I figli dell'estate di Monika Held e il peso della memoria
«Che colore, che odore ha la sua infanzia?». Rania, psicologa, rivolge questa domanda centinaia di volte, a tanti interlocutori diversi. L’obiettivo del suo studio è capire perchè oltre la metà delle persone che per decenni ha lavorato e vissuto lontano dal luogo di nascita, nella vecchiaia torni ai paesaggi dei primi anni di vita o ne senta una nostalgia struggente.
Anche l’infanzia di Rania ha avuto colori e odori: il bianco e il grigio dell’acqua e del cielo, che si toccano in un fondale unico, e il puzzo della fabbrica della farina di pesce. È il paesaggio tagliente del Wattenmeer, nella Germania del Nord, dove la donna ha deciso di tornare, dopo la scoperta del tradimento del compagno. Due stanze in affitto affacciate su una natura familiare, per curare la sua ferita senza bisogno di parole, lasciandosi invadere dall’aria di casa. In una geografia che riconosce, come un cieco gli spazi in cui è abituato a muoversi da sempre.
Rannicchiata nella grande poltrona sul balcone, Rania guarda i bagnanti concludere la giornata in spiaggia. Improvvisamente, davanti ai suoi occhi, lo scenario sbiadisce e lascia il posto ad altre immagini, che si sovrappongono a quelle reali, come in un’allucinazione: una piscina, una bambina che ci cade dentro, un ragazzino impietrito e immobile su una panchina davanti al mare. Ed ecco lei, Rania quindicenne, correre, tuffarsi, ripescare quel corpicino dal fondo, con i capelli fluttuanti come alghe.
Da quel giorno lontano, la piccola è diventata uno dei tanti “Figli dell’estate”, titolo dell’intenso romanzo della scrittrice tedesca Monika Held, il secondo edito da Neri Pozza (www.neripozza.it). Bambini strappati all’acqua e alla morte, ma condannati al coma vigile, menti assenti e annichilite, in corpi che continuano a crescere e a trasformarsi. Che cosa è successo alla bimba salvata e al ragazzino biondo con cui quel pomeriggio Rania condivideva la panchina e il contatto breve di una coscia? Perchè lei non li ricorda? E perchè non ricorda la fine di quella giornata, probabilmente una sequenza di urla, autoambulanze, luci, polizia, domande, genitori? Solo i nomi riaffiorano, a fatica: Malu la bambina, Kolja il fratello biondo.
Nella sua memoria dell’infanzia, Rania adulta scopre un buco, un’arbitrarietà incomprensibile, un’interruzione che la inquieta e la spinge a muoversi. Chi decide che cosa i ricordi trattengono e cosa lasciano andare? Comincia così il suo viaggio all’indietro nel tempo, sulle tracce di frammenti e di volti, di nomi e di circostanze, per riallacciare i fili della trama là dove si sono lacerati.
Monika Held, scrittrice e giornalista |
Con grande raffinatezza, mentre Rania avanza nella sua ricerca a ritroso - gli incontri con un vecchio compagno di scuola di Kolja, una dottoressa, la madre, l’amico Mark - la scrittrice ne precede i passi e ci racconta la vita del ragazzo dopo la tragedia. I genitori che si fronteggiano in un dolore che ognuno custodisce a modo suo, il trasloco della famiglia nella città della clinica specializzata dove la sorella cresce, l’implosione della coppia, le giornate anomale di un adolescente a contatto con bambini-vegetali, in cui si immedesima al punto da trasferire la sua vita nella loro. Nemmeno l’amicizia con Mark, un coetaneo che ama gli animali e d’istinto capisce come stimolare i sensi dei piccoli ricoverati, riesce ad aiutare Kolja, che insegue l’idea della morte, nelle orecchie la voce della madre che lo spinge a visitare la sorella, alla quale non riesce ad accostarsi: «Vai a vedere cos’hai combinato». Davanti agli occhi un’immagine affiora dal passato, l’unica che lo riscalda: Rania, i capelli al vento, piantata in mezzo alla strada, che cerca di bloccare il camion del trasloco.
Monika Held firma un racconto duro e raffinato sul senso di colpa (perchè mi sono distratto?, Kolja. Potevo salvarla?, è il pensiero che si aggira nel subconscio di Rania, cercando un modo per riaffiorare...) e sul mistero della memoria, delle sue scansioni e rimozioni. Sul dolore e sull’amore, senza leziosità. Sostenuti da una scrittura evocativa e insieme asciutta, che non scivola mai nel registro della commozione, i due livelli narrativi confluiscono in un finale sospeso. La terapia è affrontare, insieme, il peso di un’assenza, fisica o mentale. Il buco nero dove tutto è cominciato. —
@boria_a
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