domenica 26 aprile 2015

L'INTERVISTA

Óscar Martínez: verso l'America aggrappati a una "Bestia"

La Bestia non è un essere vivente, ma è come se lo fosse. Una creatura brutale, insensibile, sempre in movimento, pronta a scrollarsi di dosso, e a maciullare, chi non si tiene stretto alle sue propaggini metalliche. La Bestia è il treno sul cui tetto viaggiano i migranti che, provenienti dai paesi miserabili e violenti del Centro America, attraversano il Messico con la speranza di passare il confine e entrare negli Stati Uniti, alla ricerca di una mejor vida. Una rotta pericolosa, che, tra il 2006 e il 2012, ha inghiottito nel buio settantamila persone, vittime di aggressioni, rapimenti, rapine, stupri, esecuzioni di massa da parte delle organizzazioni criminali che controllano il territorio messicano.


"La Bestia" (John Moore/Getty Images da www.alt.latino)
Óscar Martínez è un giornalista salvadoregno che scrive per “elfaro.net”, primo quotidiano online dell’America Latina. Per otto volte è salito sul tetto della “Bestia”, ha condiviso con i migranti dal Salvador, dal Guatemala, dall’Honduras i pericoli e gli agguati del lungo viaggio attraverso il Messico fino al muro oltre il quale c’è il Norte, il nord, e il sogno americano. Il suo reportage, diventato un bestseller, “La Bestia” (Fazi Editore, pagg. 320, euro 16,00) è il racconto feroce, in presa diretta e con le testimonianze delle vittime, dei pericoli che fronteggiano i migranti ad ogni chilometro: sequestri e violenze mortali da parte di narcotrafficanti e banditi, abusi sessuali, per le donne la “deportazione” nei bordelli in Chiapas. Infine, il rischio di addormentarsi sul tetto della Bestia e di finire massacrati sotto le rotaie.
La tela delle storie confluite in questa inchiesta ricostruisce un sistema criminale che sfrutta la disperazione di migliaia di uomini, riconvertendola in denaro liquido per i cartelli criminali, spesso con la collusione o nell’indifferenza del governo centrale messicano e della polizia. Un’inchiesta che fa luce sulla tratta degli uomini dai paesi dimenticati dell’America centrale, così simile a quella che vediamo sulle nostre coste. Treni e barconi spinti dalla stessa disperazione. Ne parliamo con Óscar Martínez, che a Trieste ha vinto la terza edizione del premio internazionale "Marisa Giorgetti", riservato a personalità e scrittori che si occupano di migrazioni, incontro tra culture, difesa dei diritti umani. Il premio lo riceverà mercoledì 29 aprile, al teatro Miela di Trieste.
Il giornalista salvadoregno Óscar Martínez che scrive per il quotidiano online elfaro.net

Da che cosa scappano i migranti che dall’America centrale attraversano il Messico?
«Principalmente scappano dalla diseguaglianza, da paesi dove molto pochi possiedono moltissimo e troppi hanno molto poco. Scappano da salari minimi che, a El Salvador - dove il dollaro circola dal 2001 - possono essere anche di 118 dollari al mese. Negli anni Ottanta scappavano dalle guerre civili e negli anni Novanta dalla violenza incontrollabile che ne seguì. Oggi scappano dalla guerra tra le bande, Mara Salvatrucha e Barrio 18, che nacquero nel sud della California e i cui membri, migliaia di loro, furono deportati dagli Stati Uniti in paesi ancora in guerra tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta. Nel Salvador, per esempio, circa quattromila componenti di gang deportati in quegli anni sono diventati ora sessantamila. I migranti fuggono da autorità inutili, totalmente avulse dalla vita del sessanta per cento della popolazione della classe media e bassa».
Durante il viaggio, pensava di vivere l’esperienza che ha vissuto o è stata peggiore?
«Molto peggiore. Credevo che avrei incontrato le difficoltà naturali di un viaggio come questo: fame, freddo, stanchezza. Invece mi sono trovato dentro una crisi umanitaria. Viaggiatori che volevano solo attraversare in maniera anonima il Messico, passando per piccoli centri defilati, e sono incappati in organizzazioni criminali, come Los Zetas, che in molti comuni hanno sostituito completamente lo Stato. Ho visto io stesso governi assenti o complici. In molti casi, la polizia messicana municipale e statale è collusa con le bande che controllano il sequesto dei migranti. Dall’altra parte, i governi dei paesi centroamericani non hanno saputo alzare la voce contro la barbarie neppure quando, nell’agosto 2010, sono stati rinvenuti settantadue cadaveri di migranti massacrati da Los Zetas a Tamaulipas, al confine col Texas».
In regioni come La Arrocera è in atto una vera guerra. Le autorità fanno troppo poco?
«La volontà di trovare soluzioni è davvero minima. La Arrocera, nel comune di Huixtla, è un tratto di pochi chilometri. Un governo con tanto potere militare com’è quello messicano potrebbe porre fine facilmente a quello che piccole bande criminali fanno in questa zona: stupri, rapine, assassinii. E tuttavia, nonostante queste barbarità siano documentate dal 1998, continuano a verificarsi. I migranti senza documenti sono vittime comode in Messico: non denunciano, perchè considerano le autorità dei nemici; non si fermano, perchè sono in transito verso altre destinazioni; viaggiano in quella parte del Messico che è lontana dalle metropoli. Sono le vittime migliori.
Davvero i banditi de Los Zetas hanno in mano tutto il territorio?
«Questa gang, il cartello dei “cavernicoli”, dei mafiosi stupidi, in realtà è stata colpita in alcuni Stati che i migranti attraversano. Si sono comportati in maniera troppo sfrontata, hanno abbandonato i cadaveri nelle piazze principali, come a Veracruz, o si sono macchiati di massacri di massa che sono finiti nei titoli di testa dei giornali di tutto il mondo. Il governo non ha potuto far altro che attaccarli. Erano gli invitati goffi della festa, quelli che non sanno comportarsi. Tuttavia, oggi, soprattutto per il rafforzamento delle misure di sicurezza nel sud del Messico, dietro richiesta degli Stati Uniti, i migranti stanno cercando nuove rotte, molte delle quali lontano dal treno. Il Messico migrante si riassesta e con esso l’attività del crimine organizzado. Non andiamo incontro a tempi migliori».


La Bestia è l’unica via di fuga?
«È l’unica via per muoversi in maniera relativamente rapida. Un migrante centroamericano ci mette in media un mese per attraversare il Messico, e questo se utilizza il treno. Viaggiare con i bus significa rischiare di essere catturato nella rete della polizia stradale, e andare a piedi, come si è visto a La Arrocera, è lento e atroce. Il treno, questo animale terribile, è l’opzione migliore per quelli che non possono pagare un trafficante in grado di organizzare un viaggio dal Centro America e con contatti sufficienti con le autorità messicane perchè queste lascino in pace i suoi clienti».
Che reazioni ha suscitato il suo libro in Centro America e in Messico?
«Molto interesse nella classe politica centroamericana e anche tra le autorità di Washington. L’ho presentato davanti ai funzionari di almeno cinque governi. Non so se questo serva o no per cambiare le cose. È il grande dilemma giornalistico: sapere se quello che raccontiamo cambierà qualcosa o se rimarrà solo come una documentazione di quanto siamo stati barbari in un determinato momento».
Le donne sono le vittime più vulnerabili. Qual è la storia che più l’ha sconvolta?
«Quella delle donne dei postriboli del sud, che racconto nel libro, mi ha fatto riflettere a lungo. Le loro vite sciagurate, con così pochi momenti di tregua, mi hanno fatto capire che quello che per alcuni è un inferno, per altri magari è il momento migliore dell’esistenza. Uscendo da quei bordelli mi sono reso conto di quanto stupide possano essere a volte le nostre pene, le pene di chi ha Facebook e una casa con acqua calda, che va al museo, viaggia, si abbronza sulla spiaggia. È ingiusto che il divario sia tanto grande. C’è un abisso tra noi e gli altri».
In che cosa si assomiglia la condizione dei migranti dal Centro America, dall’Africa e dal Medio Oriente?
«Credo che per tutti la barbarie peggiore si verifichi nel viaggio, nel transito, quando i migranti mettono in pratica il loro verbo: migrare. Questi viaggi dimenticati, dove ci sono pochi giornalisti e quelli che arrivano lo fanno solo per un momento e dopo se ne vanno, sono il terreno ideale perchè questi uomini diventino mercanzia: Messico, Marocco, Algeria, Libia, Tunisia. La stampa, la maggior parte dei grandi mezzi di informazione, funziona in Messico come nei paesi europei e negli Stati Uniti: sono turisti dei temi delle migrazioni, sono paracadutisti. Arrivano quando c’è un massacro, quando settecento migranti affogano in mare o quando settantadue sono massacrati da Los Zetas. Dopo se ne vanno e ritorneranno solo al prossimo massacro».

@boria_a

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