MODA & MODI
Busti e canottiere, estetica sottosopra
Bustini, canotte. Capi ripescati da un passato più o meno recente, riportati in auge nei periodici ricorsi della moda, che oggi ritroviamo trasformati, irriconoscibili nel loro significato e funzione. Manifesti di messaggi politici e sociali. Il bustier è l’esempio più evidente di questa rivoluzione apparsa sulle passerelle, ma resa virale dai protagonisti del mondo dello spettacolo che sul palcoscenico o nelle bacheche social stravolgono alcuni codici dell’abbigliamento per scrivere una loro estetica.
Da strumento di compressione e di condizionamento a manifesto di liberazione. Non potrebbe essere più estrema la parabola del busto, sui Måneskin tornato a riappropriarsi dell’originaria natura di capo per entrambi i sessi. Nei secoli è stato sinonimo di contenzione del corpo femminile, indispensabile per disegnare quella linea a S che strizzava la vita, enfatizzava i fianchi e spingeva in alto il seno, responsabile di non poche malattie e limitazioni nei movimenti, quindi strumento di controllo sul corpo femminile.
Oggi il bustino, in materiali morbidi, si porta sui vestiti, sulle camicie, sotto le giacche. Lo propongono le griffe ma anche le grandi catene di abbigliamento low-cost come pezzo ludico, quasi un accessorio divertente e del tutto immemore del suo pesante passato. Damiano dei Måneskin ne ha fatto un manifesto potente della moda che scavalca i generi sessuali. Da capo restrittivo e costrittivo, a capo fluido.
E la canotta? Anch’essa si porta dietro un immaginario importante. L’indumento degli immigrati italiani in America, che toglievano la camicia per non sudare sotto il sole ed essere costretti a frequenti lavaggi. Nel cinema, su Marlon Brando in “Un tram che si chiama desiderio”, 1951, a connotare rozzezza e brutalità. Con i vari Kevin Bacon, Bruce Willis, Nicholas Cage ha vestito, in anni più recenti, personaggi sempre trasgressivi, sensuali ma violenti.
Nella politica è sinonimo di tamarraggine: Craxi fu inchiodato in un congresso a Bari nel ‘91, ventun anni dopo toccò a Bossi, con quella canottiera grossolana che parlò al suo popolo più di qualsiasi comizio. Oggi la canotta sfila in passerella, naturalmente griffatissima. Ha perso qualsiasi connotazione di indumento intimo, è di cotone, di pelle o tessuti tecnici, si indossa su gonne lunghissime, jeans o pantaloni ampi, sotto il tailleur. Non più capo maschile, non più biancheria, spogliato di riferimenti, è un altro pezzo da mettere nell’ideale guardaroba intercambiabile tra i sessi.
C’è infine una t-shirt in questa primavera che continua nel segno della guerra. Ne abbiamo tutti nel cassetto, moltiplicate dai lockdown, la ritroviamo rieditata dalla forza degli eventi. Niente a che fare con quella che, nel 2007 su Berlusconi, scatenò un pigro dibattito sull’opportunità di mostrare il collo rugoso. La t-shirt verde militare, divisa del presidente ucraino Zelensky, lancia un messaggio di vicinanza, appartenenza, resistenza. Un leader nella maglietta della salute che non perde ruolo o autorevolezza davanti agli interlocutori di tutto il mondo, anzi, li spinge all’emulazione come nel caso della presidente del Parlamento europeo, Metsola. Un pezzo di cotone trasformato in un’arma comunicativa, una strategia al pari di quella bellica. Non c’è bisogno di slogan, di scritte, la nuda t-shirt non può essere più solo un pezzo di sotto.
Nessun commento:
Posta un commento