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lunedì 2 dicembre 2019

LA MOSTRA

Dress code: righe, quadri fiori
per il Museo della Moda di Gorizia





Le marsine settecentesche nel nuovo allestimento del Museo della Moda di Gorizia (foto Gianluca Baronchelli)


Righe, quadri, fiori. C’è un dress code suggerito agli ospiti per la riapertura del Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia, che il 3 dicembre 2019 festeggia vent’anni con un riallestimento della collezione e una mostra temporanea. Un gioiello che custodisce novemila pezzi, tra abiti, accessori e monili dell’area mitteleuropea, abbracciando Gorizia, Trieste, Vienna per spingersi fino a Praga, rappresentata da una serie di corsetti a suo tempo acquistati in un negozio triestino e facenti parte della collezione Verchi, cuore dell’intero patrimonio.

Quello di Gorizia è uno dei pochi musei della moda in Italia, accanto al veneziano palazzo Mocenigo, dedicato al ’700, e alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze. Non a caso a festeggiare l’anniversario, oggi ci sarà una nutrita rappresentanza della famiglia Missoni, mentre lo stilista artista Roberto Capucci arriverà nei prossimi giorni: a entrambi, Capucci e il caleidoscopico Ottavio, il Museo di Gorizia ha dedicato, nel 2004 e nel 2006, due grandi mostre firmate da Raffaella Sgubin.


Sarà lei, che nel luglio 2000, a pochi mesi dall’apertura del Museo, avvenuta il 3 dicembre 1999, ne divenne responsabile, per ricoprire la carica fino a oggi in qualità di direttrice del Servizio Ricerca, Musei e Archivi Storici dell’Erpac, a fare gli onori di casa a Borgo Castello. «L’ho visto nascere e oggi lo riapro» dice con orgoglio, ricordando come, vent’anni fa, l’allora direttrice dei Musei goriziani, Maria Masau Dan, poi assessore alla cultura della Provincia, abbracciò con entusiasmo l’idea di creare un Museo della moda. Nacque in pochissimo tempo, con vecchi allestimenti disponibili e intorno a un nucleo già presente, una raccolta di oltre settecento campioncini della produzione della seta a Gorizia e nel circondario, donati al museo agli inizi del Novecento dalla famiglia di Lodovico Seculin, commerciante di mercerie. Oltre allo splendido torcitoio circolare da seta del XVIII secolo, acquisito nel 1913, il più antico pervenuto: veniva azionato da una persona che, al suo interno, camminava all’indietro, appoggiata a un sedile verticale, mentre con le mani libere eseguiva un secondo lavoro, magari quello del sarto.





«È stata Maria Masau Dan - racconta Sgubin - a gettare le basi del Museo, con tre acquisti strategici compiuti negli anni Ottanta. Nell’85 i gioielli della chiesa di Sant’Ignazio, circa duecento pezzi tra spille, orecchini, bracciali donati dai fedeli come ex voto. Poi, nell’87, tre abiti straordinari comprati da un privato goriziano: due femminili e una marsina di fine ’700. Infine, nel ’92, il colpo da maestro: l’acquisto della prima tranche della collezione Verchi. Masau Dan, con intelligenza e sensibilità, ne intuì il potenziale. Si tratta di migliaia di capi, tra abiti e accessori, dal ’700 alla prima guerra mondiale. Questo - prosegue Sgubin - è stato il punto di non ritorno per la costruzione delle collezioni dei Musei goriziani. Da allora il tessile è diventato centrale». Nel ’93 una mostra, intitolata “Il filo lucente”, raccontava duecento anni di produzione della seta e del mercato della moda a Gorizia, dal 1725 al 1915. Le premesse per la nascita del Museo c’erano tutte.








Righe, quadri, fiori. Il riallestimento delle collezioni segue lo stesso filo conduttore. La sezione tessile, con i campioni di tessuto e i macchinari, dove un’installazione multimediale consente al visitatore di cimentarsi nel design, poi la parte centrale, con gli abiti a tessuti rigati e quadrettati, dal ’700 agli inizi del ’900, incorniciati da un’altra installazione multimediale basata su figurini, che conduce il pubblico in un viaggio nella storia del costume, di ieri e di oggi. Perchè la moda non inventa nulla. Prova ne sia una delle superbe scarpine che vedremo enfatizzate dal video, con calzetto incorporato e bottoncini laterali, che fa parte di una recente acquisizione: un raccolta di dieci paia di calzature dell’800, di pelle e seta, viola mammola, blu cobalto e verde smeraldo, uscite miracolosamente, e in perfetto stato, dalla soffitta di un’abitazione della periferia triestina.




L’ultima parte del percorso espositivo permanente, curata da Thessy Schoenholzer Nichols, si intitola “Nel regno di Flora”. Lungo il filo conduttore dei fiori spicca una vetrina con un altro acquisto recente, una serie di marsine del ’700, il cui lato B, presenta sulle code spettacolari ricami floreali, perchè l’uscita di scena dei gentiluomini doveva essere altrettanto emozionante che l’entrata. In questa sezione il pubblico potrà ammirare anche due abiti della designer Maria Monaci Gallenga (1880-1944), busti, gilet, ombrellini, un abito da sposa e un’installazione streetwear dove, su una base di sanpietrini identici a quelli della strada davanti al museo, spicca una serie di vestiti floreali dagli anni ’50 agli ’80.



Nella mostra temporanea, una tavola del tempo racconta al pubblico le acquisizioni, le esposizioni, gli snodi della vita del museo. Accanto, una testimonianza delle mostre recenti, quella dedicata a Roberto Capucci, con lo spettacolare abito-scultura “Oceano” creato per l’Expo di Lisbona del ’98 (un’onda di quasi cento metri di taffetà e organza, ventisette sfumature di colore, dal bianco al blu, cinque mesi di lavoro di cinque sarte), e il “Bocciolo di rosa”, affiancato alla foto di Massimo Gardone, protagonisti dell’allestimento “L’atelier dei fiori”; poi tre pezzi del ’71, esposti in “Caleidoscopio Missoni””, infine due costumi dai film “Morte a Venezia” di Visconti e “L’età dell’innocenza” di Scorsese, per ricordare l’omaggio alla sartoria Tirelli e alle sue creazioni da Oscar.



Intanto, il Museo della moda cresce. Con scarpe e marsine, tra le acquisizioni recenti tre abiti dell’atelier delle sorelle Callot provenienti da Parigi, una fibbia preziosa del pittore secessionista Josef Maria Auchentaller, vestiti e una veste da camera maschile in broccato della famiglia Stonborough (Margaret era sorella del filosofo Wittgenstein), il completamento della collezione Verchi, in parte donata.


Nel palazzo di Borgo Castello a Gorizia è custodita e ben rappresentata la storia della moda dal ’700 al 1940. «Non passa giorno che non riceva una lettera che mi propone un nuovo pezzo» dice Raffaella Sgubin. La lunga storia intessuta di fiori, quadri e righe continua. 

@boria_a

giovedì 21 novembre 2019

IL LIBRO

Lyduska, la contessa dei due mondi, Gorizia e il Kenya 


Lyduska nella villa dello zio Pula a Rosà (foto da "Lyduska" di Anna Cecchini, Mgs Press)
 


Una vita lunghissima trascorsa tra due mondi, la natia Gorizia e il paradiso del Kenya, terra d’elezione. Una donna affascinante, combattiva, trasgressiva, che per amore romperà le convenzioni sociali, scegliendo l’avventura, la libertà, la felicità. Amicizie importanti, come quella con Sarah Churchill, che l’aiuterà, facendo intercedere il padre, a mantenere in Italia la villa di Salcano, sulle sponde dell’Isonzo, minacciata dalle decisioni sulla linea di confine dopo la seconda guerra mondiale. O forse fu decisivo l’intervento di Dwight Einsehower, comandante supremo delle forze americane e futuro presidente, che pare sia stato suo ospite proprio in quella dimora, all’epoca di una sua breve puntata a Gorizia per ispezionare la “linea Morgan”?

Chissà chi deviò un confine diritto e un pezzo di storia, se sir Winston o “Ike”. Certo è che la storia della contessa Lydia Gaetana Maria Giovanna Hornik De Nordis, nata a Salcano nel 1921 e morta a Nairobi nel 2006, sembra materia da film. Un’esistenza che ci restituisce oggi la biografia “Lyduska”, come fu sempre e solo chiamata, firmata da Anna Cecchini per Mgs Press (euro 15).


Stesso nome della nonna Lidia Lenassi, di famiglia di imprenditori della tessitura di origine comasca approdati a Gorizia, andata sposa tredicenne al notaio Antonio de Nordis, e stesso nome della mamma, Lydia Emma, che sposò per amore e contro il volere della famiglia, l’ufficiale dell’esercito imperiale Ferdinando Hornik, nato in Boemia, Lyduska cresce in una famiglia con rigide abitudini aristocratiche, che nulla possono sulla sua natura volitiva, irruente, testarda. Vestita dalla madre come una principessa, viziata dalla nonna che riversa su di lei tutto l’affetto trattenuto in un matrimonio precocissimo e senza amore, Lyduska impara dal padre a cavalcare prima di camminare e a quattro anni cade rovinosamente col triciclo dallo scalone della villa, procurandosi la frattura di una gamba, i cui postumi la tormenteranno per sempre. Il padre scompare presto dalla sua esistenza, Lyduska non lo menziona mai.


Lyduska a Gorizia


È invece lo zio Pula l’uomo che influisce decisamente sulla sua crescita. Paolo Dolfin Boldù, nobile veneziano di famiglia dogale, colto e ricchissimo, una volta rimasto vedovo di Dolores Branca (famiglia del Fernet) con il figlioletto Francesco, sposa la zia di Lyduska, Norina, a sua volta vedova del conte Balbi Valier e mamma di Balbino. Si dicono sì a Venezia il 5 novembre 1928 in una cerimonia discreta e intraprendono subito una vita di viaggi straordinari, sulla scia della passione venatoria e della sterminata curiosità di Pula. L’Indocina, il Giappone, le Hawaii, gli Stati Uniti, il Kenya che è colonia britannica.

Lyduska ha tredici anni quando nel 1934 si imbarca per la prima volta verso Mombasa a bordo del piroscafo “Crispi”, in compagnia di entrambi gli zii. Sarà l’inizio di un amore senza fine, la scelta di una seconda casa. Il viaggio verso la tenuta di Slains, nella cosiddetta Happy Valley, paradiso terrestre sull’altopiano di Wanjohi, a 2400 metri, dove facoltosi europei hanno acquistato tenute e costruito cottage lussuosissimi, conducendo una vita edonistica e libera lontana da occhi indiscreti, diventa per Lyduska una sorta di iniziazione. La natura lussureggiante, gli animali, le cascate e i laghi, i paesaggi sconfinati, le entrano nel cuore. A Slains, tenuta acquisita dagli zii dalla famiglia di lady Idina Sackville, la ragazzina cavalca, esplora la natura, impara un po’ di swahili.


Lyduska con l'amica Sarah Churchill


Gorizia e il Kenya. Tutta la vita della contessa sarà un partire e tornare in questi luoghi dell’anima. Solo negli anni terribili della seconda guerra mondiale i suoi viaggi in Africa si interrompono, ma è probabile che Lyduska riesca nell’impresa diplomatica di mantenere in Italia l’antica proprietà dei de Nordis in via dello Scoglio proprio grazie a una conoscenza fatta nella Happy Valley, quella con la terzogenita di Churchill, Sarah, attrice.




Nel 1942 muore suo padre Ferdinando, nel ’47 l’amatissimo zio Pula, nel ’49 la madre Lydia. Gorizia è tagliata in due. Rimasta sola, Lyduska va a cercare un amico d’infanzia, Nanni, il figlio dell’autista di zio Pula nella sfarzosa villa di Rosà, vicino a Bassano, a cui è legatissima fin da bambina. È più giovane di lei di quattro anni, non appartiene alla sua classe sociale, ma con Nanni, senza alcun vincolo matrimoniale, la giovane donna vive in Kenya anni felici e tumultuosi, tormentati solo dai tanti aborti e dalla vana ricerca della maternità. Nanni si inserisce subito nell’ambiente, cavalca, ha l’eleganza di un lord. Insieme frequentano l’ambiente dei ricchi europei e si occupano, con alterne fortune, di far sopravvivere la loro fattoria, difendendola dagli attacchi dei Mau Mau, il braccio armato del movimento indipendentista e anticoloniale. Si sposeranno solo nell’aprile 1963, pochi mesi prima della proclamazione dell’indipendenza del Kenya.



Lyduska con il marito Nanni


Mentre Gorizia, dopo la guerra, stenta a trovare una sua identità e a far ripartire l’economia, molti lutti segnano l’esistenza di Lyduska, sempre più eccentrica e amareggiata. Il marito Nanni muore tragicamente in un incidente vicino a Latisana e lei stessa viene gravemente ferita, nel corpo e nell’anima. Trentasei anni trascorrono da quel giorno, a Nairobi assistita dal fidato domestico Nyongo, che la segue nelle rimpatriate, a Gorizia dal custode Romano Facca.


Fino alla fine continuerà a ricevere gli amici aristocratici, a cenare con argenti e porcellane, a circondarsi di animali, a cavalcare nonostante i dolori alla gamba, a dividersi tra Gorizia e Nairobi, dove muore, il 5 agosto 2006, per i postumi di un ennesimo incidente automobilistico. Le sue ceneri verranno riportate a Gorizia e riposano nel cimitero di Montesanto, accanto a quelle del nonno che non ha mai conosciuto, Antonio de Nordis. La sua tomba guarda il mare, alle spalle le Alpi. Per sempre affacciata su due mondi, lei stessa straordinaria sintesi di mondi che non esistono più.
@boria_a

mercoledì 26 marzo 2014

LA MOSTRA
Gorizia è un ornamento scintillante

Abiti "scintillanti" nel nuovo allestimento del Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia (foto Bumbaca per Il Piccolo) 

Formidabili quegli anni del jazz. Le feste del Grande Gatsby, colorate e indiavolate, scorrono sullo sfondo e prendono vita i due abiti di Margaret Stonborough Wittgenstein, sorella del filosofo Ludwig, che Klimt ritrasse in abito da sposa, regina della mondanità viennese e mecenate di artisti: sembra gonfiarsi il crespo di seta verde smeraldo percorso da girasoli dorati, manda bagliori il raso nero ricamato con perline di vetro turchese e filati metallici ramati, quest'ultimo, siamo nel 1925 circa, confezionato dalla sartoria delle Sorelle Callot.
Si alza il sipario sul nuovo allestimento del Museo della moda e delle arti applicate di Gorizia, che inaugura due sale ulteriori e invita i visitatori a una serata a teatro, per uno spettacolo o una festa danzante, dove, nell'intimità dei palchi ricavati intorno a un'ideale scenografia o salone da ballo, tra lo sfarfallio dei ventagli di piume, si ammira e si è ammirate. Il filo conduttore della mostra è l'«Ornamento scintillante», filo tematico ma prima ancora prezioso elemento decorativo, che abbraccia senza interrompersi tutti i circa venti abiti da sera esposti in questi spazi (in tutto il percorso ce n'è quaranta), suggestiva finzione accanto a un cimelio autentico, conservato in una piccola stanza a lato: un palco autentico dell'antico Teatro di Società di Gorizia e un frammento dell'affresco di Eugenio Scomparini.

«L'ornamento scintillante viveva di luce e di movimento», dice la sovrintendente Raffaella Sgubin, storica del costume, che ha curato il progetto della mostra. Paillettes, perline di vetro, canutiglie, strass e filati metallici si rincorrono nel buio, dai ricami delle toilette, alle borsettine da sera e alle stole, spruzzati a profusione su abiti di un arco cronologico che va dalla fine del Settecento ai frenetici anni Venti del Novecento, quelli di una moda più morbida e innamorata del corpo femminile, che la sovrintendente ama particolarmente. E l'allestimento, racconta, ha permesso anche di operare un certosino e massiccio restauro su molti pezzi della ricca raccolta museale (la collezione della triestina Marialieta Verchi quasi completa e altre acquisizioni), pezzi la cui magia coincide con la loro stessa fragilità: decori sbrilluccicanti e altrettanto pesanti su supporti impalpabili, sete e tulle, spesso da rinvigorire con sottogonne che permettano all'ornamento di aggrapparsi e non franare.


Dopo il colpo d'occhio delle "mise" degli anni folli indossate da Margaret Wittgenstein, ecco, dall'altra parte della sala, un tuffo nel Direttorio, con un abito color crema con ricami in ciniglia dai toni autunnali e paillettes d'argento, toilette da corte, che - si mormora, senza certezza - sia appartenuta a Paolina Bonaparte, imponente sullo sfondo di altre sequenze cinematografiche, "Orgoglio e pregiudizio", "Vanity fair", la Penelope Cruz volteggiante in "Volavérunt".

 
Penelope Cruz in "Volavérunt"



Intorno, nei palchi, un blogger ante litteram renderebbe all'istante "virali" le immagini di uno splendido vestito Impero avorio, di altri due modelli delle parigine Callot, il primo nero e con le maniche di merletto dorato, il secondo rosa antico impreziosito da perle di vetro soffiato, entrambi appartenuti a un'aristocratica triestina, e, ancora, delle toilette che precedono di poco la Grande Guerra, già fluide e con il tocco di eccentricità delle frange a orlare la gonna.


Infine, nell'ultimo palco, eccoci tra le signore degli anni Venti pieni, con la silhouette rivoluzionata e il punto vita abbassato ai fianchi per permettere alle gambe di lanciarsi nei nuovi ritmi sonori: un abito torrone con decori di vetro - e qui i restauratori hanno dovuto veramente fare un'opera di puntello - e un nero su cui si sbalzano fiori di strass nei toni del verde acqua e smeraldo. Disseminate nei palchi, preziose borsette in tinta, carnet de bal, binocoli, bocchini da sigaretta, tutti della collezione triestina Verchi, ricchissima di accessori.

Nella giornata che precede l'appuntamento serale a teatro, la signora "fashionista" passeggerà in centro, guardando le vetrine. Ecco, allora, che l'allestimento goriziano ricostruisce il "liston" più glamour, con il negozio della modista, che propone copricapi dal 1860 (allacciati sotto il mento con un nastro, come nei libri delle sorelle Brönte...) fino al 1920, quando vanno di moda berretti, cloche e cappellini dalla forma arrotondata (ce n'è un paio appartenuti alle sorelle di papa Luciani). Un'occhiata alle botteghe del calzolaio e del cappellaio, ingombre di strumenti di lavoro, e al negozio per bambini, dove si fanno ammirare la marinaretta femminile, bordata di rosso e corredata di cestino, scarpette e ventaglio, e il costumino per le prime villeggiature.


 Poi una sosta davanti alle vetrine che suggeriscono alle dame il guardaroba del tempo libero (tutte in bianco, come le protagoniste di Downton Abbey nei té all'aperto) o per stare in casa, tra fuselli e chiacchiere, e le amiche che sui quaderni della padrona di casa lasciano disegni e poesiole sulla "virtù del cuore" e la "modestia della fronte". 

Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia

A materializzare l'atmosfera vivace di un corso cittadino, sulla parete di fronte alle varie teche scorrono le immagini di Parigi, Vienna, del mondano varo della "Viribus Unitis" a Trieste nel 1911 e quelle di Gorizia, ricostruite attraverso una serie di cartoline che accompagnano il visitatore in un'ideale camminata, dalle due stazioni, la Transalpina e la Meridionale, fino in centro.

E spunta, in fondo al corso "mitteleuropeo", la merceria del triestino Carlo Burgstaller, specializzata in corredi da sposa, un tripudio di cuffiette da notte, fazzoletti e asciugamani cifrati con sedi in via Campanile e via Sant'Antonio, e poi la bustaia, le cui fatture e depliant raccontano un'epoca e una trasformazione dei costumi.
Elvira Minzi nel 1915 si faceva pagare un busto in corone, ma nel 1920, per due reggipetti, il conto per la cliente era espresso in lire. Quattro anni dopo, la commerciante cambiava anche il suo logo: una modella con i capelli corti, taglio alla garçonne, testimonial dei tempi nuovi.
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