L'ultima volta che vidi mia madre
Una pausa dallo studio per concedersi un gelato, in un pomeriggio assolato di luglio a Mondello, tra lo scritto e l’orale della maturità, quando, come in quell’estate del ’78, tra una prova e l’altra dell’esame, passava un tempo variabile, determinato dall’estrazione di una lettera. Roberto percorre qualche metro della stradina dove si trova la sua casa delle vacanze, gli amici lo lasciano andare avanti, mettono distanza tra lui e loro per concedergli uno spazio di discrezione, perchè seduta sul marciapiede c’è una donna che lo aspetta: sua madre Elena.
Come possiamo sapere quando prenderemo commiato, per sempre, da una persona? Quando sarà l’ultima volta di un contatto, uno sguardo, due parole? Il distacco da suo padre Vittorio, per Roberto adulto, durerà dieci anni, il tempo lungo del dilagare della malattia, da un primo ictus alla morte. Un commiato sempre sul punto di accadere, come il muoversi lento di un treno, quando l’addio si prolunga e alla fine non vedi l’ora che parta per fermare l’altalena dei sentimenti.
Come vanno gli studi? E la data dell’esame?, gli chiede Elena, la madre quarantaduenne che da due anni non vive più in famiglia. Lei si ripara gli occhi dal sole con la mano a paletta, lui sente lo sguardo dei compagni incollato alla schiena, entrambi, per ragioni diverse, bloccati. L’ultima volta. Come poteva saperlo, quel ragazzino che prepara la maturità?
È un’indagine intensa, toccante, quella in cui ci coinvolge Roberto Alajmo, giornalista e scrittore, ne “L’estate del ’78” (Sellerio, pagg. 173, euro 15,00), la ricostruzione di quanto accadde a sua madre prima di quell’inconsapevole congedo a Mondello e, procedendo per indizi, nei tre mesi successivi. I ricordi del bambino, poi dell’adolescente, l’oggi dell’uomo adulto, a sua volta padre di Arturo, le foto di famiglia sulla copertina e nel libro: un racconto così personale, sincero, scoperto che potrebbe sembrare impudico, se l’autore non lo governasse col registro della delicatezza, con tratti di humour un po’ nero.
Roberto Alajmo, giornalista e scrittore |
Estate 1968, alle falde del Monte Gallo, un’escursione con i figli Roberto e Marcello. Vittorio, seduto, cinge col braccio la gamba della moglie Elena, in piedi. Lui guarda altrove, lei non sorride, sembra si siano messi in posa, vicini eppure già divergenti. È lì che comincia la fine di una storia? Di quell’amore che quindici anni prima viaggiava tra Palermo e Casale Monferrato, dove Vittorio era militare, in lettere che restituiscono la tenerezza dei vezzeggiativi - Pilipicca, Pilipicco - delle allusioni al sesso - fare zigt-zigt - l’ansia del ricongiungersi. «Il ritratto di un amore - scrive Roberto - dal quale fa un bell’effetto essere stati concepiti».
Un farmaco, lo Spasmo Oberon, appanna il sorriso di Elena. Lo prende per combattere acuti mal di testa, ma ne diventa schiava. Il barbiturico sarà bandito dal mercato per decreto solo nel 1986, dopo aver popolato le case italiane degli anni Settanta di «madri di famiglia rincoglionite e tossicodipendenti, e nessuno lo sa».
L’effetto che ha sulla giovane donna si fissa nelle immagini. La madre tenera, che gioca con i figli sul letto nelle sere del Rischiatutto, la maestra “alternativa” che segue don Milani, la pittrice con qualche velleità espositiva, indurisce i lineamenti, gli occhi si velano, finirà col mettere parrucche per non tingersi più i capelli. Cominciano le discussioni notturne, le porte sbattute, gli sciacquoni tirati per far scomparire i blister delle pastiglie, che restano in superficie, ostinatamente, come la “psiconevrosi” che le hanno diagnosticato. Ricoveri ogni sei mesi, poi l’elettroshock, in pratica l’equivalente del calcio alla lavatrice rotta: o riparte o si sfascia del tutto.
A sfasciarsi è lei, col matrimonio. Figli affidati al padre, un’annotazione agghiacciante nel diario del più piccolo, Marcello, allora quindicenne: la soddisfazione per la legge che proibisce di comprare farmaci senza ricetta. Elena lascia la casa, ma la dipendenza tracima nel lavoro: prima le assenze prolungate, poi l’abbandono della classe e la furia della direttrice compressa tra le righe dei richiami formali. “Resto ancora perchè Roberto mi vuole e Marcello è un cucciolo”, scrive Elena in un biglietto. E per “resto”, intende al mondo.
Il 31 ottobre 1978, mentre è con la sua ragazza nella casa di Mondello, Roberto è attraversato da una folata, si affloscia. Un altro congedo, l’ennesimo? Pochi giorni dopo sua madre viene ritrovata. Sul comodino un messaggio indecifrabile, pasticciato col rossetto: se è un addio nessuno lo comprende. In una lettera precedente, da aprirsi, secondo le sue istruzioni, solo dopo la sua morte, aveva scritto: “voglio che tutti sappiano CHE HO SCELTO IO IL MOMENTO. È l’ultima verità di pavesiana memoria. Roberto mi capirà”.
A quarant’anni da quel lascito ingombrante, Alajmo dice di non sapere se, nello scrivere, ha trovato la catarsi che cercava. Ma col lettore ha condiviso un racconto familiare indimenticabile e una donna che, in quello stampatello, forse chiedeva di essere ricordata.
@boria_a
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