Issey Miyake: Making Things alla Fondation Cartier Paris
Issey Miyake dal catalogo della mostra Making Things (Actes Sud) |
Dentro quel grande e lineare contenitore di cristallo che è la Fondation Cartier pour l'art contemporain di Parigi, si muovono gli abiti di Issey Miyake. La mostra, che rimarrà aperta fino al 28 febbraio 1999, si intitola «Making Things» e in questa stessa definizione «in divenire» sta l'essenza e la magia di uno splendido omaggio al creativo di Hiroshima (che detesta essere definito stilista e preferisce chiamarsi «disegnatore di vestiti», come non ama la parola moda e ne ha sempre negato i rapporti col suo lavoro).
Sono abiti che fluttuano, si gonfiano, vibrano, sembrano contrarsi e distendersi, seguendo i mille, imprevedibili percorsi delle pieghe. Perchè è il tessuto plissettato - e le sue infinite soluzioni - la cifra con cui si identifica il lavoro di Miyake (il catalogo è di Actes Sud). La linea «Pleats», mandata per la prima volta in passerella nel 1989, sfonda contemporaneamente sulle strade e nei musei: creazioni geometriche, da sovrapporre l'una all'altra, frutto di una coerenza impassibile di fronte agli stravolgimenti stagionali del costume.
Nel '93 lancia «Pleats Please»: vent'anni di sperimentazione su tessuti e proporzioni si traducono in «indumenti» senza confini geografici o temporali, che modellano il corpo di donne francesi, giapponesi, indiane e italiane, esattamente come i manichini e i supporti metallici delle sale d'arte moderna. Le ragioni di questa universalità si capiscono gironzolando tra le installazioni della mostra parigina, che abbracciano - senza seguire l'ordine temporale - un percorso che va dagli anni Settanta a oggi.
E' difficile racchiudere nella definizione di abiti queste «creazioni» pronte a essere appallottolate in una borsetta, strapazzate dalla centrifuga e indossate senza aver mai sfiorato il ferro da stiro o perso una goccia di colore. «Il design - dice Miyake - ha il potere di destinare i vestiti a tutti, piuttosto che limitarli alla cena di gala di quattro persone».
Su questa ricerca di linee, ormai sideralmente distante dalle imposizioni della sartorialità, al punto da ridurre al minimo bottoni e chiusure, si innestano l'utilizzo delle tecnologie e la sperimentazione di nuovi materiali, che un centinaio di fabbriche nell'isola di Honshu produce in esclusiva per lui.
A questo suo permanente «laboratorio», Issey Miyake ha chiamato a collaborare gli artisti che sente più affini: Irving Penn, Tim Hawkinson, William Forsythe (i primi pezzi di «Pleats» furono creati per lui e i ballerini del Frankfurt Ballet), Yasumasa Morimura, il giapponese che ha inaugurato una speciale serie di «Pleats Please», dove sugli abiti vengono stampate le foto delle opere degli artisti "ospiti" (si chiama appunto «Guest Artist Series»).
Pleats Please: Guest Artist Series |
Issey Miyake secondo Irving Penn |
Infine, il cinese Cai Guo-Qiang che, proprio dentro la Fondation Cartier, ha cosparso di polvere da sparo una serie di abiti bianchi, con l'effetto di farli sembrare avviluppati a un drago.
La mostra è divisa in quattro sezioni: la libertà e il movimento, la relazione tra arte e design, la ricerca sulle materie e i nuovi modi di produzione, l'abito del futuro. E in tutte queste sezioni - come già avvenne per altre due mostre di Miyake, quella ospitata nell'83 al Museum of Modern art di San Francisco e quella dedicatagli nell'ambito della prima Biennale della Moda, a Palazzo Pitti di Firenze - la suggestione è data dal rapporto tra gli abiti e lo spazio che li circonda, uno spazio in cui sembrano allungarsi, creandone a loro volta un prolungamento. Ma non basta. Come ha scritto Irving Penn, «Miyake ha radici profonde nella cultura della sua terra. Nel suo lavoro ci sono ombre di guerrieri, echi mitologici e tracce degli antichi misteri del Giappone: i secoli si fondono l'uno nell'altro».
E' il passato che erompe prepotentemente nel ventesimo secolo, trovando in questi «scampoli» di poliestere, o di bambù, carta, seta e caucciù mescolati insieme, un nuovo foglio su cui lasciare una traccia. Lo stesso accade per gli amici-artisti chiamati a collaborare a «Pleats Please». Miyake offre loro i suoi vestiti come mezzo alternativo per esprimersi.
Le «Guest Artist Series» sono limitate (3 mila capi ciascuna) perchè l'industria riesce a produrne solo 50 pezzi al giorno: la fotografia di ciascuna opera d'arte, ingrandita due volte, viene impressa sul tessuto, quindi lo stampo è tagliato a mano, cucito e plissettato. «Ho tentato di fare vestiti che diano l'impressione di essere sempre esistiti - spiega l'artista - ma che in effetti non lo sono mai stati».
Con Miyake ha lavorato anche Yasumasa Morimura, famoso per i suoi trompe l'oeil e per la reinterpretazione di quadri d'autore. Il loro rapporto ha qualcosa a che fare con quello che legò Tom Wesselman e Yves Saint Laurent e che si tradusse nella collezione dedicata dal couturier francese alla pop art nel 1966.
Yves Saint Laurent omaggia Tom Wesselmann |
Ma Yves Saint Laurent si è sempre avvicinato "sensualmente" alla figura femminile, mentre Miyake la vede come un flessibile e neutrale "strumento" di lavoro, nella tradizione del kimono (che in giapponese suona come l'inglese "garment" e l'italiano "indumento"), tagliato in un unico pezzo da uno scampolo di stoffa di lunghezza e ampiezza standard. E i giapponesi amano descrivere il kimono con le stesse parole che usano per l'acqua: «come le onde sulla sabbia, cancella ogni segno d'età, di sesso o di tempo». Invenzione e sperimentazione sono ugualmente rappresentate nella mostra.
«Sono giapponese - dichiara Issey Miyake - e nel mio Paese abbiamo tradizioni fortissime, che abbracciano tutto delle nostre vite: l'arte, le idee, la natura. Ma siamo anche capaci di utilizzare la tecnologia e le nostre tradizioni insieme, per creare tessuti eccezionali». Nello spazio «laboratorio», nel cuore dell'allestimento, infatti, vengono illustrati i passaggi attraverso cui il pezzo di tessuto originale, appeso al muro, si trasforma nell'«indumento» sul manichino: la materia prima è piegata, laccata, stampata, bruciacchiata, resa croccante o dotata di un'anima metallica, come nella collezione autunno-inverno '98 chiamata «Starbust», dove lamelle di metallo sono appoggiate al plissé e poi impresse a caldo, fino ad «animare» la stoffa trasformandola in una flessibile armatura.
«Non desidero che tutti portino i miei vestiti - confessa Miyake - ma che tutti coloro che hanno voglia di portarli possano farlo naturalmente». In «Just Before», collezione primavera-estate '99, da un'unica matrice circolare di stoffa prendono forma abiti diversissimi, lunghi o corti, simmetrici o destrutturati. La materia prima, e il progetto del suo «manipolatore», pongono tutti i potenziali utilizzatori dell'abito sullo stesso piano. Sarà poi ciascuno di loro a farlo proprio con l'atto finale, quello di indossarlo. Lui Miyake, si ferma un gradino prima. Just Before.
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