MODA & MODI
J. D. Vance, Carola Rackete, Ilaria Salis
L'estate di barbe e peli al potere
Meno male che è arrivato J.D. Vance, candidato repubblicano alla vicepresidenza degli Usa, a farci dissertare sulla sua barba e, peggio, sul presunto uso della matita nera intorno agli occhi azzurri per infondere solennità alla sua faccia rotonda da ragazzone cresciuto a cibo spazzatura e riscattato dal sogno americano.
La sua autobiografia (da leggere, davvero, e all’inizio molto apprezzata dai liberal, che vedevano nell’autore, di una famiglia marginale immigrata dai Monti Appalachi verso la rust belt, la cintura industriale, e poi laureato a Yale, la prova vivente del successo delle loro battaglie) si intitola Hillbilly Elegy, perché hillbilly, gente di collina, erano chiamati dispregiativamente i poveracci bianchi delle classi rurali, immigrati di origine irlandese o scozzese, privi di istruzione. Bifolchi, insomma, o red neck, colli spellati dal sole, o white trash, spazzatura bianca.
Meno male, appunto, che si è appalesato Vance, con la sua barba disciplinata, perché altrimenti il dibattito estetico-politico-vestimentario dei sonnolenti mesi estivi, tra saldi imperdibili e future tendenze, si sarebbe incagliato sugli scontati outfit delle neofite europarlamentari Ilaria e Carola.
Le statistiche sulle barbe alla Casa Bianca stanno appassionando i giornali: riassumendo, se Trump ce la farà, il numero due del ticket sarà il primo barbuto dal 1893, quando terminò il mandato il presidente Benjamin Harrison. Tutta la galleria dei presidenti dell’Ottocento è popolata di barba e baffi, poi si preferirono candidati che l’elettorato potesse guardare a viso aperto e scoperto.
Tuttavia, l’idea di conquistare gli Stati in bilico con il “proletario“ Vance ha fatto superare a Trump la proverbiale pogonofobia, l’avversione per i peli facciali, che provava anche Silvio Berlusconi, al punto che The Donald si è avventurato a paragonare il suo vice a un giovane Abraham Lincoln. Su matita e forse addirittura kajal il tycoon non si è pronunciato, ma è noto che per se stesso non disdegna la doratura di fondotinta e spray abbronzanti, esattamente come il fondatore di Forza Italia faceva con il make up che gli regalava quel pastoso e omogeneo incarnato da Muppet.
(leggi la recensione a "Elegia americana" su questo blog)
IL LIBRO
Elegia Americana, con J. D. Vance
Di un’altra forma di irsutismo hanno parlato i giornali italiani di area conservatrice, commentando l’immagine della neoeletta in Europa, la tedesca Carola Rackete, immortalata accanto alla collega Salis in scarpe da ginnastica nere, vestito arancione e nessuna preoccupazione per l’esuberanza pilifera dei polpacci.
Carola Rachete, Mimmo Lucano e Ilaria Salis a Strasburgo |
Poco sapido il commento della leghista Susanna Ceccardi, già nota per la campagna elettorale basata sulla comparazione estetica con le avversarie. Quel “pronte per la fashion week” ha scatenato ancora una volta l’indignazione della rete al grido di body shaming, tema sensibilissimo e trasversale. “Quando ci mettiamo un vestito diciamo quel che siamo e gli altri lo capiscono. Vestirsi è scrivere la propria identità sul corpo…” dice il semiologo triestino Ugo Volli.
E Rackete e Salis hanno
interpretato filologicamente. Scarpe da ginnastica, zaino, zeppe di corda e
capi anonimi e quotidiani, sono il messaggio che le due europarlamentari
trasmettono: portiamo avanti le nostre battaglie anche qui, restiamo quel che
siamo e siamo state, nessun compromesso e soprattutto non abbiamo vinto un
jackpot. Ilaria si è spinta oltre, evidenziando una propensione a magliette
semi-crop che le lasciano scoperta solo una fascia lattea di addome, appena
sopra l’ombelico, tra jeans e gonne. La “body hair positivity” per la Gen Z
esprime libertà nei confronti della “norma di genere” che alle donne impone la
depilazione, ha dunque un contenuto politico. La pancia al vento dentro il
Parlamento europeo sortisce l’effetto opposto: toglie alla politica, nel senso
di persona fisica, il contenuto.
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