IL PERSONAGGIO
Anita Pittoni, la triestina "stramba"
che inventò gli "straccetti d'arte"
Discontinuità. È la parola scelta da Alessandro Del Puppo, curatore della Collana d’arte della Fondazione CrTrieste, per presentare il ventitreesimo volume, appena uscito come strenna natalizia. Discontinuità perché è il primo dedicato a una donna e il primo a uscire dalla direzione “pitturocentrica” della collana, se si esclude quello sullo scultore Ruggero Rovan.
Anita Pittoni (Trieste, 1901-1982) in un ritratto degli anni '60 (Biblioteca Hortis Trieste)
La protagonista della monografia del 2022 è Anita Pittoni e questo omaggio è di per sè carico di significati: non solo perché a una donna, in un anno in cui le donne hanno guidato e determinato il cambiamento in tanti ambiti, ma perché a una donna creativa, controcorrente, anticipatrice, singolare e per questo inevitabilmente sola. “Ruggero fin da piccolo si abituò a vivere in solitudine, una solitudine che egli sapeva arricchire di fantasie indefinibili con l’ansia di impadronirsi al più presto dell’alfabeto” scrive Anita nel 1955 proprio dell’amico scultore Rovan, certamente confessando anche di sè.
Artigiana, designer, disegnatrice, pittrice, poetessa, infine editrice, Anita Pittoni è stata un’artista a tutto tondo, una personalità complessa che riuscì a cogliere e interpretare i cambiamenti in atto nella cultura del suo tempo, a farsi largo in settori di esclusivo appannaggio maschile e a portare il suo gusto e il suo stile ben al di là dei confini nazionali, ottenendo riconoscimenti che Trieste, pur sua città amatissima, le tributò con parsimonia, almeno fin quando era in vita.
Anita Pittoni indossa il suo "Vestito" nel 1935
In vent’anni di attività il suo Studio d’arte decorativa rivoluzionò il campo dell’artigianato artistico applicato al tessile e alla maglieria. Non solo. Nel suo “manifesto” - dal “Profilo per l’istituzione di una scuola artigiana” del 1963 - spiega di aver voluto riscattare i lavori femminili per portarli sul piano dell’arte e di aver cercato di educare le donne all’esecuzione di manufatti d’alto livello, potenziando il discernimento “tra bello e brutto, tra fatica utile e inutile, tra il ben fatto ed il malfatto”.
La monografia che porta la firma di Rossella Cuffaro - e conta su un ricchissimo corredo di immagini oltre a un apparato di scritti della protagonista, alla sua bibliografia, alla cronologia delle partecipazioni a mostre e fiere nazionali e internazionali, alle schede sulle opere e gli artisti con cui collaborò - segue il percorso professionale di Anita, attraverso il suo ampio e articolato archivio, lasciando in secondo piano le testimonianze personali su “la Pittoni”, dove spesso le asperità del carattere prendono il sopravvento sul profilo di una designer per certi versi geniale.
Un abito di Anita Pittoni al Design Museum a Milano nella mostra sulla creatività degli anni '30
Dal “fatidico” 1928, anno in cui visitò a Vienna i laboratori della Wiener Werkstätte e lasciò la famiglia per trasferirsi dal primo compagno, il medico Giovanni Parovel e avviare la sua attività a palazzo Hierschel dell’odierno corso Italia, in casa delle amiche sorelle Wulz, alle collaborazioni come costumista teatrale con Anton Giulio Bragaglia; dalla prima mostra di pannelli decorativi al Circolo artistico di via Margutta a Roma col grafico Marcello Claris, alla successiva Biennale al Castello Sforzesco di Milano che le aprì le porte dei circoli culturali e artistici animati da Gio Ponti, Raffaello Giolli, Ernesto Nathan Rogers, il volume segue anno per anno l’affermarsi di Anita, i suoi rapporti, sempre dialettici, con gli artisti triestini di punta, tra cui Leonor Fini, Urbano Corva, Maria Lupieri, Marcello Mascherini, Augusto Černigoj, Ugo Carà, Carolus Cergoly, gli articoli per riviste come Domus e Casabella, la crescita del laboratorio, che, in un decennio, coinvolse almeno un centinaio di lavoranti. Un percorso sempre sostenuto dalla consapevolezza del suo valore, pioniera anche nel griffare le creazioni, prima con un monogramma a forma di freccia poi con le etichette di stoffa e il nome per esteso.
Disegni futuristi di Anita Pittoni
“Arte e vita per me sono una cosa sola” s’intitola il primo capitolo del volume, che offre la chiave di lettura della monografia. Anita espone in Italia e all’estero, da Parigi a Budapest, sperimenta le fibre autarchiche promosse dal fascismo - juta, canapa, lino, ginestra - realizza abiti da spiaggia, da giardino, da sera, e poi costumi da bagno, completi da viaggio adatti alle decapottabili, accessori, tovagliati, tende, cuscini, arazzi premiati nelle mostre e lodati dalla stampa, intreccia rapporti professionali e personali, come quello col giovane architetto Agnoldomenico Pica, nel cui studio milanese nel ’36 aprì una succursale e che le fu accanto sino all’inizio di un’altra avventura, quella editoriale dello Zibaldone questa volta con Giani Stuparich al suo fianco.
Un cappello di Anita Pittoni alla Triennale di Milano nel 2016
Negli anni d’oro dello Studio d’arte decorativa, dal 1931 al 1942, Anita Pittoni lavora senza sosta: sperimenta, partecipa alle esposizioni, riceve commissioni dai più importanti studi d’arredamento d’interni (uno tra tutti: il BBPR, Banfi-Barbiano di Belgiojoso-Peressutti-Nathan Rogers), dagli architetti protagonisti del nascente industrial design, alleanza tra curata produzione seriale e manualità artigianale. L’atelier entra nell’Enciclopedia Treccani.
Nel 1940 alla VII Triennale milanese - chiusa un giorno prima della dichiarazione di guerra - espone il Pannello imperiale nell’Aula Massima del Palazzo dell’Arte, sullo sfondo della tribuna d’onore, la grande tenda “Li Fioretti di Sancto Francesco” nella galleria principale, la tenda “Le pudiche e le impudiche” e vince due medaglie d’oro e una menzione.
Ma la fine dello Studio si avvicina. Prima i gravi lutti familiari, il venir meno della madre Angelina, da sempre sua collaboratrice, e del fratello più piccolo, Franco, sommergibilista, la mancanza di materie prime e di lavoranti, le sempre più aspre difficoltà economiche sia all’arrivo dei nazisti del Küstenland sia più tardi, negli anni del Governo militare alleato, le delusioni per alcune trasferte negli Stati Uniti andate male, il fallito tentativo di rilanciare il laboratorio con la socia Olga Bois de Chesne, che investe denaro ma poi si ritira per divergenze caratteriali. Anche la Scuola d’artigianato di qualità, il sogno che aveva sempre coltivato per dare un mestiere alle tante ragazze profughe dall’Istria, non si realizza, seppure lei ci creda fino alla fine.
Nel 1949 Anita chiude, pur continuando a sopravvivere, negli anni delle alterne fortune dello Zibaldone, vendendo materiali, oggetti e abiti dello Studio.
Muore l’8 maggio 1982 al reparto Lungodegenti di San Giovanni, a 81 anni. Al suo funerale partecipano in pochi. “Sono un po’ spaventata da me stessa, dalla rivoluzione che sono, di questo mio vedere le cose in una indipendenza alla quale forse non ho diritto”, scriveva.
Dimenticata per vent’anni, nel 1998 il suo busto fu il primo dedicato a una donna collocato tra i grandi triestini nel Giardino pubblico. L’anno dopo l’omaggio con la mostra “Straccetti d’arte” a Palazzo Costanzi, l’annullo filatelico, l’intitolazione di una scuola. Alla “donna stramba”, come lei si definiva, all’«indiavolatissima triestina», per dirla con Bragaglia, che aveva ripulito il “tricoter” dalle superfetazioni domestiche, incrociando tecnica e arte, semplicità e funzionalità, alla ricerca costante della bellezza.
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