IL LIBRO
L'Ilirjana, ossessione di un uomo vigliacco (blandamente)
Un ricco commerciante di mobili vecchi, aggiustati quel tanto da sembrare antichi a chi non se ne intende troppo. Un matrimonio intorpidito, ma che regge bene la facciata, e molti tradimenti senza coinvolgimento. Una bella casa a Padova e un paio di collaboratori fidati che battono il Cadore a caccia di pezzi da camuffare in chicche da antiquario. La disonestà di chi evade serenamente e mantiene la coscienza tranquilla in un Nordest florido e marcio, dove i soldi in prestito si chiedono alla camorra.
«Non sapevo di essere un vigliacco» dice di sè Giorgio Schuff, il protagonista di “Tutto il resto è provvisorio”, nuovo romanzo del genetisca e scrittore Guido Barbujani (Bompiani). Soldi facili, pochi scrupoli, una moglie elegante che contribuisce all’immagine della ditta familiare, un lasciarsi vivere senza assilli di coscienza. Ma Giorgio è in carcere quando il lungo monologo comincia. E le prime parole del suo racconto tradiscono altro, che forse di sè non sapeva: un’inquietudine, una «smania di mollare tutto, mettermi in viaggio, cambiare vita».
Lei è Ilirjana, anzi l’Ilirjana, con l’articolo che marca insieme una confidenza e un’estraneità, perché così la chiama Giorgio, rivolgendosi, da dietro le sbarre, a un ascoltatore sconosciuto. Kosovara, una famiglia massacrata dagli odi religiosi nei Balcani, violoncellista, li dividono quasi vent’anni, ma quando la ragazza irrompe nella sua vita, Giorgio sente che quell’irrequietezza sottotraccia ha trovato uno scopo. Chiude il matrimonio e abbandona ogni inerzia (il «non fare, non agire, lasciare che le cose vadano per conto loro»), negli affari e nei rapporti umani. Sente un’ansia sconosciuta di voltare pagina, di agganciare la sua vita a una cremagliera che lo porti in un posto sicuro, come il tram di Opicina che, da bambino a Trieste, vedeva attaccare all’ingranaggio dal balcone della casa della nonna.
Ilirjana è alta e ossuta, con le caviglie sottili. Al primo incontro sembra intimidita, ma stringe la mano come un maschio. È tenera e sbrigativa, appassionata e sfuggente. Il cervo e il cacciatore, lei stessa lascia il dubbio. Ha in sè ogni suo contrario, l’allegria breve e un abisso sconosciuto di dolore.
Dopo quattro mesi, la storia, per lei, è già finita: un congedo secco, poi un viaggio all’estero, il telefono che resta muto e mail sempre più asciutte e definitive. Iljriana esce di scena, improvvisa e devastante com’era entrata, ma proprio quando ogni sua traccia è scomparsa, quando anche il contatto virtuale si perde, ecco che la sua presenza si accampa nella mente di Giorgio e da lì si riverbera ovunque. Tutto quello che l’uomo farà e diventerà dopo l’Ilirjana, è determinato da lei. E a lei continua a tornare, come un cane nel posto dove riceveva il cibo.
Ci sono occasioni che tagliano in due una vita qualsiasi, e trasformano ogni abitudine del passato in un peso da cui liberarsi, per abbracciare il rischio dell’ignoto, dell’incontro con l’altro, a costo di pagarne il prezzo per sempre. «D’improvviso si è aperto nella penombra della stanza, nella penombra delle nostre diverse solitudini, un varco, un passaggio per un altro posto più piccolo, ma nostro: una tana accogliente per due». Dietro le sbarre Ilirjana è diventata ossessione, il fine pena mai.
E mentre fluisce il monologo, come una voce fuori campo che parla soprattutto a se stessa e a volte, quasi un piccolo soprassalto, torna a rivolgersi allo sconosciuto che ascolta, a richiamarlo su un dettaglio, su uno snodo della vicenda, si susseguono le tappe della fuga circolare di Giorgio, che lo riporta là dove tutto è cominciato: la materia inconsistente che avvolge il lago di Bled, l’altopiano di Asiago e la vertigine dei sentieri scavati nella roccia durante la grande guerra, la parentesi milanese, con la desolazione del parco Trotter, dove le badanti spingono le carrozzine dei disabili tra erbacce e cacche di cane. E poi Trieste, e la meraviglia intatta del bambino che, tornando con i genitori a trovare i nonni, dal finestrino dell’auto aspetta con trepidazione lo spalancarsi del golfo invaso dalla luce fino all’Istria e la voce del padre, che sempre nello stesso punto, invariabilmente dice: “Ah, qua ti si apre il cuore”.
E lì, proprio in quel punto in mezzo al petto, dove c’è il cuore, a tanti anni di distanza, Giorgio sente intatto quel qualcosa, il mistero della manovra che faceva il macchinista vestito di antracite, quello scarto che ti aggancia a un altro binario. E fa sentire provvisorio tutto quello che c’era prima. —
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