IL LIBRO
Natalia Ginzburg
e la poesia di Biagio Marin
Un amore lungo una vita
Una giovane Natalia Ginzburg, studentessa al liceo Alfieri di Torino, scoprì un giorno nelle sale di lettura della biblioteca “Pro cultura femminile”, un saggio critico su un poeta che scriveva in dialetto gradese. “Cò vampa la tò cavelada/ e un bel rie la boca te imbianca/ l’anima mia se spalanca/ co’ l’ali de la tò riada”.
Natalia, che da adolescente scriveva furiosamente poesie, non si riconosceva nel piemontese, ne sapeva poche parole e lo sentiva estraneo, perchè in famiglia si parlava un lessico diverso, fatto di altri dialetti mescolati all’italiano. Quei versi di Biagio Marin, invece, la conquistarono subito. Li imparò a memoria, li ripeteva per la strada e girò tutti i librai di Torino alla ricerca delle raccolte che il saggio - anni dopo scoprirà firmato da Silvio Benco - menzionava: “Fiuri de tapo” e “Cansone picole”.
Le raccolte erano introvabili a Torino e Natalia, senza pensare di scrivere all’editore o all’autore, visse questa ricerca vana come una privazione. «Mi sembrò tristissimo di non essere nata a Grado e di non poter scrivere in dialetto gradese. Mi parve a un tratto di capire cosa io volevo raggiungere e dove era la poesia vera. Quando dicevo “Cò vampa la tò cavelada” sentivo ogni volta un sussulto forte e profondo di felice emozione».
Queste parole sono tratte da un articolo firmato da Natalia Ginzburg sulla Stampa nell’ottobre 1970 - circa quarant’anni dopo la scoperta casuale di Marin - e incluso nella terza raccolta di testi non narrativi dell’autrice, “Vita immaginaria”, che ora esce per Einaudi a quarantasette anni dalla prima pubblicazione di Mondadori. «Con l’animo di un poeta fallito - scrive Ginzburg sul quotidiano torinese - leggevo quelle riviste e mi struggevo di tristezza e di invidia; e mi sembrava di guardare il mondo da una perduta provincia».
Nell’estate precedente l’articolo, era uscita per Einaudi “La vita xe fiama”, raccolta di poesie di Marin composte tra il ’63 e il ’69, curata da Claudio Magris e con prefazione di Pier Paolo Pasolini. Natalia sfogliò il libro e ritrovò un filo mai interrotto. Le strade di Torino e i luoghi della giovinezza, le sale di lettura della “Pro cultura”, i desideri e le tristezze di quella ragazza che consumava il tempo a buttar giù versi piuttosto che a studiare, erano ormai lontanissimi. «A volte - confessa nell’articolo - mi riusciva difficile riconoscere me stessa nella persona immemore e inaridita che subiva strane vicende e se ne andava per città ignote. Riconoscevo me stessa quando le parole antiche e amate “Cò vampa la tò cavelada” riaffioravano al mio ricordo».
Un giorno, a Roma, Natalia Ginzburg si era imbattuta ne “I canti dell’isola” di Marin, nell’edizione del ’51 di Del Bianco di Udine. Si era avvicinata a quel volume con sospetto, con la paura segreta di una delusione, e aveva permesso che qualcuno glielo portasse via. Ma in quell’estate del ’70, sfogliando “La vita xe fiama”, tutto si ricompose: i versi in dialetto gradese le erano rimasti dentro «senza intristire nè morire», come un bene inesauribile.
Ancora una volta Natalia battè i librai di Roma cercando i volumi precedenti al ’63 e non ne trovò nessuno, pur scoprendo che Marin era famosissimo. Poi prese carta e penna e gli mandò una lettera presso l’editore che condividevano, Einaudi. Il poeta le rispose, le chiese perchè avesse aspettato tanto a dirgli che amava la sua poesia, perchè gli scrivesse solo ora che «era moribondo». E si lamentò che credeva di avere pochi lettori, non più di venti, con lei ventuno.
«La poesia di Biagio Marin - scrive ancora Ginzburg nel pezzo sulla Stampa - è una poesia immobile: come è nata, così è oggi. È modulata e melodiosa, fatta di poche cose e pochissime parole che ritornano sempre: nuvole, sabbia, conchiglie, stagioni felici, gabbiani e ragazze. I colloqui con i cari perduti; l’attesa della morte insieme amara e serena; i vincoli con la propria terra, confusi di collera, ironia e testarda tenerezza; L’addio al figlio: “Tu avevi ventiquattro anni/ el cuor come un zardin...”».
Biagio Marin fece mandare a Natalia Ginzburg una raccolta quasi completa della sua opera, stampata dalla Cassa di Risparmio di Trieste. E la scrittrice vi ritrovò un frammento del mare, citato nel saggio di Benco, che invano aveva cercato fino allora: “Anche el mar el me par ingrisinio/ elo elo ch’el xè cussí grando/ elo elo ch’el ze como Dio/ adesso el se oscura tremando”. Destinato, come gli altri imparati da ragazzina, a farle compagnia per tutta la vita.
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