MODA & MODI
Tomoko Tokuda e il tempo da indossare
Tomoko Tokuda, jewels designer |
Tutti i suoi gioielli ruotano intorno a un unico pezzo, sempre lo stesso, purchè vecchio, rotto e abbandonato: l'orologio. Tomoko Tokuda, designer giapponese e italiana per elezione, da sette anni, da quando cioè, a Milano, dove vive, ha fondato il marchio col suo nome, batte mercatini e rigattieri per accaparrarsi la materia prima delle sue creazioni, gli orologi non più in grado di segnare le ore. Li smonta e ne salva ogni pezzo e ingranaggio per poi restituire loro una nuova vita trasformandoli in collane, orecchini, bracciali, spille. Pezzi aerei e poetici, che imprigionano il tempo passato e ne guadagnano un altro, con un'altra funzione ma sempre a contatto col corpo e con la vita.
Finalista nel 2010 per gli accessori a ITS Nine di Trieste, ha lasciato un segno negli archivi del concorso come una delle creative più raffinate, in grado di convincere un pubblico internazionale, come ha dimostrato ancora una volta appena pochi giorni fa al "Fuori Salone" di Milano. «Trieste mi è rimasta nel cuore - racconta - con quell'odore di mare che mi ha invaso appena scesa dal treno».
Ricorda qualcosa della sua vita in Giappone?
«Solo flash, immagini isolate. Sono nata vicino a Tokio, ma la mia famiglia si è trasferita subito a Saitama. A quattro anni siamo venuti a Milano per il lavoro di mio padre, che era direttore della filiale di un'azienda di occhiali giapponese. Del mio paese ricordo un asilo pieno di bambini e una festa con i fuochi d'artificio».
Dopo le medie in Francia e poi ancora in Italia. Pensa che questo girovagare abbia influenzato il suo attaccamento a oggetti che sono un po' immutabili, ovunque?
«Veramente mi è sempre piaciuto lavorare con le mani e andare per i mercatini con mia madre. A Milano ho frequentato una scuola media giapponese, che mi ha aiutato molto a imparare la mia lingua, difficilissima. Vivendo in un contesto italiano, altrimenti non ce l'avrei fatta. In Francia ho studiato in un liceo giapponese, con ragazzi di famiglie che pensavano di ritornare in Giappone. È lì che ho cominciato a pensare di diventare designer. Dopo la laurea in storia dell'arte all'Università di Grenoble, avevo le idee chiare: volevo disegnare vestiti. Così mi sono trasferita a Parigi per studiare moda e poi di nuovo a Milano, all'istituto Carlo Secoli, per imparare la tecnica del modellismo. Più che il girovagare, però, la mia passione ha a che fare con la manualità, con l'amore per l'oggetto in sè. E ho preso qualcosa da tutti i paesi dove ho vissuto».
Come è arrivata agli orologi?
«È stata una sfida. Da piccola non riuscivo a leggere l'ora, a casa nostra c'era un grande orologio con i numeri romani che per me era un mistero. Mia madre me la chiedeva continuamente, perchè imparassi a interpretare le lancette. Così, un po' alla volta, mi sono resa conto che mi piaceva il concetto del tempo».
Gli orologi recuperati in forma di gioiello da Tomoko Tokuda |
E un giorno si è trovata davanti a una scatola...
«Finita la scuola ho cominciato a lavorare come disegnatrice di abiti per una ditta italiana. Lì ho imparato a ricamare e ho scoperto che amavo utilizzare pietrine e paillettes. Già allora avevo tentato di applicare agli abiti gli ingranaggi degli orologi, purtroppo però macchiavano il tessuto. Un giorno, su una bancarella, ho visto una scatola che nessuno guardava, piena di polvere e di orologi rotti. Sono rimasta scioccata: erano talmente belli che non capivo come potessero essere finiti lì. Li ho comprati tutti, mi sembravano gioielli. Mia madre mi guardava stupefatta. Così ho fatto un ciondolo e un paio di orecchini per me e per regalare agli amici. Tutti mi dicevano: che idea bellissima. Ma a me non sembrava originale, piuttosto naturale».
Un oggetto piuttosto difficile da reinterpretare...
«Sono facili da lavorare: limo il retro del quadrante e ci applico il supporto principale per collane e orecchini. Il difficile è trovarne di uguali per fare una collezione. Io però, a forza di accumulare orologi, sono riuscita lo stesso a mettere insieme una serie. Utilizzo solo orologi rotti, che non hanno più un ruolo. Li smonto e non butto nessun pezzo. I più pesanti diventano ciondoli, quelli microscopici orecchini».
Non ha paura di essere ripetitiva?
«All'inizio sì. Avevo clienti soprattutto giapponesi, che a un certo punto mi hanno chiesto di cambiare, di usare oro e argento, di fare altre linee. Loro vogliono grandi quantità e ricambio rapido. Ho rifiutato e li ho persi, ma non sono pentita. È giusto accettare le richieste, ma non completamente. Io voglio continuare con i miei orologi, che sono tutti pezzi unici. Per otto anni ho fatto almeno due collezioni l'anno, con sessanta modelli uno diverso dall'altro».
Che cosa pensa davanti a un nuovo quadrante?
«Prima di tutto lo tocco, ne sento il peso, analizzo il colore. Bevo un caffè e lo studio con cura, senza fretta. So che devo utilizzarlo nel modo più adatto. Questo processo può durare un paio di giorni o un anno. Io non disegno, creo dal vivo. Quindi una volta fatto il buco, non posso tornare indietro. È come lavorare in 3D».
C'è qualcosa di orientale nel suo lavoro?
«Forse la precisione. Faccio buchi sui quadranti grandi un millimetro. Qualcuno mi dice che le mie forme ondulate sono molto francesi, ma io non mi sento francese. I miei amici giapponesi mi ripetono: non hai nulla di giapponese. Gli italiani: sei proprio giapponese. Guardo il mio passaporto e mi convinco di essere giapponese. Ma mi sento italiana e mi fa piacere».
I suoi pezzi sono sempre asimmetrici...
«Esattamente come il corpo umano. Ho cominciato con mono-orecchini, uno grande e uno piccolo. Anche nelle collane mi diverto con pesi diversi. La nostra asimmetria è una qualità, perchè non giocarci?».
Prima o poi questi orologi rotti si esauriranno...
«Per ora non ci penso. Temo di aver già fatto fuori tutti i mercatini dellaLombardia, ma ho un fornitore ufficiale che batte la Francia e la Svizzera... Davvero, non so quanto ho speso in questi anni. Prima gli orologi me li facevano pagare cinquanta centesimi, poi hanno visto il mio lavoro e siamo passati dai tre ai dieci euro a pezzo. Ma non importa: per me sono preziosi».
Come organizza la vendita?
«Lavoro direttamente con i negozianti. Mi piace conoscerli, conoscere chi compra i miei pezzi e aiutare la vendita. Dall'anno scorso lo faccio anch'io in prima persona, così arrivo al pubblico finale. Il target è vario, diciamo dai 25 anni in su».
Che cosa le ha portato "Its Nine"?
«All'epoca avevo già il mio lavoro e, quando l'esperienza è finita, sono tornata a quello. Ho avuto alcuni articoli sulle riviste e un contatto con Alessandra Facchinetti, che poi però non è proseguito. Preferisco lavorare da sola. Faccio tutto da me, anche fatture e spedizioni. Non voglio ingrandirmi, non mi concentrerei più sulla creatività. A Its ho imparato qualcosa su di me e sul mio lavoro: ecco, questa è stata la mia vittoria».
C'è un pezzo che non venderebbe mai?
«Una collana che indosso sempre, a tutti gli eventi. A Trieste l'avevo presentata appoggiata sulla sabbia. Ci ho messo due mesi a farla. Mi porta fortuna, ma soprattutto mi dà una grande serenità».
twitter@boria_a
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