E' ITS THREE A TRIESTE
Demna Gvasalia dalla Georgia vince la terza edizione del fashion contest
Demna Gvasalia dalla Georgia vince la terza edizione del fashion contest
La collezione maschile di Demna Gvasalia (foto di Andrea Lasorte per Il Piccolo) |
TRIESTE Viene dalla Georgia, studia in Belgio, e immagina uomini a loro agio in giubbotti voluminosi, di pelle e lana, da portare su pantaloni aderenti ai polpacci, che assomigliano vagamente ai mutandoni di lana dei cercatori d'oro del vecchio West. Lui si chiama Demna Gvasalia e ha vinto il premio più importante, tredicimila euro, del concorso di moda per giovani stilisti ITS Three, assegnato per la prima volta, sabato notte in Porto Vecchio, a una collezione tutta maschile.
Un'edizione che ha ridisegnato la geografia dei nuovi talenti della moda, mandando i riconoscimenti principali verso le Filippine, l'Austria, gli Stati Uniti, paesi un po' tagliati fuori dalle consuete rotte della creatività emergente. Il colpo d'occhio offerto dalla collezione di Demna, ventitre anni, è quello di un gruppo di viaggiatori internazionali, ricercati nei dettagli ma non leziosi, mascolini eppure in qualche modo morbidi, disarmati: proprio il tipo di «mood», di umore, che hanno trasmesso le ultime passerelle della moda maschile di Parigi.
La giuria del concorso - nomi di punta, tra cui gli stilisti Antonio Marras, Ennio Capasa e Raf Simons, il direttore dell'edizione francese di Vogue Uomo, Richard Buckley e il direttore creativo di Diesel, Wilbert Das: tutti presenti alla serata finale - ha fatto scelte poco audaci, orientate al prodotto, ai capi immediatamente indossabili e vendibili, concedendo pochi spazi alla sregolatezza. Un orientamento che ha penalizzato l'unico geniaccio tra i ventitre finalisti, il giapponese Yoshikazu Yamagata, che se ne tornerà a casa con la consolazione di un premio speciale, inventato lì per lì al posto di quello, non assegnato, per gli accessori, oltre all'«Ingeo Award», dedicato al capo più convincente confezionato con la fibra prodotta dallo sponsor, riciclabile al cento per cento. Eppure sarebbe bastato questo delizioso abitino bianco, dal taglio asimmetrico, a fugare ogni dubbio sulle potenzialità del giovane stilista.
Quella di Yoshikazu è stata l'ultima uscita in passerella, la più teatrale (ma chi ha pensato di abbassare riflettori??). Peccato che la sua non fosse una collezione di abiti, anzi nemmeno una collezione, ma una piccola tribù metropolitana, con un barbone coperto dalla testa ai piedi di spruzzi di filo colorato e casetta di cartone sulle spalle, una sposa con l'abito decorato di rocchetti, un uomo in frac con la camicia lunga fino ai piedi e una valigia piena di cose misteriose, un clown dalla giacca affollata di pupazzetti. Una fiaba raccontata con i vestiti, un piccolo, grande spettacolo, un po' come quelli che sempre si pretendono dall'alta moda, costruito su abiti importabili (e qualche modella ha fatto i capricci, in prova, visto il peso degli «accessori»...), ma essenziali per capire un mondo, una filosofia, un percorso: non si indosseranno mai, ma forse permetteranno al loro inventore di diventare quella firma che spingerà lefashion victim di domani a comprare le sue magliette e i suoi pantaloni.
Peccato. I tempi di ripiegamento e la crisi globale, hanno fatto propendere per proposte poco spiazzanti. Come l'impeccabile collezione femminile dell'americano Steven Hoffman, secondo premio (cinquemila euro), uscita da un album di figurini anni '50, con gonne aderenti, trench a corolla che citano il new look di Christian Dior, pull dipinti sul busto e «raddoppiati» sulla schiena, abiti da cocktail. O quella del terzo premio (cinquemila euro), il giapponese Takashi Sugioka, che ama le linee semplici, i colori pastosi della terra, uno street-style da brava bambina, aggiornata ma non provocante. L'ambito «Diesel Award», praticamente un contratto di lavoro con l'azienda di Renzo Rosso - anche lui arrivato a Trieste e seduto in prima fila accanto al presidente della Camera nazionale della moda, Mario Boselli - è andato al filippino Lesley Mobo, che ha proposto donne imbozzolate in giubbotti post-atomici, mentre la talent scout francese Maria Luisa Poumaillou, componente della giuria, ha scelto per le vetrine della sua boutique di Parigi le collezioni di due austriaci, Iris Eibelwimmer e Peter Pilotto, accomunati dalla propensione per i fuseaux e per i colori indigesti: giallo acido, rosa smalto, verde pennicilina.
Porto Vecchio irriconoscibile, sabato sera, con l'ex magazzino Pacorini per una notte diventato crocevia di lingue, di scambi, di energia. Faceva uno strano effetto vedere, tra tanti spazi da tempo deserti, orbite vuote e silenziose, l'enorme capannone pulsare di luci, di musica, di giovani arrivati da paesi di mezzo mondo per giocarsi, a Trieste, la prima grande opportunità di sfondare.
Quest'edizione di ITS, la terza, con oltre mille persone e giornalisti da quindici paesi, ha laureato definitivamente il concorso come uno dei più importanti d'Europa, sostenuto dalla macchina organizzativa oliata dell'agenzia «Eve» di Barbara Franchin (unico appunto, i presentatori della serata, Benedetta Barzini e Ted Polhemus: senza ritmo e prolissi).
«A Trieste le nazioni unite dello stile» è stato detto. Verissimo, complice uno spazio sul mare per la prima volta restituito alla vita, alla dimensione di porto franco della fantasia. C'è da augurarsi che ITS diventi four, five e ancora avanti, rimanendo un evento radicato a Trieste. E che adesso sappia conquistarsi, dopo le simpatie internazionali, anche quelle, più avare, della sua città.
La giuria del concorso - nomi di punta, tra cui gli stilisti Antonio Marras, Ennio Capasa e Raf Simons, il direttore dell'edizione francese di Vogue Uomo, Richard Buckley e il direttore creativo di Diesel, Wilbert Das: tutti presenti alla serata finale - ha fatto scelte poco audaci, orientate al prodotto, ai capi immediatamente indossabili e vendibili, concedendo pochi spazi alla sregolatezza. Un orientamento che ha penalizzato l'unico geniaccio tra i ventitre finalisti, il giapponese Yoshikazu Yamagata, che se ne tornerà a casa con la consolazione di un premio speciale, inventato lì per lì al posto di quello, non assegnato, per gli accessori, oltre all'«Ingeo Award», dedicato al capo più convincente confezionato con la fibra prodotta dallo sponsor, riciclabile al cento per cento. Eppure sarebbe bastato questo delizioso abitino bianco, dal taglio asimmetrico, a fugare ogni dubbio sulle potenzialità del giovane stilista.
La tribù di Yoshikazu Yamagata (foto di Andrea Lasorte per Il Piccolo) |
Quella di Yoshikazu è stata l'ultima uscita in passerella, la più teatrale (ma chi ha pensato di abbassare riflettori??). Peccato che la sua non fosse una collezione di abiti, anzi nemmeno una collezione, ma una piccola tribù metropolitana, con un barbone coperto dalla testa ai piedi di spruzzi di filo colorato e casetta di cartone sulle spalle, una sposa con l'abito decorato di rocchetti, un uomo in frac con la camicia lunga fino ai piedi e una valigia piena di cose misteriose, un clown dalla giacca affollata di pupazzetti. Una fiaba raccontata con i vestiti, un piccolo, grande spettacolo, un po' come quelli che sempre si pretendono dall'alta moda, costruito su abiti importabili (e qualche modella ha fatto i capricci, in prova, visto il peso degli «accessori»...), ma essenziali per capire un mondo, una filosofia, un percorso: non si indosseranno mai, ma forse permetteranno al loro inventore di diventare quella firma che spingerà lefashion victim di domani a comprare le sue magliette e i suoi pantaloni.
Peccato. I tempi di ripiegamento e la crisi globale, hanno fatto propendere per proposte poco spiazzanti. Come l'impeccabile collezione femminile dell'americano Steven Hoffman, secondo premio (cinquemila euro), uscita da un album di figurini anni '50, con gonne aderenti, trench a corolla che citano il new look di Christian Dior, pull dipinti sul busto e «raddoppiati» sulla schiena, abiti da cocktail. O quella del terzo premio (cinquemila euro), il giapponese Takashi Sugioka, che ama le linee semplici, i colori pastosi della terra, uno street-style da brava bambina, aggiornata ma non provocante. L'ambito «Diesel Award», praticamente un contratto di lavoro con l'azienda di Renzo Rosso - anche lui arrivato a Trieste e seduto in prima fila accanto al presidente della Camera nazionale della moda, Mario Boselli - è andato al filippino Lesley Mobo, che ha proposto donne imbozzolate in giubbotti post-atomici, mentre la talent scout francese Maria Luisa Poumaillou, componente della giuria, ha scelto per le vetrine della sua boutique di Parigi le collezioni di due austriaci, Iris Eibelwimmer e Peter Pilotto, accomunati dalla propensione per i fuseaux e per i colori indigesti: giallo acido, rosa smalto, verde pennicilina.
Porto Vecchio irriconoscibile, sabato sera, con l'ex magazzino Pacorini per una notte diventato crocevia di lingue, di scambi, di energia. Faceva uno strano effetto vedere, tra tanti spazi da tempo deserti, orbite vuote e silenziose, l'enorme capannone pulsare di luci, di musica, di giovani arrivati da paesi di mezzo mondo per giocarsi, a Trieste, la prima grande opportunità di sfondare.
Quest'edizione di ITS, la terza, con oltre mille persone e giornalisti da quindici paesi, ha laureato definitivamente il concorso come uno dei più importanti d'Europa, sostenuto dalla macchina organizzativa oliata dell'agenzia «Eve» di Barbara Franchin (unico appunto, i presentatori della serata, Benedetta Barzini e Ted Polhemus: senza ritmo e prolissi).
«A Trieste le nazioni unite dello stile» è stato detto. Verissimo, complice uno spazio sul mare per la prima volta restituito alla vita, alla dimensione di porto franco della fantasia. C'è da augurarsi che ITS diventi four, five e ancora avanti, rimanendo un evento radicato a Trieste. E che adesso sappia conquistarsi, dopo le simpatie internazionali, anche quelle, più avare, della sua città.
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