sabato 6 ottobre 2018

IL LIBRO

Quell'ingombrante cadavere a Calcutta
che ci spiega anche la Brexit







Un alto funzionario britannico trovato con la gola tagliata dietro un bordello, il corpo mezzo affondato in una fogna, in bocca un biglietto appallottolato, scritto in bengalese: “Non ci saranno altri avvertimenti. Il sangue inglese scorrerà per le strade. Andate via dall’India!”. Comincia come un classico thriller “L’uomo di Calcutta” (Sem, pagg. 348, euro 17), primo romanzo di Abir Mukherjee, commercialista nato a Londra da genitori indiani, cresciuto in Scozia e arrivato alla scrittura per una passione antica e un recente colpo di fortuna: a quindici anni un amico gli presta “Gorki Park" e lo fa innamorare del thriller, nel 2014 vince il concorso per esordienti del Daily Telegraph e il pugno di pagine della sinossi diventa questo libro (il primo tradotto in Italia, mentre in Gran Bretagna sta per uscire il quarto con gli stessi protagonisti), pluripremiato e accolto con entusiasmo dalla critica. 



Abir Mukherjee a Pordenonelegge (foto C. Aglialoro)







Calcutta, 1919. La Città Bianca delle ville imponenti dei commercianti, dei club e degli hotel, e la Città Nera dei miserabili e delle latrine a cielo aperto. Il morto è il sahib Alexander MacAuley, assistente del vicegovernatore del Bengala, faccendiere che vanta amicizie potenti, prima fra tutte il “barone della juta” Buchan, uno degli uomini più ricchi della città. Nella megalopoli assediata dal caldo torrido e dall’umidità, ex capitale di quel British Raj dove 150 mila inglesi, frustrati dalla vita coloniale ma altrettanto convinti della loro superiorità morale, dominano 300 milioni di indiani, la pista sembra obbligata: un omicidio politico, opera dei terroristi che lottano per l’indipendenza dell’India. I fremiti di rivolta già percorrono Calcutta, per questo la capitale è stata spostata a Delhi.

L’ipotesi è semplicistica, è chiaro da subito. Perchè la coppia di investigatori che Mukherjee mette in campo, il capitano Wyndham, giovane veterano inglese della Grande Guerra, e l’indiano Banerjee, soprannominato, a causa del nome impronunciabile dai non nativi, “Surrender not” (non arrenderti), che si è laureato a Cambridge e ha un accento da campo di golf del Surrey, sono allenati a guardare realtà sfaccettate. Il cinico e amareggiato Wyndham, ha accettato l’India per sfuggire ai suoi fantasmi, gli amici morti nelle trincee della Somme, la moglie strappatagli da un’influenza: si stordisce con whisky e oppio, ma il passato lo insegue. Banerjee, intuitivo e solare, ha disertato la carriera amministrativa, affrancandosi dal volere paterno: è un giovane uomo istruito e moderno, che sogna un’India libera, senza sottovalutarne i problemi, ma che il colore della pelle relega tra i sottoposti.


Entrambi, Wyndham e Banerjee, si sentono combattuti nel loro ruolo. Sono in crisi identitaria, non amano le verità confezionate e si divincolano dai condizionamenti dei servizi segreti militari. La loro collaborazione sarà anche una costante ricerca di mediazione, tra caratteri e ruoli, proprio quella che Mukherjee è abituato a compiere tra le sue radici indiane e britanniche ("e non sempre con successo", ha detto nella presentazione a pordenonelegge).


Accanto ai due uomini, una figura femminile interpreta un’altra delle contraddizioni della realtà coloniale. È la bellissima Annie, dal sangue misto, invisa agli inglesi perchè ricorda loro che c’è stato un tempo in cui gli indiani non erano considerati inferiori, e agli indiani perchè ha rinunciato alla purezza della sua razza. Una “meticcia”, o “domiciliata europea”, secondo la definizione british, per dire educatamente che per lei non c’è posto da nessuna parte.


Il giallo, per Mukherjee, è dichiaratamente un meccanismo letterario, che però manovra alla perfezione. Ma quello che gli interessa davvero raccontare è un passato storico per molti inglesi ancora mal digerito, e per gli indiani “romanticizzato” alla luce della figura di Gandhi. Un passato ricco di chiavi per analizzare il presente, che dal sogno dell’impero porta diretto alla Brexit. «Nessun inglese leggerà un libro che parla delle malefatte dei nonni» gli aveva detto il padre, cui il giallo è dedicato. Al contrario, la ricostruzione cattura e, anche se l’autore spesso si sbilancia, il racconto è attraversato da una vena ironica che non lo rende mai pedante o sentenzioso. ”Niente cani e indiani oltre questo punto” c’è scritto sull’imponente ingresso del Bengal club. E Surrender-not, con un sorriso forzato, al capitano Wyndham: «In centocinquant’anni gli inglesi hanno compiuto cose che noi non siamo riusciti a fare in quattromila. Per esempio, insegnare ai cani a leggere i cartelli».

@a_boria

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