domenica 13 ottobre 2024

MODA & MODI

 In vena di paillettes

 


 
Un anno fa era annunciata come la tendenza prepotente di quest’inverno e quasi ci faceva sorridere. Come solo poter immaginare di vestirsi di paillettes in una stagione di incertezza su scala globale, tra conflitti in espansione, crisi economica, contrazione dei consumi e lo stesso settore della moda che segna il passo, anzi, arretra, a partire da quei mercati orientali che parevano avere portafogli senza fondo?


E invece. Eccole qua le paillettes, in ogni vetrina, di ogni colore. Si sono insinuate in quello di cui abbiamo scritto e letto per mesi il “quiet luxury”, il lusso discreto e che non si appalesa, lo stealth wealth, il benessere solido, mai ostentato nei loghi. E come una scarica di energia hanno fatto sussultare i placidi beige, la palette sonnacchiosa dei marroni e dei grigi, i blu di ordinanza, tutte le sfumature dei rosa, dal pink Barbie al cipria. Piccoli particolari, una striscia di dischetti baluginanti su un berretto o su un maglione, il dettaglio di una sciarpa o di un paio di guanti, ma anche pantaloni, abiti, tute, cardigan interamente ricoperti di scaglie luminose.


Le paillettes hanno scosso il guardaroba non ostentato, messo in crisi il minimalismo, ma soprattutto hanno tolto di mezzo il concetto di “occasione d’uso”, di una decorazione legata a un’ora, a un evento, a un momento della giornata: non occorre che sia sera o notte, ci si veste di luce a piacere, i pantaloni argentati da sirena si abbinano al maglione, la gonna lunga fino ai piedi si infila sotto un’altra, i riflessi luminosi ci avvolgono dalla palestra al teatro. Mescolando e sovrapponendo, giocando con i pesi e le consistenze, le paillettes smorzano la loro forza d’urto, non appesantiscono, non catturano l’attenzione, diventano l’elemento di un insieme. 

L’importante è che lascino solamente una traccia, senza strafare. L’equilibrio è un esercizio divertente, fantasioso, che ci abitua a guardare con autoironia e senso critico al modo in cui ci proponiamo, senza rinunciare a cambiare linguaggio, assecondando altre occasioni e tempi diversi, esclusivamente nostri.


Allora, perché sentiamo il bisogno di metterci addosso un capo, un accessorio che brilla? Che cosa ha quel dischetto colorato che ci fa capitolare, che vince la resistenza, la paura di precipitare nella cafonata? C’è una componente ludica in questa scelta, c’è la voglia di cambiare pelle: le paillettes non sono più la trama della soirée, accompagnano l’umore di una giornata senza il vincolo del codice stabilito. Ma, al tempo stesso, conservano una residua idea di celebrazione, una leggibile e basica vena di festa.

 Confesso: ho ceduto. Dopo anni e anni di idiosincrasia per il genere, nella mia testa collegato ai costumi delle danze latino americane o esibizioni affini, non ho resistito a una gonna plissé ricoperta di impercettibili bagliori neri, che attende fiduciosa di uscire allo scoperto. Forse i capi arrivano al momento giusto, quando siamo pronti per congedi e nuovi inizi.

 IL MUSICAL

Les Misérables finalmente in Italia

Al Rossetti di Trieste la prima 


Les Misérables The Arena Spectacular all'Ovo Hydro di Glasgow (foto di Danny Kaan)


 

Approda per la prima volta in Italia il musical “Les Misérables”, dal romanzo di Victor Hugo, nella produzione monstre che Cameron Mackintosh ha realizzato per arene e grandi spazi. Sarà il Politeama Rossetti a ospitarlo, dal 7 all’11 novembre 2024, cogliendo una doppia sfida: assicurare a Trieste il debutto italiano di un’opera gigantesca, per cast, scenografia, orchestra dal vivo, effetti speciali, e adattare la sua enorme macchina, concepita per una platea di migliaia di spettatori, alle dimensioni contenute di un teatro. L’operazione “accoglienza tecnica” della produzione inglese è già da tempo in corso al Rossetti e la logistica dell’arrivo delle scene e delle attrezzature in Viale XX Settembre farà effetto. Un “game changer”, un punto di svolta per il pubblico e per la città, come è accaduto l’anno scorso con Il Fantasma dell’Opera: così l’ha definito Stefano Curti, direttore organizzativo del teatro, che ha lavorato sodo per portare a casa il titolo insieme al presidente Francesco Granbassi e al direttore Paolo Valerio.


«Che cosa dire al pubblico? Ecco: “non dovete andare nel West End di Londra per vedere il più grande musical mai scritto, ve lo portiamo noi. Ed è davvero così. I Miserabili rimane con le persone per sempre, le cambia, e la ragione per cui va in scena da quarant’anni è che c’è gente che non l’ha ancora mai visto, ma chi l’ha visto continua a venire a teatro, ancora e ancora. È un’icona culturale, se arriva da voi non potete perderlo». Killian Donnelly ha appena debuttato all’Ovo Hydro arena di Glasgow nei panni di Jean Valjean davanti a quattordicimila persone solo nella prima serata, alla testa dello stesso cast che farà tappa al Rossetti per poi proseguire per gli Arcimboldi di Milano, unici due teatri italiani che hanno in cartellone l’evento.

 

Killian Donnelly è Jean Valjean (f. D. Kaan)

 

L’arena di Glasgow ha vibrato per tre ore di spettacolo che corrono d’un fiato, è sembrata esplodere per la potenza del suono, delle voci, per l’intensità delle luci e alla fine ha accolto il cast con una standing ovation. Poche ore prima dell’inizio Donnelly ha incontrato i giornalisti: «Ho partecipato anche all’edizione dei Miserabili del venticinquesimo anniversario - ha detto - ma la passione e l’amore per questo spettacolo per me è rimasto lo stesso e credo che passerà alle generazioni future. Ha quarant’anni, nel mondo l’hanno visto oltre tre milioni di persone. È un regalo far parte di questa edizione, che è una sorta di summa di tutte le precedenti».


Al suo fianco, nel ruolo di Javert, un maestoso Bradley Jaden, che il pubblico ha già applaudito l’anno scorso a Trieste in The Phantom of the Opera nei panni di Raoul. «Killian e io - ha raccontato Jaden - abbiamo entrambi avuto la fortuna di lavorare in passato con grandi attori che intepretavano la nostra controparte in scena, ma dopo la prima volta insieme nei Miserabili abbiamo sentito entrambi che qualcosa scattava tra di noi. È come se ci fossimo detti: tu sei il “mio” Valjean, tu sei il “mio” Javert. Una sintonia che cambia completamente lo spettacolo».

 

Bradley Jaden, Javert (f. D. Kaan)

 


Sarebbe riduttivo definire Les Misérables The Arena Spectacular un musical. Oppure un concerto interpretato. La forza della storia e della musica, i brani celeberrimi, l’intreccio di colpa, redenzione, amore e morte, libertà e giustizia, che gli artisti non si limitano a cantare, ma in cui mettono «cuore e anima», come ha detto Donnelly-Valjean, danno allo spettacolo l’impatto e la dimensione di un’opera. Accanto a Donnelly e Jaden, spiccano le voci femminili di Channah Hewitt, che sarà Fantine, Beatrice Penny-Touré, Cosette, dell’energetica Madame Thénardier di Helen Walsh, dell’americano James D. Gish, un’emozionante rivelazione nel ruolo di Enjolras, mentre ritorna a Trieste Daniel Koek, che gli appassionati del genere hanno già conosciuto in Chess e nel concerto insieme a Kerry Ellis.
Anche Trieste e il suo teatro sono stati un “game changer” nella scelta delle tappe italiane di “Les Miz”, com’è familiarmente chiamata l’opera.

 


 

 

Bradley Jaden si è innamorato della città e del Rossetti, dov’è tornato, dopo il Fantasma, per un concerto da solista, e la sua promozione è entusiastica, in ogni occasione (è riuscito a infilare Trieste anche al Sondheim Theatre di Londra, durante lo spettacolo “Old Friends”, davanti a spettatori per lo più britannici...). «Quando ho fatto Phantom - ricorda - mi sono sentito veramente accolto, Trieste ha abbracciato lo show, per strada tutti sapevano del Fantasma. Mi sono innamorato dalla città: cammini per miglia in entrambe le direzioni, il castello di Miramare ti dà la sensazione di vivere in una favola, e poi l’architettura, le montagne, la gente... E naturalmente il mio fruttivendolo, che ogni giorno mi preparava i carciofi».


Killian Donnelly arriverà con la moglie, “contento”, dice, di avere qualche giorno di libertà dai figli piccoli per visitare la città e misurare il suo Jean Valjean in uno spazio raccolto. «Al pubblico voglio anticipare questo: i nostri Miserabili sono uno show incredibile ma allo stesso tempo intimo, disegnato in modo così perfetto che lo possiamo rappresentare nelle arene o nei teatri senza che nessuno si perda nulla. È come se lo spettatore lo ascoltasse nelle cuffiette, per conto suo, ma su grande scala».

martedì 1 ottobre 2024

IL LIBRO

 

Ilaria Tuti, nel nuovo romanzo storico

la Risiera, il lager di Trieste

 


 

 

Il Castello di Kransberg, il nido dell’Aquila, dove Hitler vive asserragliato in un bunker, terrorizzato e paranoico, dopo il fallito attentato del 20 luglio 1944. La Risiera di San Sabba, luogo di transito per gli ebrei diretti ai lager e inceneritore di oppositori politici, in un’atroce contabilità di morte governata da Josef Oberhauser, SS-Obersturmführer. Due scenari gravidi di ombre, uno nell’Assia più nera, l’altro nella Trieste occupata dai nazisti, e due personaggi, un padre e una figlia, accomunati dalla scelta della professione medica, che si trovano a indagare su morti avvolte nel mistero.


Lui è il professor Johann Maria Adami, luminare della medicina forense e dei meandri della psiche, prelevato a Dachau da un suo antico allievo, che ha disertato la scienza e abbracciato il Reich, e portato lassù, nel castello-prigione del Führer, per scoprire cos’è successo a un giovane militare precipitato da una torre: suicidio o omicidio? Gesto estremo o mano assassina, potenzialmente letale per lo stesso Hitler?


Lei è Ada, dottoressa dei più poveri, moglie di un partigiano sparito nel nulla dopo l’Armistizio, che intorno alla Risiera scopre una scia di sangue, forse sgorgata dentro le mura dell’antica pileria: chi ha ammazzato due prostitute e brutalmente seviziato Margherita, figlia di una famiglia amica, facoltosa e borghese? Chi non violenta, ma azzanna come una fiera? “La Risiera ha denti. Morde”, le ha detto un vecchio pescatore.

 

La Risiera di San Sabba a Trieste, il lager col forno crematorio, l'unico dell'Europa meridionale (foto Lasorte)

 


Ilaria Tuti, scrittrice best seller di Gemona del Friuli, diventata famosa per la serie con protagonista la commissaria Teresa Battaglia, approdata anche su Rai Uno con grandi ascolti, torna alla sua passione per la storia, mescolandola al noir, altrettanto nelle sue corde. Da oggi, 1 ottobre 2024, è in libreria “Risplendo non brucio” (Longanesi, pagg. 320, euro 22), il romanzo che verrà presentato dall’autrice giovedì 3 ottobre, alle 18, nel Salone del Parlamento del Castello di Udine, in dialogo con la giornalista Martina Delpiccolo, e lunedì 7 ottobre, alle 18.30, al Miela, con il presidente Enzo D’Antona.

 

La scrittrice Ilaria Tuti (foto Paolo Gurisatti)

 


Trieste negli anni dell’occupazione tedesca è al centro di un intreccio complesso, su piani diversi, geografici ed emotivi, dove un Male ancora più profondo di quello scatenato dalla guerra risucchia i protagonisti: il blasonato docente, ischeletrito ma indomito nel difendere un ideale etico, niente svastiche nei luoghi di studio, che l’ha portato dritto a Dachau e al sacrificio degli affetti familiari, e la giovane dottoressa, cresciuta negli stessi valori, ma sopraffatta dalla solitudine e ferita da un padre che ha messo la sua coscienza davanti a tutto, anche al suo sangue.


Separati dai chilometri, li unisce a distanza un'identica sfida, quella che Ada trova negli appunti del padre scampati ai roghi nazisti e che fa sua: calarsi negli abissi dell’assassino. Scandagliare la sua mente, leggere ogni gesto, collegarlo in una strategia, muovendosi in quella zona torbida alimentata al conflitto, dove gli istinti più bestiali si affilano e si scatenano, bene e male si toccano, e la ferocia può colpire con una mano amica o un aiuto arrivare da chi crediamo aguzzino.


Nel nido dell’Aquila Professor Adami trova la soluzione della morte del giovane Haas e confeziona quella che il Führer vuole sentire, prima di mettersi in viaggio verso Berlino e la capitolazione. Nella sua bara di acciaio e cemento al castello di Kransberg non si è accorto dei piccioni viaggiatori che volano sulla sua testa con i messaggi degli Alleati, ormai sempre più vicini, e dei cospiratori che gli alitano sul collo. Non ha visto quell’arazzo dove qualcuno ha sapientemente ricamato nell’alfabeto Morse “Fuck Hitler” proprio sotto il suo naso.


Anche Ada scopre l’identità dell’assassino delle giovani donne, ma prima di vederlo inchiodato da una prova inconfutabile, incisa sulla pelle delle vittime, dovrà affrontare una discesa ancora più spaventosa di quella nelle perversioni del killer: la foiba. “Eravamo sopravvissuti. Lei aveva attraversato l’inferno. Lui lo aveva abitato, ne era risalito ed era tornato per raggiungerla”.
Aprono e chiudono il romanzo il lager di Dachau e il Tribunale di Norimberga, dove padre e figlia, questa volta insieme, guardano negli occhi il Male. In mezzo Trieste, sfregiata dai bombardamenti, e la sua Risiera. I nazisti in fuga hanno fatto saltare in aria il forno crematorio, il Gma ha imbiancato le pareti, inghiottendo nella calce nomi, colpe, testimonianze. Ada si impegna a far conoscere al mondo i crimini commessi dentro quelle mura, ma la gente intorno a lei vuole solo dimenticare e cercare di andare avanti.


Josef Oberhauser, condannato all’ergastolo in contumacia, non viene mai estradato dalla Germania, finendo i suoi giorni a gestire una birreria di Monaco. Nel ricordo di Ada è scolpito così, mentre in Risiera cattura con la lingua i coriandoli di cenere che scendono dall’alto, con un gesto quasi giocoso e infantile, come fossero fiocchi di neve.

MODA & MODI 

 

Lupa, lonza, leone: i vestiti bestiali e l'effetto wow 

 

La collezione di Schiaparelli firmata da Daniel Roseberry

 

Chissà se si è stupefatta la giornalista Rachel Tahjian, critica di moda del Washington Post, guardando sfilare sulla passerella parigina di Schiaparelli una Naomi Campbell con cappotto a pelo lungo e grande testa di lupa sulla spalla sinistra, nell’incarnazione della Cupidigia. Il direttore creativo del brand, Daniel Roseberry, ha detto di aver voluto allontanarsi dalle tecniche che conosce bene e avventurarsi in una sorta di dantesca “selva oscura”, utilizzando - bene precisarlo in tempi di hater - vetroresina e finta pelliccia per dare forma ai tre peccati capitali e alla loro rappresentazione animale. La Superbia? Eccola, è la modella Irina Shark in nero monospalla con enorme testa di leone, mentre a Shalom Harlow è toccato zampettare in abito maculato chiuso al petto da una lonza a fauci aperte, incarnazione della Lussuria.

Il riferimento alla giornalista americana non è casuale. “Davvero la gente ricca si veste in maniera così noiosa”? ha commentato Tahjian dopo la sfilata milanese di Gucci, l’ammiraglia del gruppo del lusso Kering che ha seri problemi di perdite economiche. Troppo scontati gli abiti, i completi, i trench, noiose le minigonne. A suo dire non c’è emozione dietro la tecnica, i capi danno l’idea del fatto a macchina e non a mano, mentre chi ha tanti soldi da permettersi il brand ha diritto di essere stupito da idee originali e anche chi non li ha, i soldi, ha diritto a un po’ di inventiva e a non vedersi rifilare la rifrittura di tendenze già da anni esplorate dalla fast fashion. Bocciato anche Ferragamo: un compitino normale del designer Maximilian Davis che serve solo a spingere le borse (sono loro che si vendono!), sproporzionate rispetto ai capi, onnipresenti, con dettagli incongrui. 

Insomma, sintetizzando i rilievi della giornalista: è ora di farla finita con le serie televisive Succession, White Lotus, Big Little Lies (aggiungerei ora The perfect couple su Netflix) e al prevedibile quiet luxury, il lusso sottotraccia che fa sbadigliare. “Per l’amor del cielo diventa un po’ creativo!” ha scritto Tajian senza giri di parole.
L’esortazione appare brutale, ma solleva una domanda importante: quanto siamo disposti a sacrificare all’effetto “wow” di una collezione?

La moda sta attraversando un momento terribile tra guerre in corso, paura del futuro che frena gli acquisti, mercati asiatici in crisi, chiusure di marchi. I creativi hanno una responsabilità, devono rispondere ai numeri e venire a patti con le richieste degli amministratori delegati, non è il momento di scorrazzare a tutto campo nelle praterie sconfinate dei vestiti folli. Il punto è uno: bisogna conciliare creatività e portabilità, l’eredità di un marchio storico e l’innovazione, idee e mercato, sogno e realtà. Chi acquista, sia il ricchissimo, sia il cliente “aspirazionale”, per cui la borsa è la chiave d’accesso a un mondo che non può permettersi in toto, pretende rispetto. Gucci e Ferragamo hanno proposto collezioni indossabili, solide, credibili. Al “wow” hanno preferito l’equilibrio. Mettersi addosso la lonza, il leone e la lupa sarebbe il vero peccato capitale.

lunedì 23 settembre 2024

 LO SCRITTORE

Umberto Saba e il Giappone che non vide mai

 

 

Umberto Saba sulle Rive di Trieste, quando ancora vi passavano i treni

 

 Si intitola “Intermezzo quasi giapponese”, la plaquette di Umberto Saba, tirata in due, tre copie, che la Biblioteca Hortis ha appena acquistato per il nuovo Museo della Letteratura di Trieste, Lets, in previsione dell’apertura della sala dedicata al poeta. Ma che cos’è quest’Intermezzo? Nell’aprile 1917 Saba scrive all’amico avvocato fiorentino Aldo Fortuna, di aver composto circa una quarantina di “Poesie giapponesi” di tre o quattro versi, che rappresentano il suo testamento artistico. Come al solito la libreria annaspa e Saba ha l’idea di pubblicare opere di pregio, in poche copie, per suscitare l’interesse dei bibliofili e spingerli a farsi concorrenza tra loro per accaparrarsele.


È l’ennesima strategia di marketing editoriale messa in campo dal poeta, dopo altre iniziative di scarsa fortuna. Il magazzino della libreria non si alleggerisce e il varo dell’«Editrice La libreria antica e moderna», inaugurato dalla pubblicazione del volumetto “Tentativi d’arte di Enrico Elia”, in vendita a tre lire, non ha dato i risultati sperati. Anzi, è stato un fallimento. «Io che non amo che cose buone, maturate in silenzio e con lentezza, mi trovo obbligato a dover fare ogni giorno dieci e più cose diverse; libreria, reclami per cinematografi, preoccupazioni familiari, questioni con le disordinatissime Messaggerie etc. etc. E con tutto questo strappo appena da vivere; mentre gli ebrei che ho d’intorno, sanno guadagnare 10.000 lire con un semplice colloquio al caffè”, si lamenta Saba con l’amico vociano Papini.

 

L'Intermezzo quasi giapponese conteneva 17 componimenti brevi

 

Come far soldi, dunque? Nasce da qui l’idea di percorrere la strada delle chicche per collezionisti: “Cose leggere e vaganti” viene pubblicato in 35 copie, il Canzoniere in dieci libretti singoli. Anche le “Poesie giapponesi” rientrano in questa operazione. I circa quaranta componimenti di pochi versi di cui Saba ha informato Fortuna non riescono a trovare un editore e il poeta deve inventarsi un modo per solleticare l’aspettativa degli intenditori. Spiega tutto nel colophon dell’Intermezzo acquisito dalla Biblioteca, che contiene 17 brevi componimenti: «Tra un sogno e l’altro - un intermezzo di versi - ho raccolto alcuni giocattoli scritti in tempo di guerra. A rendere meno aride queste parole ecco il frontespizio con un disegno di Vittorio Bolaffio, lui amico dell’Oriente, e la confezione di Virgilio Giotti, poeta e libraio come me».


Ma il Giappone? Nessuno di loro l’ha di certo visitato, forse solo orecchiato dai racconti dei fuochisti del Lloyd. Il filologo Arrigo Castellani ammette che Saba abbia letto l’antologia di poesie “Note di Samisen”, edita da Carabba nel novembre del 1915 e fondamentale per l’introduzione in Italia della lirica tradizionale giapponese, ma ritiene che che haikai e tanka abbiano agito su di lui piuttosto come stimoli a una personale riscoperta dell’epigramma. I componimenti dell’Intermezzo, che risentono dell’influenza de “Il porto sepolto” di Ungaretti, riprendono stati d’animo, momenti atmosferici, vite di animali. Il Paese del Sol Levante non c’entra nulla e lo dice lo stesso Saba nei versi della poesia “Viaggio al Giappone”: «Nell’antico Giappone (io mi dicevo) son gli stessi viali che ho lasciato là, in Europa... Due passi, e al luogo amato parmi d’essere. E c’ero infatti. Avevo d’esser lungi sognato».


Quelle che non mancano sono le suggestioni visive. Il Circolo Artistico Triestino aveva organizzato alcuni anni prima della plaquette giapponese due mostre d’arte orientale, una nel 1908 curata da Carlo Wostry e l’altra nel 1912 affidata ad Argio Orell.
Come già fatto in passato, Saba dissemina indizi di questo suo “testamento” in edizione limitata, fa circolare manoscritti e dattiloscritti, pubblica qualche testo sulle riviste, come spiega nel volumetto “Intermezzo quasi giapponese” la curatrice Maria Antonietta Terzoli, ricostruendo la “mappa” promozionale dell’opera.


Ma il marketing del poeta è poco efficace. Una copia dell’Intermezzo la regala allo scultore Ruggero Rovan, che a sua volta la dà a Bruno Astori perchè la pubblichi sulla rivista del Lloyd “Sul Mare”, per farla poi ritornare nelle mani di Anita Pittoni. La stessa copia, attraverso Giotti, arriva al poeta Carolus Cergoly. Passaggi di mano nel suo circolo di amici e intellettuali che non risollevano i conti.


Intanto, il fascino giapponese che attraversa i primi decenni del Novecento continua a catturare anche Trieste e Saba non ne è immune. Nel dicembre 1930 la libreria pubblica il catalogo n. XXXII che contiene una sezione dedicata a libri illustrati dell’arte giapponese (le “Vedute del fiume Yeddo” di Hiroshige e le “Cento vedute del vulcano Fugi-yama”, in tre volumi, di Hokusai). Anche nel catalogo n. XXXVI dell’ottobre 1931 compaiono gli album di stampe giapponesi “provenienti da una grande collezione”. Dopo gli anni Trenta in città si apre la Mostra dell’Estremo Oriente a cura di Oreste Basilio, dove spiccano due sale con la “raccolta di stampe colorate giapponesi del cav. Morpurgo De Nilma” con opere di Outamaro, Hokusai, Hiroshige e la collezione di pannelli giapponesi della baronessa Mary de Albori.


L’«Intermezzo» è stato acquisito dalla Biblioteca Hortis dalla Libreria Drogheria 28 di Simone Volpato - che da anni studia con Marco Menato l’antro di Saba, le sue relazioni con i clienti, la struttura dei cataloghi - e ha trovato collocazione nella collezione di Lets proprio alla vigilia dell’apertura al pubblico, il 13 settembre 2024. Il Giappone del poeta era vicino: “Ebbi un solo, per lunghi anni conforto:/ dove gli altri eran tutti a lavorare/ io di Trieste per le strade e il porto a bighellonare”.

mercoledì 28 agosto 2024

MODA

Emily in Paris veste Roberto Capucci

L'abito nell'archivio a Villa Manin

 

 



 Roberto Capucci cade dalle nuvole. «Non ne sapevo niente» dice il grande couturier romano, il cui preziosissimo archivio è conservato a Villa Manin di Passariano dove ha sede anche la Fondazione che porta il suo nome. Il suo abito “Nove Gonne”, rosso fuoco in taffetà di seta, anno 1956, agli esordi del made in Italy nel mondo, comparirà nella seconda parte della serie “Emily in Paris”, le cui nuove puntate debutteranno su Netflix dal 12 settembre.


È una citazione, non l’originale. Emily, in trasferta romantica a Roma, scenderà la scalinata di Piazza di Spagna in un modello quasi identico a quello di Capucci, anch’esso custodito a Villa Manin, con la sostituzione di un paio di pantaloni Capri alla gonna a tubo che nella versione autentica esce dalla raggiera di nove strati di tessuto, poi raccolti in un breve strascico (questioni di copyright?).

«Nessuno ci ha consultato - conferma il nipote del designer, Enrico Minio Capucci, responsabile della Fondazione - ma ne siamo felicissimi. L’abito fa parlare quasi più della serie. È comparso su Vogue Spagna, su molti blog, su Vanity Fair, dove nell’articolo è riportato in fotografia un altro abito Capucci attualmente esposto a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia, nella mostra su moda e design degli anni Sessanta, un modello della Linea Optical ispirato all’Op-Art e alle opere di Victor Vasarely».


Il “Nove Gonne”, disegnato da Capucci a 26 anni guardando i cerchi concentrici disegnati da un sasso lanciato a pelo d’acqua, è una delle creazioni più iconiche ed esposte della sterminata collezione storica del couturier, accanto al celebre “Fuoco”, ed è appena rientrato a Passariano da un allestimento alla Fondazione Zani di Brescia dedicato al rosso nei busti di porfido romani e al rosso nella moda.

 Il “Nove Gonne” fu realizzato per una delle tante, famose clienti del couturier, le fedeli “capuccine”, la nuotatrice Esther Williams, protagonista di “Bellezze al bagno”, ma in una versione diversa da quella custodita a Villa Manin, con spalle e schiena scoperte, per permettere all’ex nuotatrice di mettere in mostra la sua notevole fisicità. Ha fatto anche pubblicità, fotografato nel ’57 per promuovere una fiammante Cadillac sullo sfondo del Foro Romano. L’anno scorso, sempre a Palazzo Attems Petzenstein a Gorizia, l’abito era tra i più celebrati della mostra dedicata agli anni Cinquanta e alla nascita dello stile italiano.

 

 

"Italia Cinquanta" nel 2023 a Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia


L’Emily della serie, l’attrice Lily Collins, pr di Chicago esportata nella Ville Lumière, dove per i critici, in particolare d’oltralpe, interpreta fin troppo filologicamente gli stereotipi sullo stile francese visto dagli americani, nella nuova parte della stagione si sposta a Roma. E qui, fatalmente, proprio come Audrey Hepburn nelle “Vacanze romane” di William Wyler del 1953, con cui vinse l’Oscar, incontrerà il suo Gregory Peck, che nella serie - a proposito di stereotipi - non poteva che chiamarsi Marcello (l’attore Eugenio Franceschini), e si farà scarrozzare in Vespa nella città della Dolce Vita con una serie di mise, dal foulard al collo alla gonna ampia con sottogonna di tulle, modellate dalla costumista Marylin Fitoussi su quelle indossate dell’inarrivabile Audrey.


A Villa Manin, intanto, si lavora al Museo dedicato al genio inventivo di Roberto Capucci, che dovrebbe aprire entro l’anno, in vista della Capitale della Cultura. Esposizioni a tema che presentino al pubblico non soltanto le sue architetture tessili, ma anche le sculture e l'infinito giacimento di disegni e costumi, gli ultimi per “Le creature di Prometeo. Le creature di Capucci” al Festival dei due mondi di Spoleto.

martedì 20 agosto 2024

MODA & MODI

Bermuda, slip, perizoma: le opzioni del maschio al mare 

 

Alain Delon e Romy Schneider in "La piscina" (1969) di Jacques Deray

 


 Mutande, boxer, bermuda? Slip o calzoncini? Gli uomini non sono esenti dalle regole del bon ton da spiaggia, anche se le loro opzioni sono apparentemente più semplici e scontate. Regole non scritte e non sanzionate - salvo quelle in vigore in molte località balneari, che vietano di aggirarsi senza maglia o in costume in città, per scongiurare che un popolo seminudo attraversi le strade, entri nei negozi o si accomodi al ristorante - si richiamano al buon senso e al buon gusto, territorio scivoloso e interpretabile, dove è facile sentirsi nel giusto.

 

Questione di misure e di proporzioni, prima di tutto. Se i costumi maschili non conoscono il cut out, perché nessun designer potrebbe arrivare a tanto da tagliare un pezzo di stoffa qua e là, scoprendo che ne so una porzione di gluteo o uno spicchio di pube pur di esercitare la sua creatività su un pezzo di stoffa pressoché immodificabile, lunghezza e forma fanno la differenza, eccome.

 

Bermuda fino al ginocchio o oltre? Banali considerazioni sulla scomodità dovrebbero scoraggiare questa opzione. È consigliabile non aggirarsi in spiaggia con un paio di pantaloni da città, peggio se con tasche posteriori o laterali, inutili ammennicoli soprattutto sulla sabbia. Il calzone urbano non diventa calzone da mare solo perché si attraversa il confine tra città e spiaggia, non è un capo fungibile e ancora meno un alibi per evitare di cambiarsi, fa solo sembrare troppo vestiti e appesantiti per il contesto.

 

Gli slip a mutanda? Il coro dovrebbe levarsi solenne, come nella tragedia greca: rasentano il filo della volgarità e non stanno bene a nessuno, per quanto palestrati e asciutti possiate essere. Brutti sui magri, inguardabili su chi è sovrappeso o sovrapancia. Certamente le recenti olimpiadi hanno suscitato qualche fantasia emulativa, da allontanare senza patemi. Le mutande possono serenamente rimanere confinate nell’intimo inteso come categoria vestimentaria e come privacy. E c’è un’aggravante: l’utilizzo, il sale, il cloro, ne allentano i bordi, rendendo ancora più difficile sottrarsi all’effetto penzolamento.

 



La scelta che rimane è la migliore: il pantaloncino a metà coscia. Alain Delon ne "La piscina" con Romy Schneider (1969) è l'immagine che in queste ore abbiamo davanti agli occhi. D'accordo, Delon. Ma il pantaloncino è decoroso per qualsiasi età e fisico. Chi vuole sbizzarrirsi ha colori e fantasie a volontà, per gli altri c’è la palette dei blu. Il dilemma, semmai, è che cosa metterci sotto per evitare il fastidio delle reticelle contenitive. Ecco allora che lo slip-mutanda può ritrovare, ben nascosto, una sua ragion d’essere. Non così il comune boxer di cotone con il bordo griffato - i sempiterni Armani-Calvin Klein-Ralph Lauren - da lasciar uscire dai pantaloncini, in pratica l’urbana mutanda a vista trasferita al mare, purchè ci sia il logo.

 


 


Veniamo all’estremo, l’innominabile. Pensavate che fosse esclusiva delle scuole di danza? Non è così. Il perizoma si aggira tra noi (molto più vicino di quanto pensiate) complice il fisico senza maniglie di qualche temerario estimatore. Qui gli aggettivi vengono meno per non essere tacciati di un qualsivoglia shaming, dal body al cervello. Lavorate di fantasia, la risposta verrà da sé.