David Litt: Così ho insegnato a Obama a far ridere
David Litt con Obama e il capo degli speechwriter Cody Keenan |
David Litt |
Prima di House of Cards e Scandal, è stata la serie televisiva West Wing a portarci nelle stanze del potere vicine allo Studio Ovale, nell’ala ovest della Casa Bianca, dove lavorano i più stretti collaboratori dell’uomo più potente del mondo, il presidente degli Stati Uniti. David Litt, per sua stessa ammissione, non è Rob Lowe, l’attore che sul piccolo schermo interpretava il vice capo della comunicazione: aitante, carrierista, sciupafemmine, sempre capace di escogitare la strategia vincente per scongiurare una crisi. Ma Litt, ad appena ventiquattro anni, in quelle stanze del potere ci è entrato davvero, non solo nella fiction. E per Obama, dal 2011 al 2016, ha trovato e scritto molte parole, magari non solo quelle alte e alate che avrebbe sognato, su infrastrutture e giustizia penale, ma le battute, le frasi ironiche, i sottintesi divertenti che hanno fatto ridere e sorridere gli americani. E se non entreranno nella Storia con la s maiuscola, hanno restituito un presidente meno ingessato nel suo perfezionismo e nella sua preparazione, rendendolo in qualche modo umano. Perfino insicuro o disarmato.
Immaginatevi un Obama che non riesce a pronunciare “buona festa” in ebraico e continua a inciampare sul gutturale suono ch di chag sameach. Ha percorso migliaia di chilometri attraverso il pianeta, è distrutto dal jet lag, ma ci prova fino a quando il risultato non è accettabile, consapevole di quanto possa contare una frase, per quanto semplice. «Perché non avevo scritto buone feste in inglese, anziché usare una parola così difficile da pronunciare?» si rammarica Litt, autore del discorso per la Pasqua ebraica. Il problema, spiega, è l’invisibile “polvere magica” che aleggia alla Casa Bianca, il granello sempre in agguato per inceppare la macchina più sofisticata. «Quando sul tuo biglietto da visita c’è lo stemma del presidente, errori altrimenti insignificanti rischiano in un batter d’occhio di trasformarsi in una catastrofe».
È stata un’esperienza entusiasmante, con qualche risvolto surreale, per un neolaureato di Yale diventare uno dei più giovani speechwriter di Potus, President of The United States, secondo l’acronimo ormai familiare anche ai non addetti ai lavori. Tant’è che i veri uomini del presidente, lo chiamano semplicemente P, a marcare una differenza di consuetudine e vicinanza, l’appartenenza a un gruppo ristretto. Arruolato subito dopo l’università tra gli “Obamabot”, gli attivisti e supporter delle campagne elettorali, Litt entra in poco tempo a far parte dello staff superspecializzato delle “penne”. I ghost writer di indirizzi di saluto, commemorazioni, elogi, discorsi sui più diversi temi, gli estensori di quelle “minute” che poi saranno passate palmo a palmo dai fact checker. Un’inesattezza o il rischio di un’interpretazione equivoca possono scatenare tensioni internazionali, crisi politiche, attacchi mediatici, l’ironia degli avversari. Su ogni parola l’ultima parola spetta naturalmente allo stesso P.
“Tuttofare retorico” si definisce Litt, con una specializzazione particolare: entrare in campo quando Obama non deve fare il “grande consolatore” del paese, ma il “grande comico”. È il caso delle cene con i giornalisti, o con i potenti e miliardari, quando serve la battuta fulminante per un titolo che l’indomani conquisti l’opinione pubblica. Litt ha dovuto fare anche qualcosa di meno piacevole: trovare il coraggio per dire al presidente che una sua foto accanto al primo ministro israeliano andava tolta di mezzo prima che sorgesse un incidente diplomatico spiacevole. Il motivo? Da un’angolatura ricordava Hitler.
“Grazie, Obama” (HarperCollins, pagg. 375, euro 18,00), le memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi, sono la cronaca brillante di un temporaneo insider della Casa Bianca. Lo stesso Litt lo presenterà a pordenonelegge (www.pordenonelegge.it), nella giornata conclusiva della kermesse, domenica 23 settembre 2018 (all'istituto Vendramini, ore 17).
Aneddoti, curiosità, personaggi. I collaboratori, i portavoce, la sicurezza. Il ritratto del presidente, nei suoi tratti umani e nella sua inumana capacità di lavoro e concentrazione. La sua abilità di andare subito al punto, e il suo gusto di punzecchiare, il suo annunciarsi fischiettando. Il sogno del primo uomo nero a guidare gli Stati Uniti, delle sue riforme a volte difficili, osteggiate, dall’avvio farraginoso, che sono riuscite a migliorare la vita di milioni di americani. L’Obamaworld, con le sue regole, la sua agenda, i retroscena che paiono incredibili in un sistema sottoposto a un controllo maniacale.
Solo chi ha il badge blu può muoversi liberamente e percorrere la West executive Avenue, la strada che separa il generico campus, familiarmente chiamato “palazzo”, dalle autentiche stanze dei bottoni, senza rischiare di essere bloccato dalla sicurezza. Con un’unica eccezione: il gatto Smokey, alimentato in segreto da qualche agente con un debole felino. Il “first randagio” è dotato di uno straordinario senso dell’opportunità politica, che lo spinge a mostrare gli artigli e a far la guardia al sancta sanctorum del presidente quando l’economia dà segni di debolezza o una crisi è all’orizzonte.
In una toilette, quella stessa probabilmente usata da Nixon O Johnson quando erano vice, cui si accede da una scala a spirale che forse anche Roosevelt percorse prima della poliomielite, l’episodio più sconcertante: un filetto di salmone alla griglia, quel giorno nel menù di Ike’s, il deplorevole self service interno, rinvenuto da Litt a galla nel water, intonso. Possibile che fosse stato l’unico altro occupante del bagno, un agente del Secret service, uno degli X-Men che vigilano a vista il presidente, a essersi liberato così platealmente di un piatto sgradito? Cosa c’era dietro? Ed ecco, avverte Litt, ancora una volta l’effetto della polvere bianca, dell’influenza perversa del potere: nè una toilette, nè una scala e nemmeno un filetto di salmone a galla in un water sono semplicemente quello che sono.
E l’Air Force One? Lo chiamono così i neofiti del potere, per gli iniziati è solo “The Plane”. E dentro è tutt’altro che mitico, come nel film con Harrison Ford: i posti sono assegnati in base all’importanza di chi li occupa, con il “cuore” in testa dove il presidente ha l’ufficio privato, quindi il corridoio centrale può essere percorso solo all’indietro, mai avanzando. C’è di più: è rumoroso, fa freddo, una luce stordente sale da terra, si mangia cibo spazzatura ed è impossibile dormire senza i sonniferi che il medico di bordo distribuisce generosamente prima di decollare. Solo un novellino li rifiuterebbe. Un’avvertenza: mai abbuffarsi a colazione prima dell’atterraggio, se non volete trovare una fila interminabile per la toilette e rischiare di scendere in pigiama. In entrambi i casi, Litt ne sa qualcosa.
Spiritoso, autoironico, imprevedibile, sempre affettuosamente partecipe, questo diario ci racconta dall’interno il grande sogno dell’I Care e di quanti, anche solo mettendo in fila le parole più appropriate, hanno contribuito a costruirlo. Compreso un neolaureato che esordì nella West Wing rischiando di pestare un paio di lucide scarpe nere e di scoprire cosa fa il Secret Service agli sprovveduti che danno una testata nel petto di Potus. Anzi, di P.
@boria_a
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