Un killer custodisce i fiori sopra l'inferno
Ilaria Tuti |
Travenì è un paese immaginario incastonato nelle Dolomiti. Tutt’intorno panorami annichilenti, vette silenziose, distese di vegetazione scura e spessa che lasciano improvvisamente spazio alla durezza della pietra. Ma nelle case di quel piccolo centro niente è incontaminato. Un’atavica povertà, appena riscattata dal turismo nascente, ha lasciato tracce nel sangue e sul viso della gente. Nelle case si muovono ombre e si custodiscono segreti e la comunità si chiude a riccio contro ogni tentativo di scoprire i suoi fantasmi, che si muovono ai margini, sanno vedere al buio, e dominano l’ambiente con l’istinto delle bestie.
Travenì non esiste, ma Ilaria Tuti, che vive a Gemona del Friuli, sa restituire con grande forza nella scrittura un mondo che conosce bene, che ha respirato fin da piccola, reso fragile prima dalla violenza scatenante della natura, poi dal cambiamento sociale, che è un’intrusione controllata ma altrettanto invasiva. È qui, in questa geografia territoriale e umana piena di ferite e fratture, che si muove il commissario Teresa Battaglia, protagonista del thriller d’esordio di Tuti, “Fiori sopra l’inferno” (pagg. 350, euro 16,90), da oggi in libreria. Un doppio debutto al femminile, che ha convinto la casa editrice Longanesi, la stessa di un giallista come Donato Carrisi, autore di bestseller tradotti in tutto il mondo. Alla Fiera di Francoforte il giallo è stato un caso editoriale e i diritti sono stati venduti in più di venti paesi nel mondo.
“Ingabbanata” è il neologismo che l’autrice usa per presentarci la sua ispida detective, a cui sa regalare tratti in grado di distinguerla nell’affollato parterre degli investigatori italiani. Così, intabarrata e informe in mezzo alla neve, la vede il giovane ispettore Marini, appena arrivato dalla città a collaborare alle indagini su un omicidio ferino: l’ammazzato è un ingegnere di Travenì, sposato e padre di un bambino, a cui il killer ha strappato gli occhi con le unghie prima di abbandonarlo circondato da trappole rudimentali, perché gli animali non ne facciano scempio. Poco distante una sorta di spaventapasseri, vestito con gli abiti insanguinati del morto, un feticcio quasi infantile. Da questo strano “staging”, messa in scena inquietante, parte l’indagine.
Teresa ha sessant’anni, un corpo franante, e le maniere spicce di chi ha dovuto conquistarsi autorevolezza in un ambiente maschilista. È diabetica, talvolta la sua memoria e la sua lucidità si appannano e, come molti suoi colleghi letterari, custodisce un segreto del passato che però riesce a trasformare in empatia piuttosto che in cinismo, soprattutto se i suoi interlocutori sono bambini. E che prima degli altri le fa intuire non il raptus ma il percorso, gli abissi di solitudine, di abusi, di rifiuto che, da molto lontano, sfociano nel sangue. Gli orridi dell’individuo, uguali a quelli della natura in cui si rifugia.
Gli occhi. Non bastano al killer, che torna a colpire. Si accanisce su orecchie e naso di una seconda vittima, vuole impossessarsi dei sensi degli altri, anche se alla fine risparmia la vita. Ruba gli organi per ridarli a qualcuno che gli è caro e gli è stato portato via? Quale schema seguono le sue azioni?
Teresa e la sua squadra sbattono contro muri di riservatezza. Il paese si scopre violato e non solo dall’efferatezza del crimine. La natura, col suo scrigno di bellezze, arretra davanti all’avanzare degli impianti, delle piste da sci che sottraggono la terra alla sua secolare povertà, ma in qualche modo ne appannano l’identità, frugano nei suoi recessi, la lasciano disboscata e inerme, come i suoi abitanti. L’equilibrio si è rotto, fa fuggire a valle gli animali, stana gli uomini.
Al centro del thriller ci sono i bambini di Travenì, gli unici che riescono a fare squadra e a difendersi l’un l’altro dall’anaffettività, le trascuratezze, le vere e proprie violenze degli adulti che li circondano. Solo con loro ha stabilito un contatto quell’uomo senza volto, che pare colpire al di fuori da ogni logica, che ha ucciso solo una volta ma si è accanito come un lupo sui volti delle altre vittime. E come se i bambini fossero suoi pari, ne conoscesse bisogni e fragilità, fosse abituato ad ascoltare i loro respiri e i loro pianti, e in lui suscitassero la necessità dell’accudimento.
È questa la parola chiave, il codice primario di comunicazione. Perché - senza togliere la suspense - sulla storia principale Ilaria Tuti ne innesta un’altra con al centro una misteriosa Scuola appena fuori il confine austriaco, dove a fine anni Settanta, sulla scorta di teorie psicanalitiche varate negli anni bui della seconda guerra mondiale, su piccole cavie si sperimentano metodi di crescita sinistri.
L’autrice è abile a cambiare repentinamente il punto di vista della narrazione, in modo da trascinare il lettore dagli scenari di indagine ai corridoi della Scuola, dove per tutti vige la regola del ”vedere, osservare, dimenticare”, fino ai nascondigli del torturatore, facendone annusare la paura e i bisogni, che sono quelli di una animale dominatore, sfuggito al suo aguzzino. E lei, il commissario Teresa Battaglia, alla fine riesce quasi a farci simpatizzare con il mostro, fiero e incontaminato, in qualche modo innocente, come si è tutti allo stadio in cui si è arrestato il suo sviluppo. Un bambino deprivato nel corpo di un guerriero, che - citando l’haiku del poeta giapponese Kobayashi Issa preso a prestito per il titolo - sente d’istinto di dover proteggere i fiori, per guardare oltre l’inferno a cui è sopravvissuto.
Un thriller teso fin quasi alla fine, quando la necessità di sciogliere e richiamare i tanti fili dell’intreccio si gioverebbe forse di un editing più serrato. Teresa Battaglia è un’antieroina così poco “maledetta”, che cattura il lettore e lo fidelizza per future altre indagini. E se oggi le ambientazioni di gialli e noir italiani tra neve e montagne non sono un’originalità, Ilaria Tuti sa far vibrare una natura che qui sentiamo particolarmente vicina, rendendola, a ogni riga, incombente protagonista.
@boria_a
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