita di denaro; e se ne disperava, la mattina, passeggiando su e giù per la stanza e torcendosi le dita. Ma non era poi così povera. Aveva, a Firenze, una bella casa, con mobili indiani e cinesi e tappeti turchi; perchè suo nonno, il nonno Parente, era stato un collezionista di oggetti preziosi.

Qualcuno forse riconoscerà subito lo stile e il ritmo di queste righe, dal terzo capitolo di un libro famosissimo, che ha attraversato generazioni. È “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg. Da cultori pazienti e appassionati è invece la ricostruzione dell’albero genealogico dell’autrice, le cui ramificazioni, un rompicapo di parentele, matrimoni e nomi che si ripetono nelle famiglie, si estendono fino a Trieste. «Alle pareti c’erano i ritratti dei vari suoi antenati, il nonno Parente e molte zie e cugine che si chiamavano tutte Margherita o Regina: nomi in uso nelle famiglie ebree di una volta».

Ma chi è quel misterioso “nonno Parente”, accanito collezionista, che lasciò alla nipote pezzi d’arredamento importanti e tappeti preziosi? La sua biografia è la storia di un uomo che coltivava due sogni, così grandi da portarlo alla bancarotta: raccogliere più edizioni bodoniane al mondo e circondarsi di dipinti, da Giuseppe Borsato a Eugenio Bosa, da Giuseppe Canella a Massimo D’Azeglio, fino a “L’incoronazione di Gioas” di Francesco Hayez che venne acquistato nel 1881 dal Museo Revoltella di Trieste. Un uomo e le sue ambizioni si trasformano in un viaggio affascinante, e intricatissimo, nella Trieste ottocentesca e nei suoi legami con il jet set europeo.

La nonna di Natalia di cui leggiamo nel “Lessico”, dal carattere egocentrico e bizzoso, spaventata da un’incombente e inesistente povertà, era Emma Perugia, nata a Pisa nel 1854, da Cesare Perugia e Rachele de Parente, quest’ultima, a sua volta, figlia di Salomone de Parente. Eccolo il nostro uomo, il collezionista, spesso citato dagli studiosi perchè autore di un catalogo delle edizioni bodoniane nel 1881.


Salomone de Parente, nato a Trieste nel 1808 e mortovi nel 1890, aveva il destino scritto nel nome e in qualche modo segnato: la finanza e le cariche pubbliche. A capo della Banca Morpurgo e Parente, che intratteneva relazioni con i Rothschild di Vienna e i Torlonia di Roma, era anche membro della Deputazone di Borsa, vicedirettore delle Assicurazioni Generali e presidente della Camera di commercio di Trieste. Nel 1827 sposò Ester Stella o Stellina, detta “Nina”, Hierschel, figlia di Moisè e di Rachele Vivante, da cui ebbe tre figlie, per poi divorziare. Nel 1845 speculazioni sbagliate portarono i Parente al fallimento e al loro posto subentrarono i Landauer, gli Hierschel e, nel 1853, il ramo parigino dei Rothschild.


Per Salomone, invece, il doppio legame matrimoniale tra i Morpurgo e i Parente nella seconda e terza generazione fu un trampolino di lancio verso l’esclusivo mondo dell’aristocrazia finanziaria europea. Un esempio? Il matrimonio della sua cugina di secondo grado, Louise de Morpurgo (Trieste 1845-Parigi 1926), figlia di Giuseppe e di Elisa Parente, con Louis de Cahen d’Avers (Anversa 1837-Parigi 1922), banchiere francese di origine belga, fondatore de La Banque de Paris et des Pays-Bas (oggi Paribas). Louise teneva uno dei brillanti Salons juifs della Parigi degli anni ’80 dell’800, frequentato da scrittori come Guy de Maupassant ed Edmond de Goncourt, che, affascinato dalla padrona di casa, si perdeva nelle sue movenze “da gatta” e nell’acconciatura di riccioli biondi avvolti come un nido di serpenti.


Louise non trascurava certo i suoi estimatori, nè professava la monogamia. Musa e amante dello scrittore Paul Bourget, lo era anche del ricco e influente critico d’arte Charles Ephrussi (Odessa 1849-Parigi 1905), amico di Proust, che a lui si sarebbe ispirato per la figura di Swann ne la Recherche. E si deve probabilmente alla loro relazione e all’interesse comune per l’arte giapponese, la raccolta di 264 netsuke al centro del romanzo di Edmund de Waal, “Un’eredità di avorio e ambra”, che di questo nucleo narra vicende e peripezie. Proprio de Waal ricorda come la coppia condividesse la passione per l’arte del Sol Levante: assieme avevano acquistato, nel negozio dei fratelli Sichel, una spettacolare collezione di scatole giapponesi in lacca nera e oro del ’600. Sarà Ephrussi il tramite tra Louise e il pittore Pierre-Auguste Renoir, al quale lei commissionò nel 1880 il celebre ritratto della figlia Irene con il fiocco azzurro tra i capelli e il doppio ritratto delle due figlie minori, Elisabeth e Alice.


Il ritratto di Irende de Cahen d'Avers di Renoir



I de Morpurgo e Parente intrattenevano rapporti anche con i Camondo, i cosiddetti “Rothschild dell’Est”, famiglia di ebrei ottomani di origine sefardita. Improvvisamente, nel 1782, il capostipite Haim Camondo, facoltoso commerciante, venne cacciato da Costantinopoli e si imbarcò per Trieste con la famiglia, tra cui i figli Isaac e Abram. Trieste gli portò fortuna: nel 1791 Haim Camondo figurava come primo proprietario, quindi con ogni probabilità anche edificatore, della villa che oggi è la sede del Civico Museo Sartorio.


Salomone, trisnonno di Natalia Ginzburg, apparteneva a questo mondo. Fin da giovanissimo frequentò il salotto triestino di Carolina Bonaparte Murat che, sotto il nome di contessa di Lipona, soggiornò a Trieste tra il 1824 e il 1831. A casa sua nascerà un innamoramento, non per la signora ma per un oggetto d’arte: vedendo la copia del “Sogno di Polifilo”, stampato da Bodoni e a lei dedicato, Salomone, su consiglio di Domenico Rossetti, cominciò a raccogliere i libri dell’alta arte tipografica. Bodoni diventò per lui un’ossessione, una dipendenza che contribuirà al suo tracollo economico. Ne acquistò i libri in tutta Europa, dagli stessi Rothschild, fino a raccogliere 782 esemplari, e compilò cataloghi bodoniani. Prima di morire, in uno stato di forte indigenza, fece un testamento dove salvò solo questi volumi, donandoli, tramite Attilio Hortis, alla Biblioteca Civica di Trieste, affinchè la collezione fosse posta accanto alla raccolta petrarchesca.


Ecco chi era Salomone, il “nonno Parente” di Emma, nonna di Natalia. Uomo di forti passioni, inserito in una scenografia fitta di relazioni, di codici, di gusti esclusivi. La sua biografia ci restituisce la vicenda paradigmatica del collezionismo librario e artistico di Trieste e ci permette di osservare e di leggere, secondo le parole dello storico Carlo Ginzburg, figlio di Natalia, il generale partendo da un’originale periferia storiografica. Tutt’altro che periferica.

@boria_a