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sabato 9 agosto 2014

MODA & MODI
Bianca Maria Gervasio, l'allieva di Mila

La designer Bianca Maria Gervasio

Un dolore confessato e uno inconfessato, almeno pubblicamente. Per Bianca Maria Gervasio, stilista pugliese trentaquattrenne, la vendita all'asta di alcuni capi dell'archivio storico di Mila Schön, il mese scorso a Milano, è stato «un colpo». «Avevamo iniziato a ricostruirlo, l'archivio, a mettere insieme i pezzi per rilanciarlo. Poi sono intervenute altre problematiche aziendali. Ma io ci ho messo tanto cuore...». Il dolore di cui non parla, è averla dovuta abbondonare, la griffe Mila Schön, dopo dieci anni di lavoro, di cui sei alla direzione artistica. Un addio brusco, nel febbraio scorso. Bianca Maria viene sostituita da un "pool" di stilisti internazionali per "riposizionare" il marchio. L'annuncio a sorpresa ha chiuso una storia d'amore con la casa di moda fondata dalla stilista dalmata (e triestina d'adozione), che Bianca Maria, entrataci quasi bambina, ha contribuito a mettere al passo coi tempi. Lei commenta solo: «Non me lo aspettavo».
La sua cappa a scaglie di gomma è stata comprata all'asta da un privato per regalarla a un museo. Che cosa ha provato?
«Sono malinconica, ma anche felice. Malinconica perchè la cappa è legata a ricordi belli, quindi c'è comunque il sorriso. Spero che i sacrifici e le energie positive che ci sono in quella mantella siano conservati al meglio e che vada in buone mani. Ma sono anche felice perchè rappresenta la concretizzazione di un momento molto importante della mia vita. Era stata fatta per la collezione primavera-estate 2009, c'era ancora la signora Schön con noi, che ha visto tutti i disegni. Era la seconda collezione che disegnavo e che la signora seguiva».
Che idea aveva in testa per quel pezzo così particolare?
«Era un modo per rendere in 3D il concetto grafico del quadrato. L'avevo abbinata al "double", il tessuto storico della maison. Dunque un qualcosa di ipercontemporaneo da mettere insieme alla tradizione. Non facile da indossare, certo, ma volevo un segno forte. Ricordo che il tagliatore delle scaglie di gomma non riusciva a capire a che cosa servissero. Poi col ricamatore storico della maison, Pino Grasso, e sua figlia Raffaella, abbiamo studiato insieme come farla. Mi hanno affiancato con la loro proverbiale pazienza e professionalità».

Cappa scenografica di Bianca Maria Gervasio per Mila Schön

Lei ha scelto l'Istituto tecnico di moda a Trani a 14 anni. Ha deciso presto...

«Avevo una gran voglia di esprimermi, ma non sapevo in che modo. Ero molto innamorata dello "stile", dei volumi, delle stampe, dei colori. Mi piaceva Versace e anche Mila Schön degli anni '90. La mia famiglia mi ha accompagnato in questa scelta, ma mia mamma mi ha detto: "dopo però vai a Milano o a Parigi, non ti fermerai a fare la sartina a Trani o a Molfetta, vogliamo vederti crescere". Ho imparato lì la tecnica, è stato fondamentale. Sapevo già che costruire un abito e far emozionare una donna era il mio futuro».
Poi a Milano ci è andata davvero, all'Istituto Marangoni.
«Ho studiato fashion design per quattro anni. A Milano la mente mi si è aperta a trecentosessanta gradi. Arrivavo da Molfetta, un altro mondo. Il modellismo era già dentro di me, ma ho sviluppato le basi del disegno, del colore. La città mi ha dato tanti stimoli: adesso se tornassi a casa saprei creare, allora no. E ho viaggiato tanto, in America, Giappone, Cina, Australia, anche per Mila Schön. Esperienze fondamentali per il lavoro e la ricerca».
È vero che ha cominciato in un atelier di abiti da sposa?
«Sì, infatti adesso sono tornata alle origini, lavoro nella sartoria di cui si serviva quell'atelier del centro di Milano. L'abito da sposa è il primo passo per comprendere come lavorare volumi, tessuti, dettagli alla maniera "couture", che è molto diversa dal prêt-à-porter. È rendere viva e vera un'idea speciale, partendo dal corpo della cliente. L'apoteosi del su misura».
Nel 2003 entra in Mila Schön da stagista.
«Facevo l'assistente delle stiliste che seguivano le licenze per il Giappone. Disegnavo un po' tutto, dalle calzature all'abbigliamento bimba. L'incontro con Mila Schön è stato folgorante. Ero in corridoio, lei è entrata e ha detto: "chi è questa bella ragazza? E che cosa fa?". "Disegno", le ho risposto io. E lei: "Allora disegnami un tailleur". Così, dal suo archivio, ho scelto un modello storico e l'ho un po' modificato. Era rosso corallo scuro. Le è piaciuto e l'ha fatto realizzare dalla sua première».
Che cosa le ha insegnato?
«I dettagli, le sfumature, anche per l'uomo. Io disegnavo lo sportswear per il Giappone e lei mi guidava nell'abbinamento dei colori. Era sempre bella, elegante, scicchissima. E contenta di passare il testimone. Per lei la semplicità era alla base di tutto, perchè la ricchezza sta nella costruzione, nel dettaglio, nel tessuto. Per spiegarmi come "alleggerire" i capi mi diceva: "mangeresti più volentieri una lasagna o un risottino?". Esempio alimentare chiarissimo: la semplicità è la più confortevole e naturale per una donna».
A 27 anni diventa direttore artistico. Non ha avuto paura?
«È stata un'emozione molto forte, ma avevo già anche una mia linea e la responsabilità l'ho sentita in maniera naturale. La signora Schön mi è stata vicino, il primo periodo, e a un certo punto il senso del dovere nel portare avanti un marchio storico è diventato un "peso costruttivo", che mi ha aiutato a creare qualcosa di nuovo, di speciale. Lei mi diceva: "non ti invidio", perchè sapeva che ci vuole tempo per capire le dinamiche legate alla moda come produzione».
Le ha mai parlato di Trieste?
«A me no, ma ho sentito tutte le sue interviste per la sua monografia. Quando ne parlava si vedeva che aveva gli occhi velati di malinconia, sembrava che la costa, il mare, la salsedine le passassero davanti. Era legatissima a Trieste e si evinceva. Credo le sia costato venir via, ci aveva lasciato il cuore».
Lei, Bianca, è venuta a Trieste nel 2009 per la mostra-omaggio...
«Ho un bellissimo ricordo. Abbiamo tirato fuori proprio tutti i capi dall'archivio e in quello spazio enorme e maestoso della Pescheria, sprigionavano una grande energia e raccontavano una bella storia. Ci tenevo a seguire la parte storica, proprio per ricordare la passione della signora».
Tutti le riconoscono di aver "svecchiato" un marchio, rispettandone il cuore. E lei?
«Ho lavorato sulle silhouette per cambiare la vestibilità, che era un po' "vecchia". E poi sui fondamentali della maison: il colore, il ricamo, le stampe, il double. Ho scartabellato 15 mila schizzi, ho rielaborato, per esempio, lo "chevron", il disegno a zig-zag. Al momento non ho capito bene che cosa stavo combinando. Quando sei dentro, la "forza" è quella del marchio, ma io ci ho iniettato una forza nuova, fatta di entusiasmo, di passione, di sacrifici. Adesso che mi sono un po' staccata e ho riguardato abiti e collezioni di dieci anni, sì, me lo riconosco: ho svecchiato Mila Schön. Me l'hanno detto in tanti della moda e ne sono felice».
Progetti?
«Al momento, con una première, lavoro sugli abiti da sposa su misura. Con un'amica che vive a Londra, poi, sto sviluppando una "capsule collection": pochi pezzi di prêt-à-porter fatti con ottimi tessuti, che lanceremo a Londra, se tutto va bene in settembre, per venderli per ora solo on-line».
Perchè si veste sempre di nero?
«Credo che la stilista debba stare un passo indietro e non influenzare la cliente. Ognuno ha una personalità che va rispettata: il mio compito è "accompagnarla" all'eleganza».
Se dovesse disegnare un vestito ispirato a Trieste?
«Blu copiativo, il colore della signora Schön. Se lei aveva pensato a questo un motivo ci sarà stato... Il blu del mare dà una sensazione forte e il vento porta a vederlo in un modo diverso. Sarebbe uno chemisier, con collettino, e pieghe da una spalla fino al fondo. In crêpe de chine, disegno jacquard, blu lucido e opaco, per le onde».
Pensa a una linea col suo nome?
«Mi sto muovendo, ho un'idea precisa. Ma quando c'è di mezzo il proprio nome non bisogna fare cose affrettate. Sarà una linea "couture", molto alta».

Un modello di Bianca Maria Gervasio
twitter@boria_a

mercoledì 23 luglio 2014


MODA & MODI
 Severi di famiglia



Francesca Severi


Sua mamma Maria Grazia Severi iniziò come consulente stilistica e come sarta delle signore della Modena bene, prima di fare il grande salto e fondare l'azienda col suo nome. Erano i primi anni '90, la moda correva. E lei, Francesca, cresciuta nell'atelier di una volta, piccoli templi di tessuti e manualità sublimi, appena conclusa la scuola si trovò tra le mani un privilegio e una sfida: il lavoro solido nell'azienda di famiglia e la necessità di guardare più lontano, di misurarsi con la competizione, di crescere. Così, per non essere da meno della tenace fondatrice (che è tuttora in plancia...) lanciò subito una sua linea, meno couture e più dinamica, per una donna giovane e spigliata. Oggi, a oltre vent'anni di distanza, Francesca Severi ha la responsabilità creativa delle tre linee del brand, la Maria Grazia Severi, ricercata e sartoriale, la seconda, la sua, "22 Maggio... a Firenze", e la Severi Darling, per forme morbide. Un paio di mesi fa, l'ultima apertura, il primo monomarca in Friuli Venezia Giulia, uno "shop in shop" nel centro commerciale di Tavagnacco. Dove Francesca ha tagliato il nastro con spumeggiante esuberanza emiliana.
Lei ha fatto l'Istituto Marangoni, quindi ha deciso presto la sua strada...
«L'aria degli abiti, dalla sartoria, dello stile l'ho respirata fin da bambina. Mia mamma ha cominciato con una realtà piccola, artigianale, e io ho sempre vissuto la creazione di un abito su misura. Facevo i vestiti delle bambole con quei tessuti meravigliosi che si usavano una volta e che oggi sarabbero improponibili per il prezzo. Così, dopo il liceo classico, ho scelto l'Istituto Marangoni, che mi è servito molto come base. Poi sono entrata subito in azienda».
Sua mamma l'ha agevolata o avrebbe preferito un'altra professione?
«Mi ha lasciato libera. La scelta è nata da un interesse comune, da uno scambio. Abbiamo sempre creato insieme, anche se a volte ci troviamo su posizioni diverse e diamo giudizi contrastanti sulle stesse cose. Non sono mai scontri sterili, anzi, così ci vengono le buone idee».
Disegna?
«Certo, sono brava, ma mi porta via troppo tempo. Faccio uno schizzo di base e le nostre assistenti lo completano».
Che difficoltà ha incontrato all'inizio?
«Quelle che incontro tuttora. Devo sempre dimostrare qualcosa in più degli altri. Non bastano mai il tempo, la dedizione, la professionalità. È sempre una fatica doppia. All'inizio andavo per le fiere a cercare gli accessori per rifinire i nostri capi. Poi ho lanciato una mia linea, "22 Maggio" e ho cominciato anche a occuparmi dei servizi fotografici e dell'immagine. Oggi ho la completa supervisione artistica».
Quando è nata la griffe, negli anni '90, andava la moda "povera" dei giapponesi. Voi avete fatto una scelta controcorrente. Coraggio o incoscienza?
«Coraggio, certamente. La nostra donna si è evoluta nel tempo, ma rimanendo sempre molto femminile e con un prodotto artigianale nella costruzione e nella qualità dei materiali. I nostri clienti vogliono il "made in Italy". È vero che il mercato in questo momento chiede prodotti più "puliti", meno ricchi, ma noi ci caratterizziamo sempre per lavorazioni particolari, per esempio nella tintura dei tessuti, o per i ricami. Un mestiere di altissimo valore, che purtroppo sta morendo».
Che donna è la vostra?
«Allegra, colorata, anche con qualche chilo in più, perchè non c'è taglia che tolga la femminilità. Diciamo che fa un lifting senza il medico».
È strano allora che Asia Argento sia la vostra testimonial 2013...
«Lei propone la nostra primavera-estate. Prima aveva un'immagine un po' dark, un po' punk, oggi la maternità l'ha addolcita e raffinata. Diro di più: per l'ultima presentazione, abbiamo scelto Nina Moric, che ci ha dato un ottimo riscontro, anche se naturalmente i nostri abiti sono più "casti" rispetto alla sua immagine. Ci piacciono donne forti, che vogliono rinnovarsi».
Perchè la linea che ha fondato si chiama "22 maggio... a Firenze»?
«In realtà non corrisponde a una data nè a un evento particolare. Vogliamo suscitare curiosità e ci siamo riusciti».
Dagli 11 milioni di fatturato nel 2004 ai 27 milioni del 2011: come si fa a crescere in tempi di crisi?
«Siamo stabili anche quest'anno, per fortuna. Facciamo un prodotto coerente, siamo scrupolosi nelle consegne, diamo un buon servizio ai clienti, diciamo che stiamo loro vicino, quasi una sorta di sostegno morale. È una catena: l'unico modo di salvarsi quando l'economia è un dramma».
Vi siete affermati in Medio ed Estremo Oriente. Che cosa piace del vostro stile?
«Riusciamo a vestire in modo adeguato donne formose, come in genere sono in questi paesi. E poi piacciono i nostri dettagli, la ricercatezza, una moda mai "castigante". Noi simboli come la croce e il teschio non potremmo mai utilizzarli...».
Che colore abbinerebbe a ciascuno dei paesi dove vendete?
«Rosso alla Cina, verde all'Ucraina, turchese alla Russia, fucsia all'Azerbajian, azzurro alla Germania, perchè proviamo a ingentilirla, viola alla Francia».
Lei indossa sempre Maria Grazia Severi o cede a qualche tentazione?
«Cedo, cedo, come tutte le donne. Quando vado a Londra a trovare mia figlia e giro per i mercatini, mi piace comprare qualche capo particolare, che poi magari abbino a uno dei nostri o a una borsa, perchè adesso le produciamo».
Un collega che stima e di cui metterebbe i vestiti.
«Gucci e Fendi. Prima non mi convincevano, ma ora li trovo molto attuali e raffinati».
E chi le piacerebbe vestire col suo marchio?
«Kasia Smutniak. Aveva sposato un italiano, ha scelto di vivere nel nostro paese, è una donna molto bella e la stanno lanciando come nuova icona».
Lei ha tre figli: ci sarà una terza generazione per il brand Severi?
«Mia figlia Maria Vittoria ha 19 anni, Umberto 16 e Lorenzo 10. Maria Vittoria sta studiando a Londra, in un anno intermedio tra il liceo e l'Università, soprattutto business e materie economiche. Le piace il marketing, vorrebbe occuparsi dei nuovi mercati piuttosto che delle collezioni».
Cucina?
«Dolci. Ho vissuto con la nonna, perchè mia mamma lavorava tutto il giorno e, com'è nella tradizione emiliana, ho imparato a fare dolci eccezionali e in poco tempo. Quello che mi riesce meglio è la torta di mele. Ma faccio anche una mia particolare pasta e fagioli, con l'aggiunta di mandorle tostate e funghi porcini. Quando ho invitati, è una garanzia di successo».
Un pregio e un difetto di sua mamma.
«È una donna molto costante e ha una testa eclettica. Il suo difetto è l'impulsività».
E lei?
«Sono molto diretta, mentre a volte tacere è una qualità. Il mio pregio è che non porto rancore, le arrabbiature mi passano presto».
Per lei la donna elegante...
«Lo è anche nei momenti informali, nella quotidianità, quando porta i bambini a scuola. È un dettaglio, una postura. Eleganti si nasce».

twitter@boria_a


Bianco e nero firmato Severi