martedì 1 ottobre 2024

IL LIBRO

 

Ilaria Tuti, nel nuovo romanzo storico

la Risiera, il lager di Trieste

 


 

 

Il Castello di Kransberg, il nido dell’Aquila, dove Hitler vive asserragliato in un bunker, terrorizzato e paranoico, dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944. La Risiera di San Sabba, luogo di transito per gli ebrei diretti ai lager e inceneritore di oppositori politici, in un’atroce contabilità di morte governata da Josef Oberhauser, SS-Obersturmführer. Due scenari gravidi di ombre, uno nell’Assia più nera, l’altro nella Trieste occupata dai nazisti, e due personaggi, un padre e una figlia, accomunati dalla scelta della professione medica, che si trovano a indagare su morti avvolte nel mistero.


Lui è il professor Johann Maria Adami, luminare della medicina forense e dei meandri della psiche, prelevato a Dachau da un suo antico allievo, che ha disertato la scienza e abbracciato il Reich, e portato lassù, nel castello-prigione del Führer, per scoprire cos’è successo a un giovane militare precipitato da una torre: suicidio o omicidio? Gesto estremo o mano assassina, potenzialmente letale per lo stesso Hitler?


Lei è Ada, dottoressa dei più poveri, moglie di un partigiano sparito nel nulla dopo l’Armistizio, che intorno alla Risiera scopre una scia di sangue, forse sgorgata dentro le mura dell’antica pileria: chi ha ammazzato due prostitute e brutalmente seviziato Margherita, figlia di una famiglia amica, facoltosa e borghese? Chi non violenta, ma azzanna come una fiera? “La Risiera ha denti. Morde”, le ha detto un vecchio pescatore.

 

La Risiera di San Sabba a Trieste, il lager col forno crematorio, l'unico dell'Europa meridionale (foto Lasorte)

 


Ilaria Tuti, scrittrice best seller di Gemona del Friuli, diventata famosa per la serie con protagonista la commissaria Teresa Battaglia, approdata anche su Rai Uno con grandi ascolti, torna alla sua passione per la storia, mescolandola al noir, altrettanto nelle sue corde. Da oggi, 1 ottobre 2024, è in libreria “Risplendo non brucio” (Longanesi, pagg. 320, euro 22), il romanzo che verrà presentato dall’autrice giovedì 3 ottobre, alle 18, nel Salone del Parlamento del Castello di Udine, in dialogo con la giornalista Martina Delpiccolo, e lunedì 7 ottobre, alle 18.30, al Miela, con il presidente Enzo D’Antona.

 

La scrittrice Ilaria Tuti (foto Paolo Gurisatti)

 


Trieste negli anni dell’occupazione tedesca è al centro di un intreccio complesso, su piani diversi, geografici ed emotivi, dove un Male ancora più profondo di quello scatenato dalla guerra risucchia i protagonisti: il blasonato docente, ischeletrito ma indomito nel difendere un ideale etico, niente svastiche nei luoghi di studio, che l’ha portato dritto a Dachau e al sacrificio degli affetti familiari, e la giovane dottoressa, cresciuta negli stessi valori, ma sopraffatta dalla solitudine e ferita da un padre che ha messo la sua coscienza davanti a tutto, anche al suo sangue.


Separati dai chilometri, li unisce a distanza un'identica sfida, quella che Ada trova negli appunti del padre scampati ai roghi nazisti e che fa sua: calarsi negli abissi dell’assassino. Scandagliare la sua mente, leggere ogni gesto, collegarlo in una strategia, muovendosi in quella zona torbida alimentata al conflitto, dove gli istinti più bestiali si affilano e si scatenano, bene e male si toccano, e la ferocia può colpire con una mano amica o un aiuto arrivare da chi crediamo aguzzino.


Nel nido dell’Aquila Professor Adami trova la soluzione della morte del giovane Haas e confeziona quella che il Führer vuole sentire, prima di mettersi in viaggio verso Berlino e la capitolazione. Nella sua bara di acciaio e cemento al castello di Kransberg non si è accorto dei piccioni viaggiatori che volano sulla sua testa con i messaggi degli Alleati, ormai sempre più vicini, e dei cospiratori che gli alitano sul collo. Non ha visto quell’arazzo dove qualcuno ha sapientemente ricamato nell’alfabeto Morse “Fuck Hitler” proprio sotto il suo naso.


Anche Ada scopre l’identità dell’assassino delle giovani donne, ma prima di vederlo inchiodato da una prova inconfutabile, incisa sulla pelle delle vittime, dovrà affrontare una discesa ancora più spaventosa di quella nelle perversioni del killer: la foiba. “Eravamo sopravvissuti. Lei aveva attraversato l’inferno. Lui lo aveva abitato, ne era risalito ed era tornato per raggiungerla”.
Aprono e chiudono il romanzo il lager di Dachau e il Tribunale di Norimberga, dove padre e figlia, questa volta insieme, guardano negli occhi il Male. In mezzo Trieste, sfregiata dai bombardamenti, e la sua Risiera. I nazisti in fuga hanno fatto saltare in aria il forno crematorio, il Gma ha imbiancato le pareti, inghiottendo nella calce nomi, colpe, testimonianze. Ada si impegna a far conoscere al mondo i crimini commessi dentro quelle mura, ma la gente intorno a lei vuole solo dimenticare e cercare di andare avanti.


Josef Oberhauser, condannato all’ergastolo in contumacia, non viene mai estradato dalla Germania, finendo i suoi giorni a gestire una birreria di Monaco. Nel ricordo di Ada è scolpito così, mentre in Risiera cattura con la lingua i coriandoli di cenere che scendono dall’alto, con un gesto quasi giocoso e infantile, come fossero fiocchi di neve.

MODA & MODI 

 

Lupa, lonza, leone: i vestiti bestiali e l'effetto wow 

 

La collezione di Schiaparelli firmata da Daniel Roseberry

 

Chissà se si è stupefatta la giornalista Rachel Tahjian, critica di moda del Washington Post, guardando sfilare sulla passerella parigina di Schiaparelli una Naomi Campbell con cappotto a pelo lungo e grande testa di lupa sulla spalla sinistra, nell’incarnazione della Cupidigia. Il direttore creativo del brand, Daniel Roseberry, ha detto di aver voluto allontanarsi dalle tecniche che conosce bene e avventurarsi in una sorta di dantesca “selva oscura”, utilizzando - bene precisarlo in tempi di hater - vetroresina e finta pelliccia per dare forma ai tre peccati capitali e alla loro rappresentazione animale. La Superbia? Eccola, è la modella Irina Shark in nero monospalla con enorme testa di leone, mentre a Shalom Harlow è toccato zampettare in abito maculato chiuso al petto da una lonza a fauci aperte, incarnazione della Lussuria.

Il riferimento alla giornalista americana non è casuale. “Davvero la gente ricca si veste in maniera così noiosa”? ha commentato Tahjian dopo la sfilata milanese di Gucci, l’ammiraglia del gruppo del lusso Kering che ha seri problemi di perdite economiche. Troppo scontati gli abiti, i completi, i trench, noiose le minigonne. A suo dire non c’è emozione dietro la tecnica, i capi danno l’idea del fatto a macchina e non a mano, mentre chi ha tanti soldi da permettersi il brand ha diritto di essere stupito da idee originali e anche chi non li ha, i soldi, ha diritto a un po’ di inventiva e a non vedersi rifilare la rifrittura di tendenze già da anni esplorate dalla fast fashion. Bocciato anche Ferragamo: un compitino normale del designer Maximilian Davis che serve solo a spingere le borse (sono loro che si vendono!), sproporzionate rispetto ai capi, onnipresenti, con dettagli incongrui. 

Insomma, sintetizzando i rilievi della giornalista: è ora di farla finita con le serie televisive Succession, White Lotus, Big Little Lies (aggiungerei ora The perfect couple su Netflix) e al prevedibile quiet luxury, il lusso sottotraccia che fa sbadigliare. “Per l’amor del cielo diventa un po’ creativo!” ha scritto Tajian senza giri di parole.
L’esortazione appare brutale, ma solleva una domanda importante: quanto siamo disposti a sacrificare all’effetto “wow” di una collezione?

La moda sta attraversando un momento terribile tra guerre in corso, paura del futuro che frena gli acquisti, mercati asiatici in crisi, chiusure di marchi. I creativi hanno una responsabilità, devono rispondere ai numeri e venire a patti con le richieste degli amministratori delegati, non è il momento di scorrazzare a tutto campo nelle praterie sconfinate dei vestiti folli. Il punto è uno: bisogna conciliare creatività e portabilità, l’eredità di un marchio storico e l’innovazione, idee e mercato, sogno e realtà. Chi acquista, sia il ricchissimo, sia il cliente “aspirazionale”, per cui la borsa è la chiave d’accesso a un mondo che non può permettersi in toto, pretende rispetto. Gucci e Ferragamo hanno proposto collezioni indossabili, solide, credibili. Al “wow” hanno preferito l’equilibrio. Mettersi addosso la lonza, il leone e la lupa sarebbe il vero peccato capitale.