L'INTERVISTA
Jader Tolja: "Stiletto, cravatte, pantaloni a vita bassa
così ci facciamo tiranneggiare dalla moda"
A tutte è capitato di soffrire arrampicate su uno stiletto o strizzate in un abito. La moda tiranneggia anche chi dice di snobbarla e spesso circostanze, ruoli, occasioni sociali pretendono capi e accessori in cui non ci sentiamo a nostro agio. Su un tacco sbagliato rischiamo l’equilibrio mentale oltre che quello fisico, con un punto vita compresso mettiamo sotto stress una quantità impensabile di tessuti, liquidi, connessioni interne al corpo. Perchè allora non rovesciare il nostro rapporto con quello che ci mettiamo addosso e ripensare la moda dal punto di vista del corpo, liberandoci dalla schiavitù di adattarci a vestiti “astratti”? Si chiama “body conscious design” ed è una sfida, per chi compra e per chi crea. Lo spiegano in un godibilissimo volume “Corpo Moda Mente” (pagg. 319, euro 25, 90, Edizioni Il Punto d’Incontro), con disegni, citazioni, aneddoti, testimonianze e un poderoso impianto scientifico, il medico, psicoterapeuta e ricercatore triestino Jader Tolja, direttore del Body Conscius Design Lab al Politecnico di Bratislava e l’olandese Nelleke Don, consulente, ricercatrice, esperta di anatomia esperienziale. Perfino quella che può sembrare un’aberrazione solo dal punto di vista estetico, i pantaloni a vita bassa che lasciano scoperto il sedere, ha un effetto devastante sulla postur, simile a quella di un cane con la coda tra le gambe.
Jader Tolia, medico, psicoterapeuta, ricercatore triestino
Dottor Tolja, la salute del corpo e l’equilibrio psichico rispondono alle nostre scelte in termini di vestiti e accessori. Come funziona? «Si pensa ai vestiti come a un fatto estetico, ma non è così. Oggi, che stiamo recuperando il nostro sentire anche grazie alla conoscenza esperienziale dell’anatomia offertaci da tecniche come l’osteopatia, la terapia craniosacrale e le pratiche corporee di ascolto interiore, siamo in grado di cogliere a un livello diverso l’effetto delle nostre scelte in termini di abbigliamento. Una scarpa, per esempio, non cambia solo la forma del piede, ma cambia l’intero corpo, perché il nostro organismo è una tensostruttura dove tutto è collegato con tutto. Un reggiseno non si limita a ‘reggere’, ma condiziona il nostro respiro e ciò che succede nel cosiddetto interstizio, quel complesso mondo di fluidi che scorrono sotto pelle scoperto di recente. E il nostro mondo psichico non è un’attività localizzata nella testa, ma si radica nella nostra biologia e ne riflette con precisione le condizioni e i cambiamenti».
La parte iniziale del libro è dedicata ai piedi. Senza arrivare al modello “Armadillo” di McQueen che nessuna modella voleva indossare o alle zeppe di Vivienne Westwood, da cui Naomi Campbell precipitò in passerella, è vero che anche il mezzo tacco ha delle conseguenze negative? «Non lo sostengo io, ma la risonanza magnetica fatta sui polpacci di 80 donne che lo portano abitualmente. Uno studio inglese ha dimostrato che le loro fibre muscolari sono più corte del 13%. Ma non è questo il problema più serio, perché usando abitualmente il mezzo tacco la pelvi, che sarebbe naturalmente inclinata in avanti del 25%, si inclina invece del 45%. E in questo modo tutti gli organi contenuti nell’addome scivolano in avanti, il sangue e gli altri fluidi non circolano come dovrebbero e i nervi che partono dalle vertebre lombari hanno meno spazio. Ciò fa sì che anche se non ci sono sintomi, gli organi dell’apparato riproduttivo e di quello digestivo si trovino comunque in sofferenza».
Alexander McQueen, 2010, e l'iconica scarpa "Armadillo"
Dunque siamo condannate alle scarpe piatte. «Potremmo dire ‘autorizzate’, dal momento che mentre in realtà nessuno ci obbliga a usare scarpe piatte, in molte occasioni di lavoro o mondane ci si aspetta invece di vedere gli uomini con le cosiddette scarpe all’inglese – un modo ‘elegante’ per dire che i piedi devono stare confinati in forme di cuoio rigide con almeno tre centimetri di spessore in più sotto la suola del tallone – e le donne su rialzi ancora più alti e sottili, col peso spostato quasi tutto sull’avampiede e le dita affastellate l’una sull’altra. Come dice la giovane imprenditrice dell’aneddoto che apre il libro: “Altrimenti non ho alcuna chance”».
Naomi Campbell cade sulla passerella di Vivienne Westwood, 1993
Simbolo della “consapevolezza corporea” sarebbe la scarpa a cinque dita del designer ed escursionista Robert Fliri. Un po’ difficile andarci in giro… Non c’è una via di mezzo? «L’arrivo di una scarpa del genere, disegnata nel pieno rispetto della nostra realtà anatomica – una scarpa nella quale i piedi sono liberi come se fossero scalzi e protetti come con indosso le scarpe – ha reso evidente che la quasi totalità delle calzature ignora completamente tale realtà. Le scarpe tradizionali nascono infatti da astrazioni mentali e per seguirle dobbiamo deformare i nostri piedi e compromettere la nostra stabilità fisica e psichica. Questo non sarebbe necessario se tenessimo conto di alcuni principi chiave: avere spazio per le dita, così da non essere costretti a deviarle o accartocciarle per stiparle in una sorta di imbuto; avere la stessa altezza davanti e dietro, in modo che i muscoli del polpaccio non si accorcino cronicamente; e una suola sufficientemente flessibile da permettere alle 33 articolazioni del piede di fare il movimento per cui sono state progettate. Una suola spessa e rigida ingessa il piede».
La scarpa a cinque dita ideata da Robert Fliri
Cravatta sì, cravatta no? Karl Lagerfeld che la portava con un colletto alto e rigido si castigava da solo? «Le scelte che facciamo in termini di abbigliamento, come in questo caso, mettono in luce ciò che succede a livello sociale e/o personale. La mancanza di integrazione tra vita affettiva e vita sessuale, ad esempio, si manifesta a livello di abbigliamento col bisogno di rimarcare la separazione tra petto e pelvi usando colori e materiali diversi, o vestiti e cinture che segnano la vita. Analogamente se in una società non c’è coerenza tra il sentire e il pensare, gli individui preferiranno usare colletti rigidi e cravatte che separino fisicamente e simbolicamente la testa dal corpo».
Arriviamo al punto: il body conscious design. Cos’è? «È un approccio al design che tiene conto dell’effetto che il design ha sul corpo e della reazione del nostro sistema nervoso. Ogni scelta di design – fashion, industrial, interior, architectural, urban, landscape – ci modifica agendo su di noi fisicamente, come una scarpa che devia l’allineamento delle dita del nostro piede o un divano che ci fa ‘incassare’ quando ci sediamo, e anche a livello neurologico, come nel caso del graphic design, che può entrare in conflitto o in sinergia col funzionamento del nostro sistema nervoso. Per il libro, ad esempio, abbiamo elaborato una grafica che risulti più neuroergonomica possibile. Un libro ben disegnato, come un edificio ben costruito, é in grado di dare orientamento, perché quando sappiamo dove siamo ci rassereniamo e ci rilassiamo; ha un buon ritmo e respiro, e ci porta a leggere, comprendere e ricordare spontaneamente, senza che si debba prendere la decisione di farlo».
Pleats Please, Issey Miyake, 1993
C’è qualche stilista che potrebbe essere definito body conscious? Forse Issey Miyake, quando parla di spazio tra il corpo e l’abito per lasciar vivere lo spirito? «Gli stilisti sono ispirati principalmente da due forme di percezione: quella visiva e/o quella propriocettiva, cioè basata sulle sensazioni che si provano all’interno del corpo. Ecco, Miyake è un buon esempio di stilista body conscious perché la sua estetica non nasce dalla mente, ma dal perseguire un certo stato fisico di respiro. Lui lo fa dando spazio tra corpo e vestito, un altro stilista potrebbe invece rivelare la sua consapevolezza del corpo con abiti che ne fasciano sapientemente le forme. Tuttavia gli artisti – e quindi anche gli stilisti – quando sono visivi sono più riconoscibili, perché in certa misura tendono a rimanere uguali a se stessi, mentre quelli propriocettivi sono talmente al servizio della singola persona o del personaggio che poi è più difficile identificarli».
Ma così non si rischia di fare alla fine abiti tristanzuoli e poco attraenti? «Lo stesso discorso potrebbe valere per l’architettura: fare edifici stabili e funzionali, che stanno in piedi e in cui gli scarichi rispettano le leggi di gravità, non rischia di penalizzare la creatività degli architetti? No, semmai succede il contrario. Perché è solo dall’incontro coi limiti che la creatività si esalta. Il dover rispettare le leggi di natura per far stare in piedi gli edifici ha contribuito per secoli a garantire un certo standard di bellezza. Il cemento armato, che con il suo arrivo ha ‘emancipato’ dalle leggi di natura, non ha creato più bellezza, ma meno».
Lei dice di non aver mai avuto interesse per il mondo della moda: dopo aver scritto questo libro ha cambiato idea? «Sì. All’inizio sono stato motivato a occuparmene solo perché ne constatavo, di persona e nella professione, gli effetti sui nostri corpi e le nostre menti. Lavorare al libro è stata così l’occasione che mi ha fatto apprezzare di quanta sensibilità, abilità ed esperienza sia in realtà intriso questo mondo. Mi é pertanto diventato sempre più chiaro che la moda, così come può penalizzare il nostro essere, altrettanto può diventare uno dei suoi più preziosi alleati. In fondo questo è proprio questo che faceva Anita Pittoni. Non usava i vestiti per omologare le persone o per trasformarle in veicoli della propria creatività, ma l’esatto opposto: combinava la sua creatività con quello che chiamava il proprio “famelico ideale di sincerità” per far emergere gli aspetti più individuali e autentici della persona. In questo senso andrebbe considerata la prima vera stilista postcopernicana».
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