martedì 30 aprile 2024

MODA & MODI

 

Il valore emozionale che la fast fashion non ha

 


 

 Prima pensa, poi compra. E compra di seconda mano. O meglio, pre-loved, un articolo già scelto e amato da qualcuno, che passa di mano per essere ri-scelto e ri-amato da qualcun altro. L’usato di qualità non è più un vezzo per chi ha occhio, fiuto, conosce i materiali, la storia dei brand e ha tempo libero. La circolarità fa bene all’ambiente, nonostante la Generazione Z, che di slogan sul pianeta si riempie la bocca, sia la più famelica consumatrice di moda usa e getta. Sta tutto nell’aggettivo fast: compere d’impulso, prodotti in serie, durata minima, rottamazione veloce.

Vestiaire Collective, la più grande piattaforma di seconda mano di lusso (o meglio, firmato), ha commissionato uno studio, partendo da un dato: oltre il 60 per cento della moda fast finisce nella discarica nel giro di un anno. Prima ha messo al bando sessantatré marchi, vietando la vendita, attraverso la sua piattaforma, di prodotti, tra gli altri, di Zara, H&M, Gap, Mango, Uniqlo, American Apparel, Abercrombie & Fitch. I cinque criteri per redigere la lista nera? Prezzo stracciato, ricambio velocissimo, ampiezza della gamma di prodotti contemporaneamente sul mercato, rapidità della messa in vendita (dalla progettazione al pezzo finito) e pubblicità massiccia.
Il secondo passaggio è l’analisi dei dati. Vestiaire Collective ha condotto una ricerca in Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti che sfata la convenienza facile.

Il report si intitola Exposing the true cost of fast fashion, smascherato il vero prezzo della fast fashion, e compara il cosiddetto costo per utilizzo. In pratica: è illusoria l’idea di risparmiare sganciando poche decine di euro. Capi e accessori verranno indossati meno, perché l’importo basso alimenta la bulimia di altri acquisti, e finiranno presto dalla discarica dell’armadio a quella vera, in quanto impossibili da riciclare con un sia pur minimo guadagno. Il costo per utilizzo rivela allora il costo effettivo di un articolo in base alla frequenza con cui ce lo mettiamo, alla sua durata e al valore alla rivendita. E senza inoltrarci nel ginepraio delle statistiche, secondo lo studio gli abiti di seconda mano di marca si indossano circa otto volte più di quelli fast fashion, i cappotti quattro volte e le borse hanno un costo per utilizzo del 72% in meno.

C’è infine un altro dato esaminato, che almeno ci riconcilia con la gratificazione di un acquisto. La durata “emozionale”, cioè per quanto tempo la nostra vita e le nostre memorie si legano a un capo, aggiungendogli ulteriore valore, non quantificabile.


Molti i commenti sarcastici online: Vestiaire Collective non è un committente neutro, attacca le catene low-cost per promuovere il suo usato griffato. E ancora: chi compra usa e getta non può permettersi altro o non accetta le rapine legate al logo e non all’effettiva qualità. Il punto centrale è sempre il prezzo, insensato ad entrambi gli estremi. Ma la fast fashion è certamente colpevole della sua percezione distorta: se un vestito o un cappotto costano pochi euro, vuol dire che nella filiera c’è un buco, che uomini o ambiente sono stati calpestati. E, loro sì, presenteranno il conto reale. 

sabato 27 aprile 2024


 MODA & MODI è diventato un libro!

 


 


«Dammi solo un armadio gigantesco!» diceva Carrie Bradshow a Mr Big, nel primo film della serie Sex and the City. E già, l’armadio gigantesco è un ottimo palliativo rispetto a un diamante. Ogni abito un’epoca, ogni veste un simbolo, è il modo in cui ognuno si rappresenta. Ed è alquanto stupido pensare siano vezzi superficiali. Come diceva Meryl Streep nei panni di un’esplicita Anna Wintour (“Il diavolo veste Prada”): è stravagante quanto sia assurdo confondere il “prendersi sul serio” con una chiara avversione alla moda. Oltre al fatto che procura innumerevoli posti di lavoro. Perché la moda non esiste solo negli abiti. Sta nelle idee, nel nostro quotidiano come sulle passerelle più ambite, dice ciò che viviamo e cosa sta accadendo.


Moda come «tradizione e rivoluzione, del suo essere specchio di desideri, ambizioni, contraddizioni e rappresentazioni». È la frase che chiude la premessa di “Moda & Modi 1991-2021” (Battello Stampatore, disegni di Ugo Pierri, pagg. 147, euro 16) della giornalista Arianna Boria, da sempre attiva sul campo, a iniziare dalla rubrica omonima che tiene da oltre 30 anni sul Piccolo.
Articoli, di cui il libro raccoglie una selezione, che tracciano la storia del costume degli ultimi tre decenni, non solo quella dei più grandi stilisti. Attraverso le tendenze Boria ci restituisce arte, costume, sociologia e politica. Insomma, un affresco sociale che dribbla tra leggerezza e profondità e guarda dritto al nostro rapporto con il mondo. Se per esempio un tempo il lifting veniva temerariamente nascosto, oggi si sbandiera: «l’aggiustatina è materia da salotto». D’altra parte basta aprire un qualsiasi social per assistere a sfilate di labbra-canotto e guance di marmo.


Nel giro di un decennio si è passati dalla censura all’esibizione. «Così come Carla Bruni – scrive sempre Boria – non si è fatta un problema, in abito azzurro Roland Mouret e capezzoli in vista, a sedersi accanto all’allora presidente russo Dimitrij Medvedev e consorte». Di esami alle first lady ce ne sono parecchi, dagli “scrunchie” di Hillary Clinton al repulisti del nuovo guardaroba da candidata alla Casa Bianca. E poi ancora Michelle Obama o la stupenda collezione di spille dell’ex segretario di Stato Madeleine Albright.


Le spille e il loro rapporto con le donne di potere è un capitolo a sé, ma certo “Moda & Modi” non risparmia niente e nessuno, in forma ironica e corrosiva ci mostra carenze e ipocrisie (anche) politiche a partire dal look. La mini ad esempio, la gonna più trasversale dell’immagine femminile, è di destra o di sinistra? E la t-shirt sotto la giacca? (a sdoganarla ci ha pensato Berlusconi, mentre Bossi l’ha fatto con la canottiera)? E a proposito di maschi e moda, in una rubrica datata 1995 leggiamo: «Come sarà il maschio della prossima stagione estiva? Le sfilate non lasciano dubbi: disossato. Finiti doppi o monopetti, sia quello mortifero di Berlusconi che quello da usciere di D’Alema. Sepolti vivi».
Ogni metafora è lecita. A metà degli anni ’90 la virilità era andata fuori tempo. Era il momento dell’androgino e delle giacche slim. Forse uno strascico degli ’80, quando gli uomini si truccavano e gli eccessi – anti ideologici – sembravano più autentici. Sempre all’interno di una scrittura dissacrante, tra Sedaris e Bennet, non mancano gli orrori: «Una camicia hawaiana, la penna stilografica nel taschino, il blazer con lo stemma, i bermuda, la camicia da cow-boy. Tra gli accessori, il borsello merita la bocca dell’inceneritore...». Così come andrebbero incenerite le Birkenstock nobilitate, che sempre ciabattone pannoniche restano. Da bruciare, nel 2014, anche il format di Project Runway Italia su FoxLife, dove «Gli abiti non hanno fatto più storia dei concorrenti».


I tacchi, si sa, tradiscono un modo d’essere (Monroe o Hepburn docet), mentre i gusti delle nuove generazioni si misurano sui centimetri degli shorts. Ma pure nella sfida tra Barbie e Bratz, bambole che rappresentano scelte di campo.


Un percorso cronologico all’inverso, dall’inizio della rubrica, il 1991, fino al 2021, dove non mancano considerazioni sulla neo-austerity di stile post pandemia. Trent’anni di storia del costume da una prospettiva particolare: «Una città – scrive l’autrice – che ha dato i natali o ha adottato celebri designer (Renato Balestra e Raffaella Curiel, Ottavio Missoni e Mila Schön), ma dove di moda non si è mai prodotto niente. Una città che implacabilmente tende a vestirsi sempre nello stesso modo, pratico e impersonale». Anche se lo stile, come diceva Lord Chesterfield, è l’abito dei pensieri.


Mary Barbara Tolusso

 


lunedì 15 aprile 2024

MODA & MODI

 diet_prada: sono aspirazionale, non stupido 




 

Un paio di flip flop di Chanel in gomma a 975 dollari. Una microgonnapantaloncino (dicesi skort) di Gucci (“neanche un metro di tessuto”) a 2600. Diecimila 400 per un cestino di vimini firmato Hermès, di cui non puoi scegliere il colore (“sarà una sorpresa”, galvanizza la descrizione). Infine l’abito color caramello di Chemena Kamali, designer debuttante da Chloé, che svetta oltre i 26mila dollari.


La denuncia di diet_prada su Instagram ha scatenato una tempesta di commenti in rete. Titolo: “Il lusso nella moda sta per risvegliarsi bruscamente?” Sotto, foto dei prodotti con relativo prezzo. Se ci fosse la gonna-asciugamano di spugna di Balenciaga a più di 600 dollari il catalogo sarebbe completo: pezzi che si assomigliano da un brand all’altro, fatti in serie, senza materiali nè ricerca, dove l’heritage del fondatore, come ai modaioli piace chiamare il patrimonio di artigianalità, esclusività, sapienza manuale, si è perso completamente. Non c’è da stupirsi, denuncia diet_prada, che, dopo l’impennata post pandemia, quando il bisogno di gratificarsi e l’ubriacatura di ritrovata libertà avevano fatto schizzare in alto le vendite, il lusso sia in costante flessione e lo stesso colosso Kering preveda un meno venti per cento nei ricavi.


I commenti sotto il post tracciano il profilo di quello i brand stanno perdendo: il cliente “aspirazionale”. Chi è? La definizione sembra alludere a qualcuno che vorrebbe ma non può, che aspira ma non raggiunge: è così e non necessariamente in senso negativo. Non dunque il super ricco, indifferente al cartellino del prezzo e della composizione, ma un acquirente con una buona capacità di spesa, che in passato comprava il più abbordabile universo intorno al top di gamma. Non la Birkin di Hermès, ma la cintura, il foulard, il portamonete, il portachiavi della stessa griffe, che con questo mercato guadagnava parecchio.


Oggi l’aspirazionale si sente preso in giro e lo dice senza perifrasi. Un logo di lusso non garantisce qualità. Gli artigiani delle origini, e il loro patrimonio da tramandare di padre in figlio, non esistono più, nemmeno come memoria. Esistono i colossi, che hanno fatto del nome un logo spersonalizzato, ubiquo, spesso sproporzionato come il costo (c’è più CHANEL che gomma in quelle ciabatte...). E poi la beffa: ti vendo una spugna a centinaia di euro, sei tu che non la capisci. Una merda d’artista alla Piero Manzoni, ma senza alcuna carica dissacratoria.


L’aspirazionale guarda all’aspetto etico. Che lusso è se viene prodotto da lavoratori schiavizzati in paesi lontani (vedi Loro Piana, del gruppo LVMH di Arnault, accusato di sfruttare i tosatori peruviani per maglioni a 9mila dollari) o sotto i nostri occhi (il caporalato contestato dai giudici ad Armani Operations), vandalizzando l’ambiente? Ma il concetto che ricorre più spesso è quello del tempo, di chi aspetta e di chi realizza l’oggetto del desiderio. Il tempo dell’aspirazione e della confezione hanno lo stesso valore, il secondo non può bruciare il primo in nome del business. E poi le fonti: il lusso è conoscere le mani di chi l’ha creato. 

domenica 14 aprile 2024

IL MUSICAL

Gabriella Slade e i costumi di Six

Tra storia e pop, hanno vinto un Tony Award 


Six di Toby Marlow e Lucy Moss


 

Sei regine rock. Immediatamente riconoscibili dai colori e dalla silhouette. Sei donne che portano su di sé il peso della storia e la condivisione di un uomo ingombrante, ma che si scatenano sulla scena adrenaliniche come popstar di oggi. Una band, coesa e compatta, dove ognuna delle protagoniste rivendica la sua individualità.


Non è stato un compito da poco vestire le regine di Six per la costumista Gabriella Slade. Ma questa giovane creativa, che ha studiato arte e ha radici napoletane per parte di madre, lo ha assolto in maniera così originale da vincere un Tony Award per i migliori costumi di un musical alla 75° edizione dei premi. Il segreto? Mescolare dettagli storici all’energia della musica contemporanea. E assegnare una tinta particolare a ogni sovrana, solo sua, per renderla unica e inconfondibile. Il musical cult Six sarà in scena al Politeama Rossetti di Trieste, in esclusiva nazionale, dal 24 al 28 aprile 2024.


Anna di Cléves (f. Pamela Raith)



«Caterina d’Aragona, per esempio - spiega Gabriella - è spagnola e cattolica. Per lei una scollatura squadrata e poi il nero e l’oro, riferimenti cromatici imprescindibili, che ci riportano però anche a una star di oggi come Beyoncé. Anna di Clèves, invece, in un famoso dipinto indossa un abito come ampie strisce a zig zag, che ho voluto assolutamente riproporre nel costume. Per Anna Bolena, poi, il girocollo è un elemento fondamentale...». L’infelice seconda consorte, infatti, mandata a morte per decapitazione con un ventaglio di accuse dal tradimento all’incesto, sfoggia l’iniziale del nome proprio sotto la gola, una sorta di medaglione incastonato nello scenografico costume verde smeraldo. L’altra consorte cui Enrico VIII fece mozzare la testa, l’adultera Caterina Howard, porta l’iniziale del nome appesa a un choker intorno al collo, punto sensibile del suo destino. Il costume di Caterina d’Aragona ha avuto invece l’onore della ribalta museale, esposto nelle sale del Victoria&Albert di Londra.


Il lavoro di Gabriella Slade è stato certosino. Prima lo studio delle regine dal punto di vista storico, quindi la loro ritrattistica e l’approfondimento degli elementi del periodo Tudor. A tavolino ha discusso a lungo le caratteristiche dei personaggi con gli autori del musical, Toby Marlow e Lucy Moss, poi con le interpreti. «Così mi sono sentita completamente a mio agio nel disegnare e le artiste a loro agio nell’indossare i costumi». La sfida è stata grande: outfit all’altezza di uno show che stava facendo molto parlare di sé, ma che doveva uscire dall’ambito universitario per approdare al Fringe Festival e poi sui palcoscenici del West End londinese, una delle mecche del musical. «All’inizio avevamo pochissimi soldi, ma lo spettacolo era ambizioso. Dovevamo dare il massimo con la nostra creatività. È stata un’avventura appassionante, il risultato di molto studio, ricerca, prove per cercare di capire se erano abiti con cui si poteva andare in scena ogni sera, se erano confortevoli per le interpreti, banalmente se erano facili da lavare per chi lavora nel backstage». I primi costumi furono in numero ridotto. Oggi sono un elemento chiave dello spettacolo, ogni interprete ha i suoi, e il loro costo è astronomico.

 

Jane Seymour (f. Pamela Raith)

 


A legare la corte di Enrico VIII alla contemporaneità ci sono i materiali: cuio, ecopelle, latex, pvc, paillettes, plastica, vinile, pellicola olografica. Superfici che riflettono e amplificano il gioco di luci, una scarica elettrica proprio come in un concerto rock. E finiture borchiate per tutte le sei mogli del sovrano. «È un riferimento al genere di ornamenti che indossavano i membri delle famiglie reali - spiega la costumista -. Le regine sono sempre ritratte con gioielli magnifici ed elaborati e i loro abiti sono decorati. Ma le borchie danno anche l’idea di un’estetica fresca e dura. Il nero mescolato al colore, e le trame degli abiti, si rifanno poi agli elementi architettonici del tempo, come le vetrate colorate».

 

Caterina d'Aragona (f. Pamela Raith)

 


Gabriella ha definito i suoi costumi “sculture mobili”. Le gonne, le maniche e i bustier hanno un’anima interna, una struttura invisibile agli occhi, che permette, per esempio, di realizzare pieghe molto piccole, simulando la naturalezza di un tessuto convenzionale. E cos’è quella sorta di gancio applicato davanti, all’altezza dei fianchi, negli stessi colori di gonne e shorts? Sembra un accenno di fodero per la spada, invece è il porta-microfono. Gli abbinamenti tra regine sono plurimi: Caterina D’Aragona mescola primedonne come Beyoncé, Jennifer Lopez, Jennifer Hudson, Shakira e Katy Perry; Anna Bolena si ispira a Miley Cyrus, Avril Levigne e Lily Allen; Jane Seymour ad Adele, Sia e Céline Dion; Anna di Cléves all’energia di Nicki Minaj e Rihanna, Catherine Howard a Britney Spears e Ariana Grande; infine l’ultima moglie di Enrico VIII, Catherine Parr, ad Alicia Keys ed Emeli Sandé. «Il risultato? Un look regale - lo ha definito Gabriella Slade - per le ultime regine a dominare il palcoscenico».

martedì 2 aprile 2024

MODA & MODI

 

 Per un quieto vestire

 

Dal “quiet luxury” al “quiet outdoor”. Dal lusso quieto, sostanziato da ottimi materiali, buoni tagli, colori neutri e brand dissimulati, al quieto abbigliamento da gita, con capi pratici e versatili, massimo confort e accessori all’insegna della funzionalità. La primavera della moda non può iniziare senza una nuova definizione, nel tentativo di cogliere quel che c’è nell’aria. In città ci vestiremo come per un’escursione fuori porta. L’anno scorso il tormentone era un altro: dal “normcore”, l’abbigliamento costruito su pochi capi basici, fatti per confondersi e non spiccare con eccessi di individualismo, al più estremo “recessioncore”, come quello adottato per la crisi dei primi Anni dieci del nuovo Millennio, cui oggi si sono aggiunte le guerre alle porte di casa, il cambiamento climatico, gli spostamenti dei popoli.


Basta rileggere i “core” a un anno di distanza e la loro intrinseca transitorietà, e surrealità, ci appaiono lampanti: legittime preoccupazioni sono tirate per i capelli per tentare di giustificare stravaganze che fanno a pugni con la stessa fase storica che vorrebbero spiegare. Davvero l’interpretazione autentica del recession core 2023, dell’armadio della crisi globale, era andare in giro in città senza gonna e pantaloni, con solo un maglione sopra i collant? Oppure circolare in mutande, o con il bordo delle calze trasparenti in uscita libera dalla gonna? Non siamo Kendall Jenner a Los Angeles nè Emma Corrin all’imbarcadero della mostra del cinema di Venezia, rispettivamente (s)vestite Bottega Veneta e Miu Miu, brand che hanno arruolato superbe testimonial per trasferire dalla passerella alla strada lo slip a vista, su corpi splendidi e con sprezzo del ridicolo lautamente pagato.

Ma ridurre all’osso, sottrarre in materiali e dimensioni è l’esatto contrario dell’essere virtuosi e circolari, se il tessuto che resta è sufficiente solo a piazzarci un bel logo a cifre da capogiro. Oltre a scatenare maldestre imitatrici, che infilandosi in shorts anonimi dalle dimensioni della mutanda pensano di entrare in un gruppo di iniziate alle avanguardie della moda.

 

 


 


Ma torniamo al “quiet” da cui siamo partiti. All’aggettivo che non ha bisogno di sostantivi, nè il luxury, il lusso da sussurrare, nè l’outdoor, il capo tecnico da riconvertire in abbigliamento da città. Vestirsi quietamente alla vigilia dell’estate vuol dire bandire gli eccessi, evitare di circolare in costume nel perimetro urbano, di strizzarsi in pantaloncini come pampers di denim, di liberare pance e ombelichi e pretendere di entrare ovunque mezzi nudi con la scusa del diritto a mostrare il corpo, sempre e comunque (che poi è un diritto mai messo in discussione per Kendall, Emma e la stirpe delle Hadid..., mentre nel caso delle comuni mortali espone a un alto rischio di imbarazzo).

Vestirsi quietamente è riscoprire sobrietà, pulizia, misura, consapevolezza dei luoghi, delle ore e delle occasioni in cui ci si mette cosa, senza escludere fantasia, colore, creatività. Quieto non è un aggettivo rinunciatario. È fare ricerca, prima di tutto della grazia perduta. 

lunedì 18 marzo 2024

MODA & MODI

Oscar 2024: di che tendenza sono

le spille da uomo? 


Michael B. Jordan


 Spille di testimonianza e spille gioiello nella notte degli Oscar. Poche le prime, piccoli dischi rossi con la mano arancione e il cuore nero degli Artists4Ceasefire, che chiedono il cessate il fuoco a Gaza, gli aiuti umanitari, la liberazione degli ostaggi. Tante, e preziosissime, le seconde, sulle giacche dei protagonisti maschili. Fiori, animali, soli, bagliori di diamanti e pietre in grado di energizzare la prevedibilità dello smoking di ordinanza per una cerimonia black tie, quando ci vuole ben altro che una gonna a ruota (ricordate Billy Porter nel 2019?) per far alzare un sopracciglio di stupore. È tendenza, si legge ovunque. La spilla, cui le signore preferiscono orecchini e collier per illuminare viso e décolleté, a meno di non fare Windsor di cognome, se indossata da un uomo si scrolla la polvere da portagioie della nonna e caratterizza, personalizza, trasforma, dà un twist al completo da cerimonia, gli ruba i riflettori. 

 

 

Cillian Murphy


 

Robert Downey Jr

 

Eccoli Cillian Murphy, che ha accolto l’Oscar per Oppenheimer con un piccolo disco d’oro appuntato sulla giacca Versace, una raggiera vittoriosa, e Robert Downey Jr, migliore non protagonista per lo stesso film, salito in palcoscenico a celebrare il suo riscatto in abito Saint Laurent impreziosito da un fiore nero con stelo di diamanti, magari un omaggio alla moglie Susan, che l’ha assistito nelle sue discese e risalite. Non manca di coraggio Michael B. Jordan, con due cacatua di diamanti appollaiati sul rever del doppiopetto di Vuitton a reggere un rubino e uno smeraldo, mentre cita indirettamente Karl Lagerfeld, antesignano del genere, l’attore Colman Domingo, col suo sigillo sbrilluccicante al centro del papillon. Flora e fauna hanno offerto molta ispirazione, ma c’è anche chi fa appello al proprio vissuto, non a caso l’attore Teo Yoo di “Past Lives”, confessando che la tartaruga di diamanti dal carapace color ametista è un tributo personale a quella autentica, la sua Momo, venuta a mancare l’anno scorso.

 

Teo Yoo

 


Chi sostiene la tendenza spiega, e non a torto, che le spille sono decorazione pura, non hanno altra funzione che abbellire. Non così i gemelli che reggono i polsini, non le medagliette informative di gruppo sanguigno e segno zodiacale, non gli anelli con sigillo, espressione di appartenenza. Sono oggetti che distinguono e illuminano e consentono di giocare con la fantasia. Anche quando uno scopo pratico ce l’hanno, come nel caso di Simu Liu di “Barbie”, che ha fermato in vita la giacca Fendi, portata a petto nudo, con una broche a linee curve.

 

Mark Ruffalo

 


Ma è tutto oro quel che luccica? Se tendenza c’è, l’hanno creata le griffe della gioielleria, da Cartier a Tiffany, da Boucheron a Verdura, occupando sulle giacche maschili cerimoniosamente noiose un intonso spazio pubblicitario. E anche gli attori da red carpet, già brandizzati da capo a piedi sotto la guida degli stylist, che indossano un’altra sponsorizzazione, più mediatica di un vestito. Testimonial? Meglio che testimonianza, certo più lucroso. A meno di non essere Mark Ruffalo che il disco rosso per fermare il massacro di Gaza l’ha messo proprio sopra la spilla di ispirazione vegetale, come un puntolino esclamativo.

lunedì 4 marzo 2024

MODA & MODI

 Saint Laurent, metto un collant per vestito

 

 


 

Le calze di nylon diventano abiti, top, camicie col fiocco. Quel color brodo da sempre divisivo si declina in diverse sfumature del carne, si nobilita in caramello, ocra, oliva, si estende al blu, cioccolato, nero e avvolge il corpo lasciandolo completamente nudo, esposto. È la collezione Saint Laurent disegnata da Anthony Vaccarello e presentata nei giorni scorsi a Parigi. Lycra unico tessuto per pezzi fragilissimi, a forte rischio dissoluzione, che si incollano sui busti esangui delle modelle e non nascondono nulla. Lo scandalo di un tessuto comune, che tutti hanno nel cassetto, trasformato in consistenza da indossare a qualsiasi ora, elevato a involucro d’alta moda per pezzi mai uguali, che una distrazione può smagliare. Volevo emozionarmi, superare il concetto di stagionalità della moda, vedere fino a che punto la nudità può ancora scioccare, ha detto lo stilista. E il pensiero corre alla collezione Liberation che Yves Saint Laurent creò nel ’71, dirompente con le sue donne dal trucco pesante, alzate sui plateau, in corte pelliccette colorate, abiti dalle scollature profonde e giacche con spalle squadrate, che evocava gli anni bui della guerra e faceva a pezzi l’opulenta rinascita del New Look di Dior. Quella di Yves passò alla storia come la collezione dello scandalo, per le implicazioni non per le rivelazioni.

Ma le donne nude di Vaccarello scandalizzano oggi? La prima fila delle passerelle quasi unanimemente plaude, parla di “virago potentissime, velate di desiderio e fierezza”, di “esplosione di trasparenze” che rivelano corpo e lingerie. Siamo al consueto discorso sull’empowerment, la donna “calzata” scopre il suo corpo come affermazione di sé.


Fuori dal coro Vanessa Friedman, critica di moda del New York Times: “basta tette” ha scritto senza giri di parole, basta mercificare corpi femminili che la cronaca ci rimanda quotidianamente come oggetti. E ha snocciolato tutta la sua insofferenza in numeri: su 48 uscite in passerella da Saint Laurent, solo dodici non mostravano seno e culotte e, di queste dodici, tre erano mini abiti con reggicalze incorporato. Armani si è espresso più o meno nello stesso modo, pur riferendosi a Bianca Censori, compagna del rapper Kanye West, entrata pressoché nuda al ristorante di Cracco: basta pazze in mutande in giro per Milano.


Ma torniamo a Vaccarello e alla sua collezione collant. Una ragazza può davvero, come lui sostiene, avvolgersi intorno al seno un paio di calze trasparenti e replicare con quattro soldi un elaborato top di Saint Laurent? Improbabile. Più credibile che il designer abbia giocato a spingere all’estremo la tendenza allo scoprimento e a scardinare i pregiudizi sull’utilizzo dei materiali, elevando la lycra a chiffon. Resta un dubbio. Ogni volta che in passerella sfilano donne seminude, o per le strade celeb di ogni tipo si aggirano in mutande, qualsiasi accenno di perplessità viene rimandato al mittente: il buon gusto e l’opportunità non c’entrano, è la donna a esercitare l’insindacabile diritto a decidere come e quanto mostrare del suo corpo. Eccoci al punto: è davvero la nudità l’unica unità di misura del nostro potere?