Murmur, il bambino peloso di Leonor Fini
La copertina del libro "Murmur", tradotto e curato da Corrado Premuda |
Murmur è uno strano bambino, diverso dagli altri. Ha le orecchie piccole e lunghe, le pupille che a mezzogiorno si trasformano in due fessure minuscole, il pelo argentato sulle zampe. È un essere fantastico, figlio di "un padre umano sconosciuto" e della gatta Belinda, un piccolo semi-uomo e semi-felino. Per sottrarsi alle malelingue questi due esseri straordinari si travestono e scappano dal paese in cui vivono. Li ritroveremo in un monastero in riva al mare, dove incrociano animali fantastici e creature magiche. Murmur, stordito e stupito, conosce il sesso, anche con la sua stessa madre ma senza peccato, e viene iniziato alla fantasia e al piacere.
Che autrice si nasconde dietro questi indizi? Quale fantasia aerea mette insieme animali, creature di fiabe e mitologia classica, sogni, sesso, amicizie, in un'ambientazione dove spesso la realtà si confonde con i sogni e l'identità di ciascuno sfuma nel travestimento?
La risposta non è immediata, perchè della triestina Leonor Fini, pittrice, scenografa, designer, costumista, l'attività letteraria è quella meno nota ed esplorata.
Leonor Fini (Buenos Aires 1907, Parigi 1996) in una foto di Richard Overstreet |
Ora, tradotto e curato dallo scrittore Corrado Premuda, esce Murmur. Fiaba per bambini pelosi, primo romanzo della Fini mai proposto in Italia, pubblicato dalle edizioni Arcoiris di Salerno (pagg. 116, euro 10,00, collana "Gli eccentrici"). È lo stesso Premuda, che firma un minuzioso saggio in chiusura del libro, a guidarci nell'analisi dell'opera letteraria di Leonor, inserendola nell'ampio e frastornante contesto dei suoi interessi, nell'intreccio dei suoi rapporti sentimentali e intellettuali.
Gli amati felini, il cambiamento di identità, la fuga, l'assenza del padre, il dialogo costante con la madre, un circolo di interlocutori con cui condividere curiosità, arte, amori, il buen retiro del monastero: tutti questi sono tratti biografici della vita di Leonor che ricorrono in questo romanzo breve, "Mourmour, conte pour enfants velus", uscito per la prima volta nel 1976 con le Editions de la Différence a Parigi e poi, nel 2010, da La Tour Verte, in un'edizione riveduta da Richard Overstreet - che oggi cura l'archivio Fini di Parigi - e Robert de Laroche, tenendo conto delle correzioni della stessa autrice.
Leonor amava scrivere. Lettere, innanzitutto, cui dedicava oltre due ore al giorno, indirizzate alla madre Malvina Braun, al cugino e pittore Oscar de Mejo, marito di Alida Valli, a Elsa Morante, Bobi Bazlen, Federico Fellini, Carlo Levi, al poeta e scrittore André Pieyre de Mandiargues, che fu suo compagno di vita a Parigi tra gli anni Trenta e Quaranta, periodo a cui risalgono molte opere della pittrice rimaste inedite. Leonor inviava all'amante le trascrizioni dei suoi sogni, riportate sulla carta con grande forza drammatica e percorse dalle paure e dalle tensioni legate al periodo del secondo conflitto bellico, poi i suoi poemi e racconti. I due scambiano scritti, si consigliano e si influenzano reciprocamente, al punto che uno dei personaggi di Leonor, il Gatto Mammone, soprannome con cui Mandiargues chiamava l'amica, compare in una celebre raccolta di lui, "Museo nero".
Una delle ultime foto di Leonor Fini |
Mour Mour è un soprannome, come Gatto Mammone, un altro di quelli con cui Mandiargues chiama Lolò. Il monastero dove Belinda e il piccolo uomo-felino trovano riparo è quello di Nonza, in Corsica, il rifugio estivo della pittrice. Come il suo personaggio maschile - in cui si identifica, secondo una soluzione narrativa che adotterà anche in seguito - Leonor non conosce il padre. La fuga del personaggio con la mamma gatta Belinda, è la stessa di quella che Leonor compie precipitosamente insieme alla madre Malvina, da Buenos Aires a Trieste, per sfuggire alla violenza del padre Erminio. Leonor conosce bene anche i travestimenti, quegli abiti maschili in cui Malvina la infila, tagliandole pure i capelli, per sottrarla ai segugi inviati a Trieste dal padre. Murmur ha gli occhi piccoli e verticali, una caratteristica che la pittrice attribuisce a se stessa, quando con le compagne di scuola favoleggia di essere figlia di una donna e di un gatto o di essere una "bambina sostituita", scambiata da una bambinaia per errore.
La fata Lucidor, il diavolo Murko, le fate streghe che vanno a lezione di volo dal diavolo Belfagor e che sperimentano, oltre all'esaltazione del volo, quella dell'orgasmo. "Murmur" è infatti una favola per adulti, per bambini "pelosi" che hanno oltrepassato, o sono in procinto di farlo, il confine tra infanzia e età adulta. Un racconto di iniziazione al piacere tutto pervaso da una sottile tensione sessuale, descritta con accenti allusivi ma potenti, in una dimensione onirica e insieme molto concreta e carnale. «Come per incanto tutto cambiava: l'umido diventava secco, il tenero duro, il piccolo grande, noi diventavamo liquidi e tutto ricominciava».
È questo il fascino della "favola da grandi" di Leonor Fini, il continuo rimando - indistinguibile e inestricabile, a meno di essere condotti per mano, come fa Corrado Premuda nella sua analisi - tra biografia e fantasia, tra sogno e ricordo, tra realtà e immaginazione. Il sesso in una sagrestia, l'inquietudine del proibito, rimanda a un aneddoto dell'infanzia di Leonor, ovvero l'incursione forse nella chiesa di Sant'Antonio Taumaturgo, dove sottrae delle ostie per giocarci. Le perette da clistere della fata Lara l'Ilaria evocano l'aggeggio metallico che Lolò vede nello stanzino dei medicinali nella casa dei nonni, con un misto di fascinazione e di terrore. La canzone dell'agnello tosato, infine, che qualcuno intona accanto a Murmur, è un'intima confidenza che la pittrice fa al lettore sulla sua infanzia, forse essa stessa un sogno o una filastrocca della madre: la violenza del taglio dei capelli e la promessa che un giorno potrà farli ricrescere, quindi riappropriarsi della sua natura femminile e sprigionare la sua personalità artistica.
Parole e colori che lei sente inscindibili: «Rogomelec, L'Oneiropompe, MourMour e altri racconti - dice - testimoniano la mia passione per il potere che le parole hanno di provocare meraviglia, ma soprattutto la mia passione per le immagini».
twitter@boria_a
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