sabato 23 marzo 2019

IL LIBRO

Claudia Durastanti: da Brooklyn alla Basilicata, la lingua dell'amore non è fatta di segni 





Una famiglia in movimento, da New York alla Basilicata e viceversa. Una coppia di genitori sordi, che trascina su due continenti un matrimonio passionale, disordinato e deragliato, fino al precoce divorzio. Una bambina al centro di questa storia familiare da generazioni divisa tra due mondi, sempre geograficamente e linguisticamente estranea agli altri intorno a sè: nella classe del paesino lucano, dove viene inserita al rientro dagli States, per quel suo italiano strambo (“stiro da ferro”), lo smalto fucsia e le Reebok con le lucette; a Brooklyn, dove torna d’estate in vacanza, per l’amore per i libri al posto dell’attitudine a sballarsi negli scantinati.

Con “La straniera” (pagg. 285, euro 18), Claudia Durastanti è una dei due autori, insieme al triestino Mauro Covacich, che La Nave di Teseo ha in corsa nella rosa dei dodici semifinalisti al Premio Strega. Memoir, romanzo, album di istantanee, profondamente autobiografico e insieme letterario, il libro restituisce il ritratto intenso e turbolento di una famiglia seguendone gli atavici spostamenti, a partire dalla quella bisnonna materna che da San Martino d’Agri, nel Potentino, s’imbarcò per l’Argentina, convolò a nozze con un connazionale in Ohio e poi, fatti i soldi, ritornò a casa, iniziando un andirivieni che da allora si è inciso nel dna della progenie. Fino a Claudia, che in mezzo a queste traiettorie, in questa “cartina topografica” di luoghi e accadimenti che è la biografia familiare, racconta la sua formazione fragile ma vitale, sempre estranea e ubiqua, con la costanza di riaffondare le radici altrove, oggi a Londra, dove vive e lavora.


“Straniera” la bisnonna materna. E anche la nonna paterna, che per l’ultimo figlio, nato sordo, si trasferì da Monteleone di Spoleto a Roma, dimenticandosi di essere stata una sarta capace per diventare portinaia, ma conservando del passato la precisione del linguaggio nel definire i colori: diceva fiordaliso, pervinca, testa di moro, mai generici azzurri e marroni, anche se tingere nella vasca le aveva strappato una figlia.


“Straniera” è il personaggio centrale, la madre della scrittrice, a cui la meningite presa da bambina lasciò uno strascico di sordità parziale e la paura che qualcuno le arrivasse alle spalle. Mai volle utilizzare con gli udenti la lingua dei segni, così teatrale e visibile, per non condannarsi al primo sguardo a una condizione di disabilità, e mai volle che i suoi figli la imparassero. Si consumava gli occhi a leggere le labbra degli altri, contenta di essere scambiata per un’immigrata sgrammaticata piuttosto che una sorda. Crebbe nei convitti romani, o affidata a estranei, dopo che la famiglia l’aveva lasciata in Italia per assicurarle un’educazione, imparando presto a scappare dai molestatori che pensavano non sapesse gridare.





I genitori di Durastanti danno versioni diverse sul loro primo incontro - ognuno sostiene di aver salvato la vita l’altro - e si sposano durante un viaggio in America. «Non l’ho mai amato - diceva lei - ma sono stata la sua unica amica. L’amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti. C’è il sesso, l’intimità, ma non quel bisogno. La somiglianza viene prima di tutto». Molti anni dopo, Claudia accompagnò la madre a comprare un vestito a Londra per una cerimonia in cui ci sarebbe stato l’ex marito: voleva farsi bella per lui, era il loro modo di “comunicare”.


L’amore e la comunicazione, l’uno che si nutre dell’altra. Il linguaggio, i suoi adattamenti e le sue trasformazioni, nei luoghi e nel tempo. L’invenzione di un codice per parlare con fratelli e figli. È il tema centrale e più affascinante del romanzo, il filo rosso che attraversa le storie familiari e i destini, dalle nonne all’autrice, che con le parole lavora, come traduttrice e giornalista. È la rivendicazione di indipendenza di sua madre, con la sua voce alta e gli accenti irregolari, il personaggio più potente.


L’autrice, quel linguaggio, l’ha riempito nel tempo di cinema, di musica, di letture. L’ha rimodellato seguendo altre direzioni e amori, dove amarsi è sempre inventare un codice privato. Sua madre, ormai senza interlocutori, dimentica aggettivi, sbaglia coniugazioni, e l’affetto impone di rallentare, di ripetere, in uno sforzo anche fisico di transitare continuamente da un universo linguistico a un altro, perchè il divario non si allarghi. Ma dentro di sè la figlia conserva sgrammaticature ed errori, continua a dire “stiro da ferro” come quando i maestri usavano la matita rossa, perchè quella lingua materna rimane il territorio delle possibilità, della libertà.

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