Cameron e gli inconvenienti della vita
del dolore, dell'amore
Non c’è nessuno come Peter Cameron per prenderti per mano e accompagnarti dentro il dolore delle coppie. Quello che non traspare, non urla o si straccia le vesti, ma che cresce sotto traccia, come un cancro, mordendoti e intaccando le viscere nel silenzio, nell’apparente normalità del quadro clinico, fino a sconvolgerlo, senza opzione di tornare indietro.
Sono “Gli inconvenienti della vita” (Adelphi, pagg, 122, euro 16,00), l’ultimo, luminoso libro di Cameron, composto da due racconti in apparenza agli antipodi, la storia di altrettante relazioni dove un dramma mai espresso fino in fondo all’altro, una sofferenza sedimentata, che ha impastato ogni momento della vita in comune, a un certo momento per un caso, un accidente, un inconveniente appunto, deflagra e trascina via ogni consuetudine e ogni possibilità di aggrapparvisi ancora.
Stefano e Theo vivono insieme a New York, quartiere chic di Tribeca, l’uno avvocato di grido, l’altro scrittore che ha perso ogni creatività dopo un incidente in cui, ubriaco ma senza esserne direttamente causa, ha spezzato una vita. Anche la sua è rimasta intrappolata in quel momento, congelata più che dalle cicatrici fisiche, da un’apatia psicologica, da un malessere da cui non riesce e non vuole risollevarsi, inconsciamente incolpando il compagno di ogni cedimento nel recupero. E basta il pranzo con un’amica, l’allucinazione davanti a un’insalata, in cui le acciughe improvvisamente appaiono agitarsi nella ciotola come mosse da vita propria («le avevano sbattute lì sopra tutte ingarbugliate come in un’orgia...»), basta un’offerta di aiuto maldigerita, perché tutto il magma del dolore irrisolto torni a galla e diventi “La fine della mia vita a New York”, come s’intitola il racconto, la fine di un rapporto, di un progetto insieme.
Quella del magnifico e straziante “Dopo l’inondazione” è un’altra coppia, i Bird, vecchi coniugi di una cittadina della provincia americana, quartieri indistinguibili, arroventati dal sole, e distributori alla Edward Hopper. Una coppia (e anche loro sembrano un quadro di Hopper, i due anziani di “In the sunlight”) la cui spenta esistenza si trascina sopra la tragedia della morte violenta di una figlia e una nipotina. La vita di entrambi scorre piatta, assuefatta: la chiesa alla domenica col vestito buono, le foto sopra il caminetto, una camera sempre chiusa, i letti separati, il tran tran immutabile che perimetra il passato, gli impedisce di tracimare sradicando ogni appiglio.
In the sunlight di Edward Hopper |
Quando una famiglia di sfollati, gli Escobedo - padre, madre e una bambina dell’età giusta per giocare con le Barbie e le case delle bambole sepolte dietro quella porta chiusa - entra temporaneamente in casa dei Bird, si rompe l’equilibrio del silenzio, lo scheletro fragile di un nucleo devastato al suo interno. Nella tragedia privata si fanno largo degli estranei, i tre ospiti, il reverendo donna che ha trovato loro l’alloggio, e ogni scudo domestico, ogni alibi, si frantuma. Il cambio di una camera, la televisione accesa, le visite improvvise della religiosa, le sue domande, l’irrompere della vita “vera”, con tutti i suoi inconvenienti, intacca quella sofferenza asettica e riservata. È lei che racconta: «È molto difficile sapere da dove cominciare perchè, si sa, ogni cosa è collegata all’altra, come quelle farfalle in Messico che battendo le ali scatenano un uragano in Cina, ma dopo averci pensato un po’ ho deciso di cominciare da quando gli Escobedo sono venuti a stare da noi...».
Cameron ci guida dentro la cucina, in salotto, nello scantinato, come prima aveva fatto nelle stanze del lussuoso appartamento di Tribeca, nel bagno dove Theo si stende a terra per trovare sollievo. Indugia sugli oggetti e sulle abitudini, ci accompagna a guardare il sole che tramonta sul New Jersey e fa sembrare New York “clemente”, indirizza il nostro sguardo attraverso la zanzariera della porta d’ingresso della casa dei Bird, che non scherma gli intrusi. Scoperchia ogni oggetto e ogni luogo dell’intimità, con parole asciutte, contate. Non descrive mai la sofferenza, la depressione, il tormento, ma li porta in superficie man mano che la lettura procede, come un esito necessario e ineludibile. Alla fine chiude la porta e lascia i suoi personaggi, e noi, a guardare in faccia la loro solitudine.
@boria_a
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