MODA & TRADIZIONE
"Scarpetti" contro le friulane tarocche
Furlane o friulane? Nessuna delle due. Si chiameranno di nuovo “scarpetti”, le pantofole carniche che fanno la loro comparsa ufficiale in un atto di dote di Prato Carnico del 1826, oggi conservato all’Archivio di Stato di Udine, ma che di certo venivano usate già nel Cinquecento. Saranno “scarpetti” 2.0, oggi al centro di un progetto di recupero culturale e imprenditoriale guidato dal Museo delle arti popolari “Michele Gortani” di Tolmezzo, sostenuto dalla Regione Friuli Venezia Giulia, dall’Erpac e da altri partner istituzionali, industriali e formativi.
“Scarpetti” diventa un marchio registrato, da settembre anche europeo, per garantire un puntuale e rigoroso processo di lavorazione, con un logo moderno che ricorda l’impuntura antica della suola. Il Museo curerà l’avvio di un primo corso a numero chiuso per insegnare la tecnica di confezione, puntando a recuperare un pezzo di storia sociale e culturale della Carnia e farne un’occasione imprenditoriale.
Diventare di moda ha snaturato le “friulane”, che spesso hanno cambiato livrea: a pois, a righe, animalier. Vampirizzate dall’industria, che le sforna in Estremo Oriente in molti colori e scarsa qualità, o trasformate in calzatura glamour, griffatissima, avvistata ai piedi di Kate Moss e, prima ancora, di Tom Ford, hanno perso qualsiasi legame con l’originale. Manualità, materiali, tecnica, ore di lavoro sono stati sacrificati al prodotto di massa, ubiquo e a basso costo. Qualcuno le ha definite addirittura “veneziane”, scambiando per lagunare la pantofola che i gondolieri dei primi del ’900 importarono dalla Carnia, dove venivano ad approvvigionarsi di legno, conquistati dalla suola antiscivolo, che non graffiava l’imbarcazione. Le indossavano tutti, dai bambini agli anziani, per il lavoro o il giorno di festa, per la quotidianità e la cerimonia, i ceti più umili e le classi agiate. Di panno o velluto, semplici o più o meno riccamente ricamati, gli “scarpets” indicavano l’appartenenza a una classe sociale, a una comunità, a una famiglia.
Da qui è partita la ricerca di Monica Peron per il Museo di Tolmezzo, che ha ricostruito, scavando negli archivi e raccogliendo testimonianze orali, le prime segnalazioni nei documenti e le tecniche di fattura delle calzature. Esempio di riciclo ante litteram, si cominciava a confezionare gli scarpetti da pezze di stoffa recuperate, abiti dismessi e lenzuola, e sistemate una sopra l’altra - ce ne potevano essere anche trenta - che poi venivano pressate col ferro da stiro scaldato con le braci fino a raggiungere uno spessore di circa due centimetri.
Gli stampi per la suola e la tomaia erano ritagliati su carta da macelleria o da negozio, sui fogli dei libretti utilizzati in latteria per la registrazione del latte. Erano una sorta di patrimonio familiare, non si cedevano volentieri.
Dopo una prima imbastitura per tener ferme le pezze, le donne ci mettevano sopra lo stampo, segnavano la forma, quindi con il filo di canapa, passato nella cera d’api per renderlo scorrevole, trapuntavano il bordo della suola. L’operazione poteva durare una giornata intera. Per la tomaia, collocavano sulla sagoma stoffe diverse, le ritagliavano e cucivano insieme, quindi applicavano tutt’intorno un bordino di stoffa resistente ricavato dalle lenzuola di canapa. Assemblaggio delle due parti, rinforzi su punta e tallone, fascette per le pantofole dei bambini, ricami di stelle alpine, genzianelle, viole, ciclamini: per un paio di “scarpets” servivano anche quaranta ore di lavoro.
Il progetto “Scarpetti. I scarpéts de Cjargne” è stato presentato il 14 giugno al Museo Gortani di Tolmezzo, dalla presidente Aurelia Bubisutti e dagli altri partner dell’iniziativa, con interventi video degli assessori regionali Alessia Rosolen, Mario Anzil, Barbara Zilli. Ottanta ore di formazione curate dall’Enaip per venti studenti selezionati, serviranno da fine settembre a insegnare il confezionamento delle pantofole e a farne una futura impresa per l’economia del territorio.
“Scarpetti” è diventato anche un film documentario di Paolo Comuzzi in cui, attraverso le parole di otto donne che ancora li confezionano, si ripercorre una storia antica di sapienza manuale, artigianalità, tradizioni e territorio.
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