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giovedì 17 febbraio 2022

IL PERSONAGGIO

Valentina Cortese

all'asta il suo mondo triestino

de Sabata, Strehler, l'amica Leonor Fini

 

Gli amori, gli incontri. I registi, i colleghi, le teste coronate, racchiusi nelle cornici d’argento delle fotografie. Gli arredi, le suppellettili, le porcellane, i dipinti. Abiti da sogno e il sogno dell’arte, che si respira in ogni pezzo. La mondanità e l’intimità. Il mondo, pubblico e privato, di un’artista e di una donna, dal palcoscenico, allo schermo, agli affetti più gelosi e custoditi.

 

"Ritratto di Valentina Cortese e di suo figlio" di Leonor Fini

 


Molto della vita di Valentina Cortese, l’ultima grande diva, morta il 10 luglio 2019 a 96 anni, andrà all’incanto l’1 e 2 marzo 2022 a Milano. Arredi e guardaroba provenienti dalle sue residenze di Milano, l’ex conventino in piazza Sant’Erasmo, e della Giudecca a Venezia, che saranno battuti dalla casa d’aste Il Ponte in due tornate da remoto, per uno scopo benefico. È il congedo e l’abbraccio alla città di una sua figlia amata e celebratissima, che ha scelto di destinare i proventi della vendita a favore dell’Istituto di ricerca Mario Negri, cui fu sempre vicina, e della sua seconda casa, il Piccolo Teatro, dove per la prima volta andò in scena nel 1959. 

«Stavo per firmare il contratto di un film - ricordava l’attrice - ma il buon Dio volle che Paolo Grassi mi avesse appena vista in Amarsi male di François Mauriac diretto da Orazio Costa. Gli piacqui così tanto che venne in giacca e cravatta a Roma per propormi di persona il ruolo di Sofia in Platonov e gli altri di Anton Čechov al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giorgio Strehler». 

 

Valentina Cortese col figlio Jackie e il marito Richard Basehart

 


C’è tanta Trieste in questi capitoli della sua vita che Valentina Cortese ha scelto di affidare in custodia ad altri. Strehler, regista, maestro, amore furioso. Che vediamo in un’immagine poetica de “Il giardino dei ciliegi” del 1973, inginocchiato sul palcoscenico, la mano tesa verso di lei, la sua Ljuba, tutta vestita di bianco, come l’ombrello rovesciato al suo fianco. «Ma abbiamo insieme una cosa bellissima da fare, Valentina: - le scrive Strehler durante le prove dello spettacolo, il rapporto ormai al capolinea - una nostra nuova creatura che non è nè la prima nè l’ultima della nostra storia. È una delle tante, sebbene certo una delle più importanti. Il nostro discorso, cara, continua così, come può, con i nostri vecchi cuori che battono impazziti, le nostre memorie, le nostre speranze».

 

Valentina Cortese nell'abito kimono di Capucci (foto Fiorenzo Niccoli)

 


L’album fotografico si apre con i tre ritratti del lotto n. 1, un altro artista che segna la vita e l’inizio della straordinaria carriera di Valentina Cortese, il compositore e direttore d’orchestra triestino Victor de Sabata. Ha appena diciassette anni, Valentina, quando lo conosce, a Stresa, dove passa lunghi periodi con la nonna materna, e per seguire quell’uomo, più grande di trentun anni, sposato e con figli, fugge a Roma dove studia recitazione e inizia a farsi notare dal cinema. Nei tre ritratti in asta vediamo de Sabata impegnato a dirigere, seduto in poltrona con un foglio tra le mani, forse una partitura, e sorridente in primo piano, l’onda dei capelli bianchi e il profilo scolpito. «Fu un uomo speciale e meraviglioso. Persi la testa. Lasciai il liceo, mi trasferii a Roma», scrive lei nella sua biografia “Quanti sono i domani passati”. Quando il rapporto si chiude, lei vola a Hollywood.

 

Il direttore d'orchestra triestino Victor de Sabata

 


Spostiamoci idealmente nel salotto di Valentina Cortese dove una fotografia ci restituisce un momento che sembra di grazia. Sul divano, sorridente e senza l’iconico foulard, abbraccia l’unico e adorato figlio Jackie, vestito da marinaretto, accanto all’attore americano Richard Basehart, suo marito dal 1951 al 1960. Quando si scopre incinta, Valentina rinuncia al ruolo in “Luci della ribalta” al fianco di Charlie Chaplin. Jackie, che segue la carriera dei genitori, protagonista degli anni folli della “Hollywood sul Tevere”, muore dopo una lunga malattia che l’aveva allontanato dal mondo, nel 2015 a 64 anni. «Ancora un giro di clessidra e lo raggiungo» dice Valentina, che si spegne quattro anni dopo.

 

 

L'amitié, 1958, di Leonor Fini


Dietro il divano è appeso uno dei quadri più importanti dell’asta (base delle offerte 4-5mila euro), il “Ritratto di Valentina Cortese e di suo figlio”, firmato dalla sua grande amica Leonor Fini e già esposto nella mostra che il Revoltella dedicò alla pittrice triestina nel 2009, “L’italienne de Paris”. Valentina e Jackie si tengono per mano, ognuno perso in un suo pensiero, il piccolo in un completo antico, seduto sull’ampia gonna salmone della madre come su un isolotto. Ancora più prezioso (6-7mila euro), il dipinto più quotato dell’asta è “L’amitié”, anno 1958, andato in mostra a Trieste (l’allora direttrice del Revoltella, Maria Masau Dan, lo definì in catalogo “un capolavoro”) ma anche al Musee du Luxemburg di Parigi nell’86 e alla Galleria civica d’arte moderna Palazzo Diamanti di Ferrara nell’83, in altrettante esposizioni dedicate alla Fini. Infine, l’acrilico su tela “Le retour des absents” (3.500-4mila euro), anch’esso in mostra a Trieste e Ferrara.

 

Valentina Cortese in Capucci (foto Fiorenzo Niccoli)


“Per la mia Valentina con amore” scrive Leonor sotto l’acquerello “Ritratto di fanciulla”, che fa parte di una serie di opere minori, come una “Figura in piedi e “Lucrèce”, entrambe tecniche miste su carta. Completano la raccolta, i bozzetti di Rosaura e dei corteggiatori spagnolo e inglese, a inchiostro e gouache su carta, per “La vedova scaltra” di Goldoni, messa in scena per il Piccolo Teatro nel 1953 con la regia di Strehler, le scene di Fabrizio Clerici e i costumi di Leonor Fini.


Infine si spalancano le porte del guardaroba di Valentina Cortese ed esce una straordinaria collezione di abiti da giorno e da sera di Roberto Capucci, Maurizio Galante, Carlo Tivioli, Christian Dior, Mila Schön, idealmente abbinati a un set di valigeria Louis Vuitton. Della dalmata Mila è riconoscibilissimo il robe manteau avorio con petali rossi e ramage nero ispirato ai “mobiles” di Alexander Calder, ma c’è anche un inedito completo Schön-Capucci, dove la stilista di Traù firma una mantella corallo e il grande couturier romano un abito da cocktail con maniche a pipistrello e ampi volants rossi e fucsia.

L'abito di Mila Schon ispirato ai "mobiles" di Calder 

 


Abiti amati e indossati, con segni e difetti. Pezzi di storia privata e di storia della moda, quasi tutti con offerte base da poche centinaia di euro, non solo per le loro condizioni di conservazione, ma per rendere l’asta benefica accessibile a quante più persone possibile, come se fosse il saluto affettuoso di Valentina alla sua Milano. C’è però chi vorrebbe che questo patrimonio restasse unito, che il ricordo della diva non venisse disperso.

 

Roberto Capucci (Alfonso Catalano per gentile concessione dell'agenzia SGP)

 

 Due i pezzi più cari, entrambi di Capucci: un abito di gala in chiffon e seta blu notte, con un papillon sul corpetto ricamato con canottiglie (base 1200-1500 euro), e un vestito con sopravestito a kimono di seta abbinato a un ventaglietto con inserti di madreperla (1800-2000). Non sfigurerebbero nel sontuoso archivio di Capucci a Villa Manin di Passariano, dove sono custoditi altri abiti donati, “restituiti”, da Valentina Cortese al suo sarto preferito. 

 

Valentina Cortese con Elizabeth Taylor e Richard Burton

 

 

lunedì 2 dicembre 2019

LA MOSTRA

Dress code: righe, quadri fiori
per il Museo della Moda di Gorizia





Le marsine settecentesche nel nuovo allestimento del Museo della Moda di Gorizia (foto Gianluca Baronchelli)


Righe, quadri, fiori. C’è un dress code suggerito agli ospiti per la riapertura del Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia, che il 3 dicembre 2019 festeggia vent’anni con un riallestimento della collezione e una mostra temporanea. Un gioiello che custodisce novemila pezzi, tra abiti, accessori e monili dell’area mitteleuropea, abbracciando Gorizia, Trieste, Vienna per spingersi fino a Praga, rappresentata da una serie di corsetti a suo tempo acquistati in un negozio triestino e facenti parte della collezione Verchi, cuore dell’intero patrimonio.

Quello di Gorizia è uno dei pochi musei della moda in Italia, accanto al veneziano palazzo Mocenigo, dedicato al ’700, e alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze. Non a caso a festeggiare l’anniversario, oggi ci sarà una nutrita rappresentanza della famiglia Missoni, mentre lo stilista artista Roberto Capucci arriverà nei prossimi giorni: a entrambi, Capucci e il caleidoscopico Ottavio, il Museo di Gorizia ha dedicato, nel 2004 e nel 2006, due grandi mostre firmate da Raffaella Sgubin.


Sarà lei, che nel luglio 2000, a pochi mesi dall’apertura del Museo, avvenuta il 3 dicembre 1999, ne divenne responsabile, per ricoprire la carica fino a oggi in qualità di direttrice del Servizio Ricerca, Musei e Archivi Storici dell’Erpac, a fare gli onori di casa a Borgo Castello. «L’ho visto nascere e oggi lo riapro» dice con orgoglio, ricordando come, vent’anni fa, l’allora direttrice dei Musei goriziani, Maria Masau Dan, poi assessore alla cultura della Provincia, abbracciò con entusiasmo l’idea di creare un Museo della moda. Nacque in pochissimo tempo, con vecchi allestimenti disponibili e intorno a un nucleo già presente, una raccolta di oltre settecento campioncini della produzione della seta a Gorizia e nel circondario, donati al museo agli inizi del Novecento dalla famiglia di Lodovico Seculin, commerciante di mercerie. Oltre allo splendido torcitoio circolare da seta del XVIII secolo, acquisito nel 1913, il più antico pervenuto: veniva azionato da una persona che, al suo interno, camminava all’indietro, appoggiata a un sedile verticale, mentre con le mani libere eseguiva un secondo lavoro, magari quello del sarto.





«È stata Maria Masau Dan - racconta Sgubin - a gettare le basi del Museo, con tre acquisti strategici compiuti negli anni Ottanta. Nell’85 i gioielli della chiesa di Sant’Ignazio, circa duecento pezzi tra spille, orecchini, bracciali donati dai fedeli come ex voto. Poi, nell’87, tre abiti straordinari comprati da un privato goriziano: due femminili e una marsina di fine ’700. Infine, nel ’92, il colpo da maestro: l’acquisto della prima tranche della collezione Verchi. Masau Dan, con intelligenza e sensibilità, ne intuì il potenziale. Si tratta di migliaia di capi, tra abiti e accessori, dal ’700 alla prima guerra mondiale. Questo - prosegue Sgubin - è stato il punto di non ritorno per la costruzione delle collezioni dei Musei goriziani. Da allora il tessile è diventato centrale». Nel ’93 una mostra, intitolata “Il filo lucente”, raccontava duecento anni di produzione della seta e del mercato della moda a Gorizia, dal 1725 al 1915. Le premesse per la nascita del Museo c’erano tutte.








Righe, quadri, fiori. Il riallestimento delle collezioni segue lo stesso filo conduttore. La sezione tessile, con i campioni di tessuto e i macchinari, dove un’installazione multimediale consente al visitatore di cimentarsi nel design, poi la parte centrale, con gli abiti a tessuti rigati e quadrettati, dal ’700 agli inizi del ’900, incorniciati da un’altra installazione multimediale basata su figurini, che conduce il pubblico in un viaggio nella storia del costume, di ieri e di oggi. Perchè la moda non inventa nulla. Prova ne sia una delle superbe scarpine che vedremo enfatizzate dal video, con calzetto incorporato e bottoncini laterali, che fa parte di una recente acquisizione: un raccolta di dieci paia di calzature dell’800, di pelle e seta, viola mammola, blu cobalto e verde smeraldo, uscite miracolosamente, e in perfetto stato, dalla soffitta di un’abitazione della periferia triestina.




L’ultima parte del percorso espositivo permanente, curata da Thessy Schoenholzer Nichols, si intitola “Nel regno di Flora”. Lungo il filo conduttore dei fiori spicca una vetrina con un altro acquisto recente, una serie di marsine del ’700, il cui lato B, presenta sulle code spettacolari ricami floreali, perchè l’uscita di scena dei gentiluomini doveva essere altrettanto emozionante che l’entrata. In questa sezione il pubblico potrà ammirare anche due abiti della designer Maria Monaci Gallenga (1880-1944), busti, gilet, ombrellini, un abito da sposa e un’installazione streetwear dove, su una base di sanpietrini identici a quelli della strada davanti al museo, spicca una serie di vestiti floreali dagli anni ’50 agli ’80.



Nella mostra temporanea, una tavola del tempo racconta al pubblico le acquisizioni, le esposizioni, gli snodi della vita del museo. Accanto, una testimonianza delle mostre recenti, quella dedicata a Roberto Capucci, con lo spettacolare abito-scultura “Oceano” creato per l’Expo di Lisbona del ’98 (un’onda di quasi cento metri di taffetà e organza, ventisette sfumature di colore, dal bianco al blu, cinque mesi di lavoro di cinque sarte), e il “Bocciolo di rosa”, affiancato alla foto di Massimo Gardone, protagonisti dell’allestimento “L’atelier dei fiori”; poi tre pezzi del ’71, esposti in “Caleidoscopio Missoni””, infine due costumi dai film “Morte a Venezia” di Visconti e “L’età dell’innocenza” di Scorsese, per ricordare l’omaggio alla sartoria Tirelli e alle sue creazioni da Oscar.



Intanto, il Museo della moda cresce. Con scarpe e marsine, tra le acquisizioni recenti tre abiti dell’atelier delle sorelle Callot provenienti da Parigi, una fibbia preziosa del pittore secessionista Josef Maria Auchentaller, vestiti e una veste da camera maschile in broccato della famiglia Stonborough (Margaret era sorella del filosofo Wittgenstein), il completamento della collezione Verchi, in parte donata.


Nel palazzo di Borgo Castello a Gorizia è custodita e ben rappresentata la storia della moda dal ’700 al 1940. «Non passa giorno che non riceva una lettera che mi propone un nuovo pezzo» dice Raffaella Sgubin. La lunga storia intessuta di fiori, quadri e righe continua. 

@boria_a

venerdì 28 agosto 2009

LA MOSTRA

Leonor Fini, l'italienne de Paris


Nudo di Leonor Fini di George Platt Lynes

È una gatta a far litigare, a Parigi nella primavera del 1948, Leonor Fini e Margot Fonteyn. La mascherina disegnata dalla pittrice per "Les demoiselles de la nuit" di Roland Petit, fa "orripilare" l'etoile, che la ritiene grottesca e invasiva, un attentato all'ideale di bellezza romantica che ha costruito su di sè. Ma Leonor, che ama i felini al punto da fondere la sua fisionomia nella loro, non vuol sentir ragioni, minaccia di dar fuoco al teatro se le critiche di Margot troveranno udienza. Capricci di primedonne che la diplomazia di Roland Petit riesce alla fine a smussare: la ballerina accetta le stravaganze della costumista, purchè la maschera venga aggraziata, le fattezze assottigliate. E la querelle finisce in una vacanza comune ad agosto, Margot ospite nella casa di Leonor a Le Bruse, nel sud della Francia, dove, tra bagni, picnic e gite nei dintorni, riprende le forze prima di affrontare la stagione al Covent Garden di Londra, davanti al suo pubblico.
Quindici anni dopo il balletto è alla Scala di Milano, al posto di Margot Fonteyn c'è Carla Fracci, gattina "gentile ed elegante", meno "felina" della collega inglese. Leonor Fini disegna nuove scene e bozzetti sul modello di quelli precedenti, ma questa volta ai tratti impazienti delle micie francesi, si sostituiscono pennellate sorvegliate, per gatte più mature e seducenti, consapevoli del loro fascino. Al ricordo dei suoi amati compagni di vita a quattro zampe, Leonor ha unito un estremo atto d'amore.



"Au Bout du Monde" di Leonor Fini, 1949
Gli episodi legati alle "gatte ballerine" sono raccontati da Vittoria Crespi Morbio nel saggio "Il teatro sovvertito di Leonor Fini", uno dei tanti contenuti nel catalogo appena pubblicato dal Museo Revoltella di Trieste a corredo della mostra "L'italienne de Paris" (aperta fino al 27 settembre), curata dalla direttrice del museo, Maria Masau Dan.
Più che una "guida" all'esposizione, una corposa monografia sulla pittrice triestina, che, in oltre trecento pagine, alterna gli approfondimenti critici sulle varie stagioni artistiche, Trieste, Milano, Parigi, agli omaggi più intimi, come quello, "Cara gattona", di Sibylle de Mandiargues, figlia di André, primo compagno di Leonor a Parigi, per chiudersi con le interviste agli amici artisti di lunga consuetudine, Enrico Colombotto Rosso, Leonardo Cremonini, Michel Henricot e il più giovane, Eros Renzetti, che la frequentò insieme a Fabrizio Clerici negli anni '80 e poi fino alla morte di lei, nel 1996. Diciassette contributi, tra analisi e colloqui con i compagni di strada, dissezionano vita e opere della pittrice da molteplici prospettive, con la sfida dell'esaustività e il rischio di far vacillare il lettore nelle stesse iperboli che piacevano tanto alla protagonista.
L'ultimo omaggio è una lunga intervista di Vanja Strukelj a Gillo Dorfles sugli anni triestini di "Lolò", quelli in cui entrambi, col gruppo "estremamente intellettualizzato, però anche leggermente sportivo" di cui facevano parte Bobi Bazlen, Italo Svevo, Elsa Dobra, andavano a passeggiare in Carso o a giocare a bocce al "Cacciatore". E il liceale Gillo, pizzicato in città con l'eccentrica Leonor, doveva mandare la madre dal severissimo professor Sabbadini, che la metteva in guardia su quella ragazza «non per bene» con cui il figlio andava in giro.
Leonor e il controverso rapporto con i surrealisti, che non fu mai appartenenza a una "scuola" nè asservimento ai suoi dogmi (lo ricorda l'amico Jean-Claude Dedieu: la pittrice a Parigi indossa calze viola acquistate a Roma, loro la prendono per una provocazione sacrilega ma a lei è semplicemente innamorata del colore...). Leonor e i mascheramenti, le cui origini l'analisi di Ernestina Pellegrini fa risalire a un'infanzia vissuta interamente in un gineceo, priva di qualsiasi aggancio a un ordine di valori maschili, un matriarcato alla luce del quale va letta anche la produzione artistica.
La piccola "Lolò", scappata a Trieste dall'Argentina, viene vestita da maschietto per eludere i sicari inviati dal padre. Una foto di famiglia fissa curiosamente questa rete femminile che la circonda: nell'immagine le zie sono vestite da marinaio e la nonna da comandante, su una finta nave di un finto mare Adriatico. «È il trionfo dell'onnipotenza femminile en travesti - dice Pellegrini - l'ostentazione fiera di un governo matriarcale totalizzante, che si incarna una volta per tutte in ciò che si può chiamare "l'enigma della sfinge", una sfinge da lei ritratta ossessivamente nella sua insolente bellezza...». "Sfinge Filagria", "Sfinge regina", "La piccola sfinge eremita" s'intitolano i quadri degli anni '40, quella stessa sfinge di granito, a Miramare, su cui Leonor bambina si fa fotografare, di spalle, quasi a cavalcare, a dominare l'enigma della femminilità. Una seduzione per lei inesauribile - e la spiega densamente Luisa Crusvar nel suo saggio sulla "mitologia dell'ambiguità" - legata al senso di "forza e regalità, fatalità ed enigma" che alla sfinge attribuiva la Grecia antica e che la pittrice
associa anche agli adorati gatti. A quest'enigma, che su se stessa Leonor rappresenta con imponenti e sinistri travestimenti, fa da contraltare un lato segreto, ancora poco indagato: il ricchissimo carteggio con la madre, lettere giornaliere in cui si leggono fragilià e smarrimenti di un'artista imprigionata nella perenne parata di se stessa («Dell'operazione avevo terrore - scrive a Malvina, dopo l'asportazione dell'utero - perchè sapevo che finchè non si apre un corpo non si può dire nulla... Piansi tutta l'estate con un'angoscia orribile...
pensando sia di morire sia di essere mutilata... non volevo dirti niente visto che là non potevi essere e visto che era inutile agitarti...»).
Trieste, Milano, Parigi, le fasi e gli incontri, gli anni e gli uomini, sono ripercorsi da Maria Masau Dan, Nicoletta Colombo, Isabella Reale. Con un atteggiamento della critica che, anche quando Leonor fu più vicina al surrealismo e ai suoi protagonisti, verso di lei fu scostante, sia per la distanza che la pittrice stessa rivendica tra sè e il "movimento", sia per il sopravvento del personaggio, delle sue passioni e intemperanze, sull'artista.
Filo conduttore del percorso, più illuminante di qualsiasi dissertazione, sono le foto, tante e bellissime, firmate da Dora Maar, André Ostier, Henri Cartier-Bresson, Eddy Brofferio, Arturo Ghergo, Veno Pilon, Richard Overstreet. Leonor nel mare di Trieste abbracciata a uno scheletrico André de Mandiargues, nuda e scultorea per l'obbiettivo di George Platt Lynes, Leonor con i gatti, con le bambole, in Egitto nel '51, davanti alla sfinge e insondabile come lei, Leonor nella sua casa di Nonza, in Corsica, inquieta creatura acquatica, arborea, fusa con la natura eppure estranea. Julien Levy, il gallerista di New York che nel 1936 organizzò una mostra della Fini e di Max Ernst, così ricorda il primo incontro con lei: «Non una bella donna; le sue parti non stavano bene insieme; la testa di una leonessa, la mente di un uomo, il tronco di una donna, il busto di una bambina, la grazia di un angelo e l'eloquio del diavolo. Mentre la caratteristica che colpiva erano gli occhi, grandi e di un nero profondo, il suo fascino era la capacità di dominare le sue parti mal assortite in modo da far sì che
assumessero qualunque forma la sua fantasia desiderasse presentare da un momento all'altro... Era vestita di stracci, o piuttosto di un abito sontuoso strappato ad arte...».

twitter@boria_a


"Au Bout du Monde" di Leonor Fini, 1949