domenica 10 febbraio 2019

IL LIBRO


 Manuel Vilas: La memoria dei genitori e delle cose, in tutto c'è stata bellezza








I genitori che abbiamo avuto, quelli che siamo. Il nostro essere figli e i nostri figli. Il pudore degli affetti, i gesti mancati, i silenzi. Le case, le fotografie, gli oggetti. L’umile materia che ci accompagna mentre la vita scorre e che non seppelliamo, anche «se c’è gente a questo mondo che ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano».

“In tutto c’è stata bellezza”, dice lo scrittore Manuel Vilas. E così s’intitola l’edizione italiana del suo libro, un caso editoriale in Spagna nel 2018, come l’anno precedente “Patria” di Fernando Aramburu, e ora pubblicato da Guanda (pagg. 409, euro 19,00) nella traduzione di Bruno Arpaia.


“Ordesa”, il titolo originale, è una valle montana della parte spagnola dei Pirenei, che il padre di Manuel, commesso viaggiatore, tanto amava. Ci portò tutta la famiglia per una breve vacanza, nel 1969, quando lo scrittore aveva sette anni, guidando con orgoglio la sua Seat bianca dal paese di Barbastro, dove vivevano. Bucarono una gomma, quella mattina di luglio, ma il padre la cambiò fischiando, sorridendo, perchè era in mezzo alla natura, nel suo regno, e «tutto era futuro, allora, quando ci fu la foratura».


A Ordesa, Manuel torna cinquant’anni anni dopo, da uomo divorziato e solo, un passato da alcolista e due figli adolescenti per i quali è quasi un estraneo. Guarda le pietre e cerca il posto dove la ruota si afflosciò: è rimasto solo lui a ricordarlo, a custodire e trasmettere quell’episodio che è il paradigma di un patrimonio di legami, di una condivisione dalle radici antiche, il senso di una famiglia. Il padre è morto nel 2005, la madre nel 2014. Poco dopo lui ha smesso di bere. E Ordesa non è solo un luogo fisico, ma un momento che ne illumina altri, li riscatta dall’oblio, in quel lento ritorno alluvionale della memoria a cui si aggrappa per uscire dalla condizione di “orfanità”.



Manuel Vilas


Sembra di sentirlo raccontare, Manuel Vilas, mentre scorrono i capitoli del suo poetico, nudo, lacerante monologo, trafitto da brevi tratti di ironia. Persone e oggetti, entrambi testimoni di una storia domestica e universale, in cui è immediato riconoscersi e sentirsi avviluppati, che escono dal passato con la potenza dell’affetto per sottrarre l’autore alla sua solitudine.


I genitori belli e controcorrente - il padre elegante e silenzioso, la madre passionale, “una dea arcaica”, con le unghie laccate di rosso fino alla fine e la ricerca indefessa della parrucchiera giusta - una coppia che riempie e appaga gli occhi del bambino, gratificato dal sentirsi figlio loro. Sullo sfondo la Spagna degli anni Settanta, con l’aspirazione degli elettrodomestici, la classe media fiera di quelle Seat nazionali delle prime vacanze (fedele a quest’unico marchio, in cui identificava l’essenza stessa del suo paese, il padre la parcheggiava sempre all’ombra, odiando lui stesso il sole, quasi l’auto fosse una sua propaggine...) la lotta per la promozione sociale, la casa con l’ascensore, gli amici.


Poi, per Manuel, un lavoro da professore poco gratificante, il matrimonio e i figli, un’infedeltà che la telefonata inopportuna della madre rivela alla moglie, il divorzio («allora capii che la morte di un rapporto è in realtà la morte di un linguaggio segreto»), l’alcol. E sono poche, ma tremende, le pagine dedicate alla dipendenza, quando, dopo la concessione di un prestito trentennale, passa il pomeriggio a bere vino in un bar, stramazza per strada e si risveglia in un pronto soccorso ostile, col terrore che qualcuno dei funzionari di banca l’abbia visto perdere i sensi e crollare al suolo.
Infine, la scrittura. Il libro che, per sua stessa ammissione, è «come una lettera d’amore a mio padre e a mia madre». Una tensione a recuperare anche le parole mai pronunciate in famiglia, quelle sulle vicende dei nonni, per esempio, che uscivano da povertà e guerra civile, ed ebbero destini tremendi, uno la prigione franchista, l’altro il suicidio. Una narrazione lenta, misurata ma a tratti scarnificante, da cui emerge la forza rigenerante degli affetti, del prendersi cura della memoria come di se stessi, per sopravvivere e accettarsi nelle fragilità e nei limiti.


Metà novembre 1961. Vilas visualizza la stanza dove è stato concepito. I genitori entrambi giovani, che si preparano a chiamarlo dall’oscurità, a convocarlo alla vita. «Nel loro piacere c’è la mia origine, nella loro malinconia dopo l’amore c’è la creazione dell’insaziabilità del mio spirito». Ed è lì, in quella stanza, che è passata la bellezza. 

@a_boria

2 commenti:

  1. Cara Arianna, Patria è un bellissimo racconto, che lascia il segno; leggerò con piacere pure Ordesa, stammi bene. Sandor

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  2. Merita, anche se un po' ti lascia una morsa di angoscia...
    Ci sono intere pagine in cui noi, di quella generazione, ci riconosciamo
    Ciao

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