martedì 1 ottobre 2024

IL LIBRO

 

Ilaria Tuti, nel nuovo romanzo storico

la Risiera, il lager di Trieste

 


 

 

Il Castello di Kransberg, il nido dell’Aquila, dove Hitler vive asserragliato in un bunker, terrorizzato e paranoico, dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944. La Risiera di San Sabba, luogo di transito per gli ebrei diretti ai lager e inceneritore di oppositori politici, in un’atroce contabilità di morte governata da Josef Oberhauser, SS-Obersturmführer. Due scenari gravidi di ombre, uno nell’Assia più nera, l’altro nella Trieste occupata dai nazisti, e due personaggi, un padre e una figlia, accomunati dalla scelta della professione medica, che si trovano a indagare su morti avvolte nel mistero.


Lui è il professor Johann Maria Adami, luminare della medicina forense e dei meandri della psiche, prelevato a Dachau da un suo antico allievo, che ha disertato la scienza e abbracciato il Reich, e portato lassù, nel castello-prigione del Führer, per scoprire cos’è successo a un giovane militare precipitato da una torre: suicidio o omicidio? Gesto estremo o mano assassina, potenzialmente letale per lo stesso Hitler?


Lei è Ada, dottoressa dei più poveri, moglie di un partigiano sparito nel nulla dopo l’Armistizio, che intorno alla Risiera scopre una scia di sangue, forse sgorgata dentro le mura dell’antica pileria: chi ha ammazzato due prostitute e brutalmente seviziato Margherita, figlia di una famiglia amica, facoltosa e borghese? Chi non violenta, ma azzanna come una fiera? “La Risiera ha denti. Morde”, le ha detto un vecchio pescatore.

 

La Risiera di San Sabba a Trieste, il lager col forno crematorio, l'unico dell'Europa meridionale (foto Lasorte)

 


Ilaria Tuti, scrittrice best seller di Gemona del Friuli, diventata famosa per la serie con protagonista la commissaria Teresa Battaglia, approdata anche su Rai Uno con grandi ascolti, torna alla sua passione per la storia, mescolandola al noir, altrettanto nelle sue corde. Da oggi, 1 ottobre 2024, è in libreria “Risplendo non brucio” (Longanesi, pagg. 320, euro 22), il romanzo che verrà presentato dall’autrice giovedì 3 ottobre, alle 18, nel Salone del Parlamento del Castello di Udine, in dialogo con la giornalista Martina Delpiccolo, e lunedì 7 ottobre, alle 18.30, al Miela, con il presidente Enzo D’Antona.

 

La scrittrice Ilaria Tuti (foto Paolo Gurisatti)

 


Trieste negli anni dell’occupazione tedesca è al centro di un intreccio complesso, su piani diversi, geografici ed emotivi, dove un Male ancora più profondo di quello scatenato dalla guerra risucchia i protagonisti: il blasonato docente, ischeletrito ma indomito nel difendere un ideale etico, niente svastiche nei luoghi di studio, che l’ha portato dritto a Dachau e al sacrificio degli affetti familiari, e la giovane dottoressa, cresciuta negli stessi valori, ma sopraffatta dalla solitudine e ferita da un padre che ha messo la sua coscienza davanti a tutto, anche al suo sangue.


Separati dai chilometri, li unisce a distanza un'identica sfida, quella che Ada trova negli appunti del padre scampati ai roghi nazisti e che fa sua: calarsi negli abissi dell’assassino. Scandagliare la sua mente, leggere ogni gesto, collegarlo in una strategia, muovendosi in quella zona torbida alimentata al conflitto, dove gli istinti più bestiali si affilano e si scatenano, bene e male si toccano, e la ferocia può colpire con una mano amica o un aiuto arrivare da chi crediamo aguzzino.


Nel nido dell’Aquila Professor Adami trova la soluzione della morte del giovane Haas e confeziona quella che il Führer vuole sentire, prima di mettersi in viaggio verso Berlino e la capitolazione. Nella sua bara di acciaio e cemento al castello di Kransberg non si è accorto dei piccioni viaggiatori che volano sulla sua testa con i messaggi degli Alleati, ormai sempre più vicini, e dei cospiratori che gli alitano sul collo. Non ha visto quell’arazzo dove qualcuno ha sapientemente ricamato nell’alfabeto Morse “Fuck Hitler” proprio sotto il suo naso.


Anche Ada scopre l’identità dell’assassino delle giovani donne, ma prima di vederlo inchiodato da una prova inconfutabile, incisa sulla pelle delle vittime, dovrà affrontare una discesa ancora più spaventosa di quella nelle perversioni del killer: la foiba. “Eravamo sopravvissuti. Lei aveva attraversato l’inferno. Lui lo aveva abitato, ne era risalito ed era tornato per raggiungerla”.
Aprono e chiudono il romanzo il lager di Dachau e il Tribunale di Norimberga, dove padre e figlia, questa volta insieme, guardano negli occhi il Male. In mezzo Trieste, sfregiata dai bombardamenti, e la sua Risiera. I nazisti in fuga hanno fatto saltare in aria il forno crematorio, il Gma ha imbiancato le pareti, inghiottendo nella calce nomi, colpe, testimonianze. Ada si impegna a far conoscere al mondo i crimini commessi dentro quelle mura, ma la gente intorno a lei vuole solo dimenticare e cercare di andare avanti.


Josef Oberhauser, condannato all’ergastolo in contumacia, non viene mai estradato dalla Germania, finendo i suoi giorni a gestire una birreria di Monaco. Nel ricordo di Ada è scolpito così, mentre in Risiera cattura con la lingua i coriandoli di cenere che scendono dall’alto, con un gesto quasi giocoso e infantile, come fossero fiocchi di neve.

MODA & MODI 

 

Lupa, lonza, leone: i vestiti bestiali e l'effetto wow 

 

La collezione di Schiaparelli firmata da Daniel Roseberry

 

Chissà se si è stupefatta la giornalista Rachel Tahjian, critica di moda del Washington Post, guardando sfilare sulla passerella parigina di Schiaparelli una Naomi Campbell con cappotto a pelo lungo e grande testa di lupa sulla spalla sinistra, nell’incarnazione della Cupidigia. Il direttore creativo del brand, Daniel Roseberry, ha detto di aver voluto allontanarsi dalle tecniche che conosce bene e avventurarsi in una sorta di dantesca “selva oscura”, utilizzando - bene precisarlo in tempi di hater - vetroresina e finta pelliccia per dare forma ai tre peccati capitali e alla loro rappresentazione animale. La Superbia? Eccola, è la modella Irina Shark in nero monospalla con enorme testa di leone, mentre a Shalom Harlow è toccato zampettare in abito maculato chiuso al petto da una lonza a fauci aperte, incarnazione della Lussuria.

Il riferimento alla giornalista americana non è casuale. “Davvero la gente ricca si veste in maniera così noiosa”? ha commentato Tahjian dopo la sfilata milanese di Gucci, l’ammiraglia del gruppo del lusso Kering che ha seri problemi di perdite economiche. Troppo scontati gli abiti, i completi, i trench, noiose le minigonne. A suo dire non c’è emozione dietro la tecnica, i capi danno l’idea del fatto a macchina e non a mano, mentre chi ha tanti soldi da permettersi il brand ha diritto di essere stupito da idee originali e anche chi non li ha, i soldi, ha diritto a un po’ di inventiva e a non vedersi rifilare la rifrittura di tendenze già da anni esplorate dalla fast fashion. Bocciato anche Ferragamo: un compitino normale del designer Maximilian Davis che serve solo a spingere le borse (sono loro che si vendono!), sproporzionate rispetto ai capi, onnipresenti, con dettagli incongrui. 

Insomma, sintetizzando i rilievi della giornalista: è ora di farla finita con le serie televisive Succession, White Lotus, Big Little Lies (aggiungerei ora The perfect couple su Netflix) e al prevedibile quiet luxury, il lusso sottotraccia che fa sbadigliare. “Per l’amor del cielo diventa un po’ creativo!” ha scritto Tajian senza giri di parole.
L’esortazione appare brutale, ma solleva una domanda importante: quanto siamo disposti a sacrificare all’effetto “wow” di una collezione?

La moda sta attraversando un momento terribile tra guerre in corso, paura del futuro che frena gli acquisti, mercati asiatici in crisi, chiusure di marchi. I creativi hanno una responsabilità, devono rispondere ai numeri e venire a patti con le richieste degli amministratori delegati, non è il momento di scorrazzare a tutto campo nelle praterie sconfinate dei vestiti folli. Il punto è uno: bisogna conciliare creatività e portabilità, l’eredità di un marchio storico e l’innovazione, idee e mercato, sogno e realtà. Chi acquista, sia il ricchissimo, sia il cliente “aspirazionale”, per cui la borsa è la chiave d’accesso a un mondo che non può permettersi in toto, pretende rispetto. Gucci e Ferragamo hanno proposto collezioni indossabili, solide, credibili. Al “wow” hanno preferito l’equilibrio. Mettersi addosso la lonza, il leone e la lupa sarebbe il vero peccato capitale.

lunedì 23 settembre 2024

 LO SCRITTORE

Umberto Saba e il Giappone che non vide mai

 

 

Umberto Saba sulle Rive di Trieste, quando ancora vi passavano i treni

 

 Si intitola “Intermezzo quasi giapponese”, la plaquette di Umberto Saba, tirata in due, tre copie, che la Biblioteca Hortis ha appena acquistato per il nuovo Museo della Letteratura di Trieste, Lets, in previsione dell’apertura della sala dedicata al poeta. Ma che cos’è quest’Intermezzo? Nell’aprile 1917 Saba scrive all’amico avvocato fiorentino Aldo Fortuna, di aver composto circa una quarantina di “Poesie giapponesi” di tre o quattro versi, che rappresentano il suo testamento artistico. Come al solito la libreria annaspa e Saba ha l’idea di pubblicare opere di pregio, in poche copie, per suscitare l’interesse dei bibliofili e spingerli a farsi concorrenza tra loro per accaparrarsele.


È l’ennesima strategia di marketing editoriale messa in campo dal poeta, dopo altre iniziative di scarsa fortuna. Il magazzino della libreria non si alleggerisce e il varo dell’«Editrice La libreria antica e moderna», inaugurato dalla pubblicazione del volumetto “Tentativi d’arte di Enrico Elia”, in vendita a tre lire, non ha dato i risultati sperati. Anzi, è stato un fallimento. «Io che non amo che cose buone, maturate in silenzio e con lentezza, mi trovo obbligato a dover fare ogni giorno dieci e più cose diverse; libreria, reclami per cinematografi, preoccupazioni familiari, questioni con le disordinatissime Messaggerie etc. etc. E con tutto questo strappo appena da vivere; mentre gli ebrei che ho d’intorno, sanno guadagnare 10.000 lire con un semplice colloquio al caffè”, si lamenta Saba con l’amico vociano Papini.

 

L'Intermezzo quasi giapponese conteneva 17 componimenti brevi

 

Come far soldi, dunque? Nasce da qui l’idea di percorrere la strada delle chicche per collezionisti: “Cose leggere e vaganti” viene pubblicato in 35 copie, il Canzoniere in dieci libretti singoli. Anche le “Poesie giapponesi” rientrano in questa operazione. I circa quaranta componimenti di pochi versi di cui Saba ha informato Fortuna non riescono a trovare un editore e il poeta deve inventarsi un modo per solleticare l’aspettativa degli intenditori. Spiega tutto nel colophon dell’Intermezzo acquisito dalla Biblioteca, che contiene 17 brevi componimenti: «Tra un sogno e l’altro - un intermezzo di versi - ho raccolto alcuni giocattoli scritti in tempo di guerra. A rendere meno aride queste parole ecco il frontespizio con un disegno di Vittorio Bolaffio, lui amico dell’Oriente, e la confezione di Virgilio Giotti, poeta e libraio come me».


Ma il Giappone? Nessuno di loro l’ha di certo visitato, forse solo orecchiato dai racconti dei fuochisti del Lloyd. Il filologo Arrigo Castellani ammette che Saba abbia letto l’antologia di poesie “Note di Samisen”, edita da Carabba nel novembre del 1915 e fondamentale per l’introduzione in Italia della lirica tradizionale giapponese, ma ritiene che che haikai e tanka abbiano agito su di lui piuttosto come stimoli a una personale riscoperta dell’epigramma. I componimenti dell’Intermezzo, che risentono dell’influenza de “Il porto sepolto” di Ungaretti, riprendono stati d’animo, momenti atmosferici, vite di animali. Il Paese del Sol Levante non c’entra nulla e lo dice lo stesso Saba nei versi della poesia “Viaggio al Giappone”: «Nell’antico Giappone (io mi dicevo) son gli stessi viali che ho lasciato là, in Europa... Due passi, e al luogo amato parmi d’essere. E c’ero infatti. Avevo d’esser lungi sognato».


Quelle che non mancano sono le suggestioni visive. Il Circolo Artistico Triestino aveva organizzato alcuni anni prima della plaquette giapponese due mostre d’arte orientale, una nel 1908 curata da Carlo Wostry e l’altra nel 1912 affidata ad Argio Orell.
Come già fatto in passato, Saba dissemina indizi di questo suo “testamento” in edizione limitata, fa circolare manoscritti e dattiloscritti, pubblica qualche testo sulle riviste, come spiega nel volumetto “Intermezzo quasi giapponese” la curatrice Maria Antonietta Terzoli, ricostruendo la “mappa” promozionale dell’opera.


Ma il marketing del poeta è poco efficace. Una copia dell’Intermezzo la regala allo scultore Ruggero Rovan, che a sua volta la dà a Bruno Astori perchè la pubblichi sulla rivista del Lloyd “Sul Mare”, per farla poi ritornare nelle mani di Anita Pittoni. La stessa copia, attraverso Giotti, arriva al poeta Carolus Cergoly. Passaggi di mano nel suo circolo di amici e intellettuali che non risollevano i conti.


Intanto, il fascino giapponese che attraversa i primi decenni del Novecento continua a catturare anche Trieste e Saba non ne è immune. Nel dicembre 1930 la libreria pubblica il catalogo n. XXXII che contiene una sezione dedicata a libri illustrati dell’arte giapponese (le “Vedute del fiume Yeddo” di Hiroshige e le “Cento vedute del vulcano Fugi-yama”, in tre volumi, di Hokusai). Anche nel catalogo n. XXXVI dell’ottobre 1931 compaiono gli album di stampe giapponesi “provenienti da una grande collezione”. Dopo gli anni Trenta in città si apre la Mostra dell’Estremo Oriente a cura di Oreste Basilio, dove spiccano due sale con la “raccolta di stampe colorate giapponesi del cav. Morpurgo De Nilma” con opere di Outamaro, Hokusai, Hiroshige e la collezione di pannelli giapponesi della baronessa Mary de Albori.


L’«Intermezzo» è stato acquisito dalla Biblioteca Hortis dalla Libreria Drogheria 28 di Simone Volpato - che da anni studia con Marco Menato l’antro di Saba, le sue relazioni con i clienti, la struttura dei cataloghi - e ha trovato collocazione nella collezione di Lets proprio alla vigilia dell’apertura al pubblico, il 13 settembre 2024. Il Giappone del poeta era vicino: “Ebbi un solo, per lunghi anni conforto:/ dove gli altri eran tutti a lavorare/ io di Trieste per le strade e il porto a bighellonare”.

mercoledì 28 agosto 2024

MODA

Emily in Paris veste Roberto Capucci

L'abito nell'archivio a Villa Manin

 

 



 Roberto Capucci cade dalle nuvole. «Non ne sapevo niente» dice il grande couturier romano, il cui preziosissimo archivio è conservato a Villa Manin di Passariano dove ha sede anche la Fondazione che porta il suo nome. Il suo abito “Nove Gonne”, rosso fuoco in taffetà di seta, anno 1956, agli esordi del made in Italy nel mondo, comparirà nella seconda parte della serie “Emily in Paris”, le cui nuove puntate debutteranno su Netflix dal 12 settembre.


È una citazione, non l’originale. Emily, in trasferta romantica a Roma, scenderà la scalinata di Piazza di Spagna in un modello quasi identico a quello di Capucci, anch’esso custodito a Villa Manin, con la sostituzione di un paio di pantaloni Capri alla gonna a tubo che nella versione autentica esce dalla raggiera di nove strati di tessuto, poi raccolti in un breve strascico (questioni di copyright?).

«Nessuno ci ha consultato - conferma il nipote del designer, Enrico Minio Capucci, responsabile della Fondazione - ma ne siamo felicissimi. L’abito fa parlare quasi più della serie. È comparso su Vogue Spagna, su molti blog, su Vanity Fair, dove nell’articolo è riportato in fotografia un altro abito Capucci attualmente esposto a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia, nella mostra su moda e design degli anni Sessanta, un modello della Linea Optical ispirato all’Op-Art e alle opere di Victor Vasarely».


Il “Nove Gonne”, disegnato da Capucci a 26 anni guardando i cerchi concentrici disegnati da un sasso lanciato a pelo d’acqua, è una delle creazioni più iconiche ed esposte della sterminata collezione storica del couturier, accanto al celebre “Fuoco”, ed è appena rientrato a Passariano da un allestimento alla Fondazione Zani di Brescia dedicato al rosso nei busti di porfido romani e al rosso nella moda.

 Il “Nove Gonne” fu realizzato per una delle tante, famose clienti del couturier, le fedeli “capuccine”, la nuotatrice Esther Williams, protagonista di “Bellezze al bagno”, ma in una versione diversa da quella custodita a Villa Manin, con spalle e schiena scoperte, per permettere all’ex nuotatrice di mettere in mostra la sua notevole fisicità. Ha fatto anche pubblicità, fotografato nel ’57 per promuovere una fiammante Cadillac sullo sfondo del Foro Romano. L’anno scorso, sempre a Palazzo Attems Petzenstein a Gorizia, l’abito era tra i più celebrati della mostra dedicata agli anni Cinquanta e alla nascita dello stile italiano.

 

 

"Italia Cinquanta" nel 2023 a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia


L’Emily della serie, l’attrice Lily Collins, pr di Chicago esportata nella Ville Lumière, dove per i critici, in particolare d’oltralpe, interpreta fin troppo filologicamente gli stereotipi sullo stile francese visto dagli americani, nella nuova parte della stagione si sposta a Roma. E qui, fatalmente, proprio come Audrey Hepburn nelle “Vacanze romane” di William Wyler del 1953, con cui vinse l’Oscar, incontrerà il suo Gregory Peck, che nella serie - a proposito di stereotipi - non poteva che chiamarsi Marcello (l’attore Eugenio Franceschini), e si farà scarrozzare in Vespa nella città della Dolce Vita con una serie di mise, dal foulard al collo alla gonna ampia con sottogonna di tulle, modellate dalla costumista Marylin Fitoussi su quelle indossate dell’inarrivabile Audrey.


A Villa Manin, intanto, si lavora al Museo dedicato al genio inventivo di Roberto Capucci, che dovrebbe aprire entro l’anno, in vista della Capitale della Cultura. Esposizioni a tema che presentino al pubblico non soltanto le sue architetture tessili, ma anche le sculture e l'infinito giacimento di disegni e costumi, gli ultimi per “Le creature di Prometeo. Le creature di Capucci” al Festival dei due mondi di Spoleto.

martedì 20 agosto 2024

MODA & MODI

Bermuda, slip, perizoma: le opzioni del maschio al mare 

 

Alain Delon e Romy Schneider in "La piscina" (1969) di Jacques Deray

 


 Mutande, boxer, bermuda? Slip o calzoncini? Gli uomini non sono esenti dalle regole del bon ton da spiaggia, anche se le loro opzioni sono apparentemente più semplici e scontate. Regole non scritte e non sanzionate - salvo quelle in vigore in molte località balneari, che vietano di aggirarsi senza maglia o in costume in città, per scongiurare che un popolo seminudo attraversi le strade, entri nei negozi o si accomodi al ristorante - si richiamano al buon senso e al buon gusto, territorio scivoloso e interpretabile, dove è facile sentirsi nel giusto.

 

Questione di misure e di proporzioni, prima di tutto. Se i costumi maschili non conoscono il cut out, perché nessun designer potrebbe arrivare a tanto da tagliare un pezzo di stoffa qua e là, scoprendo che ne so una porzione di gluteo o uno spicchio di pube pur di esercitare la sua creatività su un pezzo di stoffa pressoché immodificabile, lunghezza e forma fanno la differenza, eccome.

 

Bermuda fino al ginocchio o oltre? Banali considerazioni sulla scomodità dovrebbero scoraggiare questa opzione. È consigliabile non aggirarsi in spiaggia con un paio di pantaloni da città, peggio se con tasche posteriori o laterali, inutili ammennicoli soprattutto sulla sabbia. Il calzone urbano non diventa calzone da mare solo perché si attraversa il confine tra città e spiaggia, non è un capo fungibile e ancora meno un alibi per evitare di cambiarsi, fa solo sembrare troppo vestiti e appesantiti per il contesto.

 

Gli slip a mutanda? Il coro dovrebbe levarsi solenne, come nella tragedia greca: rasentano il filo della volgarità e non stanno bene a nessuno, per quanto palestrati e asciutti possiate essere. Brutti sui magri, inguardabili su chi è sovrappeso o sovrapancia. Certamente le recenti olimpiadi hanno suscitato qualche fantasia emulativa, da allontanare senza patemi. Le mutande possono serenamente rimanere confinate nell’intimo inteso come categoria vestimentaria e come privacy. E c’è un’aggravante: l’utilizzo, il sale, il cloro, ne allentano i bordi, rendendo ancora più difficile sottrarsi all’effetto penzolamento.

 



La scelta che rimane è la migliore: il pantaloncino a metà coscia. Alain Delon ne "La piscina" con Romy Schneider (1969) è l'immagine che in queste ore abbiamo davanti agli occhi. D'accordo, Delon. Ma il pantaloncino è decoroso per qualsiasi età e fisico. Chi vuole sbizzarrirsi ha colori e fantasie a volontà, per gli altri c’è la palette dei blu. Il dilemma, semmai, è che cosa metterci sotto per evitare il fastidio delle reticelle contenitive. Ecco allora che lo slip-mutanda può ritrovare, ben nascosto, una sua ragion d’essere. Non così il comune boxer di cotone con il bordo griffato - i sempiterni Armani-Calvin Klein-Ralph Lauren - da lasciar uscire dai pantaloncini, in pratica l’urbana mutanda a vista trasferita al mare, purchè ci sia il logo.

 


 


Veniamo all’estremo, l’innominabile. Pensavate che fosse esclusiva delle scuole di danza? Non è così. Il perizoma si aggira tra noi (molto più vicino di quanto pensiate) complice il fisico senza maniglie di qualche temerario estimatore. Qui gli aggettivi vengono meno per non essere tacciati di un qualsivoglia shaming, dal body al cervello. Lavorate di fantasia, la risposta verrà da sé.

lunedì 5 agosto 2024

 MODA & MODI

 Che brat quel verde

 


 

 

Farà bene il verde brat a Kamala Harris, la candidata democratica che sfiderà Trump alle presidenziali americane? Se vi state interrogando su che sfumatura sia il brat green, per la Gen Z non siete altro che cringe, in sostanza “inadeguati”, una sotto categoria del boomer. È il verde che campeggia sull’omonimo album della cantante pop britannica Charli XCX, dal titolo omonimo: un verde acido, irritante, disturbante, con una punta di giallo, il verde da ragazzacce che vogliono sovvertire le regole, scocciare e scuotere le convenzioni, essere anche brutte e fastidiose, pungolare, al contrario della perfettina e leccata Taylor Swift con tutti i suoi fan legati dai braccialetti dell’amicizia. Il verde brat è infido come quel campo unico sulla copertina del disco, dove è stampigliato il titolo volutamente sfocato, brat, appunto, termine diventato categoria di un’opposizione alle regole che rifiuta ogni categorizzazione.

Verde tossico, che può far male. Niente di nuovo, insomma, perché il verde, per secoli, ha avuto una connotazione sinistra. “Kamala is brat” ha lanciato Charlie XCX su X - il social di Elon Musk sostenitore di Trump - e immediatamente i profili della vice presidente americana hanno reagito, assorbendo colore e logo e gongolando per l’endorsement che fa breccia nelle giovani generazioni. Difficile immaginare Kamala, congelata nei suoi tailleur pantaloni maschili da consiglio di amministrazione, nelle giacche dalle spalle forti così corporate, farsi galvanizzare e spiazzare da un colore che irrompe nella palette scontata della donna di potere: il blu del suo partito, il bianco delle lotte femminili, il nero della stabilità istituzionale.

Quando Kamala ha indossato il viola per la cerimonia dell’insediamento - caricando su quel cappottone imponente il senso dell’unione nazionale, blu più rosso, democratici e repubblicani, l’omaggio alla prima donna nera eletta al Congresso, Shirley Chisholm, che amava il viola, e tutti i contenuti antirazzisti del film “Il colore viola” di Spielberg - ha esagerato nella simbologia e nei significati impliciti, lasciando l’impressione di un colore sopra le righe. Il power dressing, che lega moda e politica, ha equilibri sottili.


Intanto, ringalluzzito dall’ondata di popolarità delle ultime settimane, il verde brat spunta nelle vetrine degli agonizzanti saldi di stagione: qua e là una gonna, una camicia, un accessorio. Testimonial d’eccellenza Miuccia Prada, che da sempre privilegia un verde anticonvenzionale, piu virato sul lime, portandola in versione total anche all’evento degli eventi, il Met gala nel 2018 e 2023.

 

Miuccia Prada, Met gala 2018 ph. REX/Shutterstock

 

 È dal 1996 che la signora dell’ugly chic maneggia con disinvoltura il verde, abbinandolo al marrone, come nelle piastrelle e negli arredi anni Cinquanta, in una combinazione poco commerciale e proprio per questo spiazzante, come il brat di oggi. Vale dunque la pena comprare un pezzo di questo colore? Ha diluito e poi spazzato via il rosa Barbie, col suo coccoloso buonismo, è diventato il colore intruso di questa mezza estate. Dove una staffilata cromatica ci vuole. Non solo per la candidata.

lunedì 22 luglio 2024

MODA & MODI

 J. D. Vance, Carola Rackete, Ilaria Salis

L'estate di barbe e peli al potere

 

Meno male che è arrivato J.D. Vance, candidato repubblicano alla vicepresidenza degli Usa, a farci dissertare sulla sua barba e, peggio, sul presunto uso della matita nera intorno agli occhi azzurri per infondere solennità alla sua faccia rotonda da ragazzone cresciuto a cibo spazzatura e riscattato dal sogno americano.

La sua autobiografia (da leggere, davvero, e all’inizio molto apprezzata dai liberal, che vedevano nell’autore, di una famiglia marginale immigrata dai Monti Appalachi verso la rust belt, la cintura industriale, e poi laureato a Yale, la prova vivente del successo delle loro battaglie) si intitola Hillbilly Elegy, perché hillbilly, gente di collina, erano chiamati dispregiativamente i poveracci bianchi delle classi rurali, immigrati di origine irlandese o scozzese, privi di istruzione. Bifolchi, insomma, o red neck, colli spellati dal sole, o white trash, spazzatura bianca.


                                          Nel 2017 ai tempi del successo repentino di Hillbilly  Elegy


J. D. Vance alla Convention repubblicana di Milwaukee - Evan Vucci /Ap


Meno male, appunto, che si è appalesato Vance, con la sua barba disciplinata, perché altrimenti il dibattito estetico-politico-vestimentario dei sonnolenti mesi estivi, tra saldi imperdibili e future tendenze, si sarebbe incagliato sugli scontati outfit delle neofite europarlamentari Ilaria e Carola.

 Le statistiche sulle barbe alla Casa Bianca stanno appassionando i giornali: riassumendo, se Trump ce la farà, il numero due del ticket sarà il primo barbuto dal 1893, quando terminò il mandato il presidente Benjamin Harrison. Tutta la galleria dei presidenti dell’Ottocento è popolata di barba e baffi, poi si preferirono candidati che l’elettorato potesse guardare a viso aperto e scoperto. 

Tuttavia, l’idea di conquistare gli Stati in bilico con il “proletario“ Vance ha fatto superare a Trump la proverbiale pogonofobia, l’avversione per i peli facciali, che provava anche Silvio Berlusconi, al punto che The Donald si è avventurato a paragonare il suo vice a un giovane Abraham Lincoln. Su matita e forse addirittura kajal il tycoon non si è pronunciato, ma è noto che per se stesso non disdegna la doratura di fondotinta e spray abbronzanti, esattamente come il fondatore di Forza Italia faceva con il make up che gli regalava quel pastoso e omogeneo incarnato da Muppet.

 

(leggi la recensione a "Elegia americana" su questo blog)

IL LIBRO

Elegia Americana, con J. D. Vance

dentro l'America dei perdenti

 

Di un’altra forma di irsutismo hanno parlato i giornali italiani di area conservatrice, commentando l’immagine della neoeletta in Europa, la tedesca Carola Rackete, immortalata accanto alla collega Salis in scarpe da ginnastica nere, vestito arancione e nessuna preoccupazione per l’esuberanza pilifera dei polpacci.

 

Carola Rachete, Mimmo Lucano e Ilaria Salis a Strasburgo

 

Poco sapido il commento della leghista Susanna Ceccardi, già nota per la campagna elettorale basata sulla comparazione estetica con le avversarie. Quel “pronte per la fashion week” ha scatenato ancora una volta l’indignazione della rete al grido di body shaming, tema sensibilissimo e trasversale. “Quando ci mettiamo un vestito diciamo quel che siamo e gli altri lo capiscono. Vestirsi è scrivere la propria identità sul corpo…” dice il semiologo triestino Ugo Volli.

 

E Rackete e Salis hanno interpretato filologicamente. Scarpe da ginnastica, zaino, zeppe di corda e capi anonimi e quotidiani, sono il messaggio che le due europarlamentari trasmettono: portiamo avanti le nostre battaglie anche qui, restiamo quel che siamo e siamo state, nessun compromesso e soprattutto non abbiamo vinto un jackpot. Ilaria si è spinta oltre, evidenziando una propensione a magliette semi-crop che le lasciano scoperta solo una fascia lattea di addome, appena sopra l’ombelico, tra jeans e gonne. La “body hair positivity” per la Gen Z esprime libertà nei confronti della “norma di genere” che alle donne impone la depilazione, ha dunque un contenuto politico. La pancia al vento dentro il Parlamento europeo sortisce l’effetto opposto: toglie alla politica, nel senso di persona fisica, il contenuto.