IL FESTIVAL E LA MODA
Sanremo, dalle bolle all'utero
Su quel palco è salito di tutto
Orietta Berti e Massimo Ranieri, Sanremo 1969
Correva l’anno 1969, lo shaming era di là da venire, e l’abito sfoggiato sul palco dell’Ariston da Orietta Berti per cantare “Quando l’amore diventa poesia” con Massimo Ranieri, venne definito “uno svincolo autostradale”. La tivù in bianco e nero impastava l’esplosivo mix di righe bianche, gialle e nere, ricoperte di paillettes, all’epoca attribuito dai giornali alla mano “della sarta del paese”. Righe su curve: Alighiero Noschese ci rise sopra a lungo.
Ma l’Orietta nazionale aveva visto lontano. Il vestito era griffatissimo dalla dalmata Mila Schön, couturière delle milanesi chic già sbarcata al Festival l’anno prima con Milva, ed è entrato nella galleria degli outfit iconici della kermesse. Orietta l’ha rieditato in lattice e con piume e cappello, nella serata cover del 2022 in collegamento dall’ammiraglia Costa Toscana insieme a Fabio Rovazzi.
Da almeno dieci anni sarte e sarti – allora si chiamavano così – erano entrati nella competizione e contendevano alle canzoni l’attenzione dei giornali. Le prime furono le Sorelle Fontana che a fine anni Cinquanta – sulla scorta del successo dell’abito da sposa confezionato per Linda Christian nel matrimonio mediatico con Tyrone Power del ’49 – aprono nella città dei fiori un loro atelier per i cantanti: nel ’58 vestono la presentatrice Fulvia Colombo, nel ’66 Gigliola Cinquetti conquista il suo secondo Sanremo insieme a Modugno con “Dio, come ti amo” in una bianca creazione di Zoe. “Ma che freddo fa” canta una quindicenne Nada nel ’69, in microabito con maniche ricoperte di margherite e stivali total white: minigonna da educanda e candore adolescenziale, che ha il piglio leggero della Swinging London.
Sanremo è una vetrina, i cambi d’abito sono diventati d’obbligo. Lontano quel 1951 quando Nilla Pizzi aveva affrontato tutte e tre le serate di un festival mignon nel Salone delle feste del Casinò municipale imbustata nello stesso modello di pizzo, fino alla vittoria con “Grazie dei fior”. Nel 1961 una giovane Mina si copre di bolle blu su chiffon bianco, ma per lei è un’edizione sfortunata. A far parlare i giornali sono piuttosto gli uomini: Celentano che dà il lato B al pubblico, Gino Paoli senza smoking e la cravatta slacciata, Umberto Bindi con quell’anello al mignolo che, ai tempi, fa tanto outing e gli costa anni di ostracismo dalla tv dei mezzibusti. “Me ne frego” canta Achille Lauro nel 2020, in tutina trasparente dorata firmata Gucci, una seconda pelle sopra i tatuaggi. Giovanni Truppi sdogana la canotta per cinque sere (ma la cambia) nel 2022, l’anno dopo se la mettono Ultimo, Leo Gassmann e Mengoni la porta alla vittoria, sigillato in un pezzo vintage di Versace. In mezzo, un campionario di pettorali e addominali in libertà con sopra geografie di tatuaggi, gioia per gli occhi e per i punti al Fantasanremo.
Moda a Sanremo come discrezione, poi promozione, infine performance. Dalle sarte agli stylist.
Achille Lauro, Sanremo 2020
Leo Gassmann, Sanremo 2023
E la provocazione? “Senza pietà” è quella di Anna Oxa nel 1999, il perizoma a vista appeso al bacino, un’idea di Tom Ford per Gucci. È il primo underwear che diventa outwear sul palco nazional-popolare per eccellenza e farà scorrere fiumi di inchiostro sul tasso erotico e bla bla, mentre del tutto inavvertita passa la mutanda argentata di Madame, all’edizione 2023, sotto la vestaglietta trasparente di Off-white. Ci si confrontò invece molto nel 2004, e non sugli ascolti a picco, ma sulle spalline e i ganci del reggiseno della conduttrice Simona Ventura, intenzionalmente lasciati uscire dagli abiti-bustier di Dolce&Gabbana.
Sciatteria? Stonatura? Mentre l’Italia festivaliera si interrogava, fu bocciato senza appello il finto pancione di Loredana Bertè, fasciato di pelle nera e grintosamente esibito sul palco nell’86, su disegno del costumista Luca Sabatelli: lei dirà anni dopo che voleva scardinare il pregiudizio della gravidanza come malattia, ma l’intenzione naufragò in un mare di polemiche.
Di donne guerriere non solo madri, diritto a procreazione assistita e aborto, ha discettato l’anno scorso anche Chiara Ferragni, con un busto dorato modellato sul seno e un utero-gioiello appeso al collo, made in Schiaparelli. Quasi quarant’anni prima l’energia del ballo di Loredana tracimava dal piccolo schermo e il messaggio in anticipo sui tempi arrivava come un pugno, nel festival che ha fatto ascendere al palco l’influencer, anno quarto dell’era Ama, è un fervorino algido e autopromozionale. Da postare, e spiegare, su Instagram.
E il 2024? Mentre la pattuglia degli stylist crea la suspense sui propri assistiti (che “core” indosserà?), una sola certezza: ci priveremo del quiet luxury di Sinner.
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