martedì 30 aprile 2024

MODA & MODI

 

Il valore emozionale che la fast fashion non ha

 


 

 Prima pensa, poi compra. E compra di seconda mano. O meglio, pre-loved, un articolo già scelto e amato da qualcuno, che passa di mano per essere ri-scelto e ri-amato da qualcun altro. L’usato di qualità non è più un vezzo per chi ha occhio, fiuto, conosce i materiali, la storia dei brand e ha tempo libero. La circolarità fa bene all’ambiente, nonostante la Generazione Z, che di slogan sul pianeta si riempie la bocca, sia la più famelica consumatrice di moda usa e getta. Sta tutto nell’aggettivo fast: compere d’impulso, prodotti in serie, durata minima, rottamazione veloce.

Vestiaire Collective, la più grande piattaforma di seconda mano di lusso (o meglio, firmato), ha commissionato uno studio, partendo da un dato: oltre il 60 per cento della moda fast finisce nella discarica nel giro di un anno. Prima ha messo al bando sessantatré marchi, vietando la vendita, attraverso la sua piattaforma, di prodotti, tra gli altri, di Zara, H&M, Gap, Mango, Uniqlo, American Apparel, Abercrombie & Fitch. I cinque criteri per redigere la lista nera? Prezzo stracciato, ricambio velocissimo, ampiezza della gamma di prodotti contemporaneamente sul mercato, rapidità della messa in vendita (dalla progettazione al pezzo finito) e pubblicità massiccia.
Il secondo passaggio è l’analisi dei dati. Vestiaire Collective ha condotto una ricerca in Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti che sfata la convenienza facile.

Il report si intitola Exposing the true cost of fast fashion, smascherato il vero prezzo della fast fashion, e compara il cosiddetto costo per utilizzo. In pratica: è illusoria l’idea di risparmiare sganciando poche decine di euro. Capi e accessori verranno indossati meno, perché l’importo basso alimenta la bulimia di altri acquisti, e finiranno presto dalla discarica dell’armadio a quella vera, in quanto impossibili da riciclare con un sia pur minimo guadagno. Il costo per utilizzo rivela allora il costo effettivo di un articolo in base alla frequenza con cui ce lo mettiamo, alla sua durata e al valore alla rivendita. E senza inoltrarci nel ginepraio delle statistiche, secondo lo studio gli abiti di seconda mano di marca si indossano circa otto volte più di quelli fast fashion, i cappotti quattro volte e le borse hanno un costo per utilizzo del 72% in meno.

C’è infine un altro dato esaminato, che almeno ci riconcilia con la gratificazione di un acquisto. La durata “emozionale”, cioè per quanto tempo la nostra vita e le nostre memorie si legano a un capo, aggiungendogli ulteriore valore, non quantificabile.


Molti i commenti sarcastici online: Vestiaire Collective non è un committente neutro, attacca le catene low-cost per promuovere il suo usato griffato. E ancora: chi compra usa e getta non può permettersi altro o non accetta le rapine legate al logo e non all’effettiva qualità. Il punto centrale è sempre il prezzo, insensato ad entrambi gli estremi. Ma la fast fashion è certamente colpevole della sua percezione distorta: se un vestito o un cappotto costano pochi euro, vuol dire che nella filiera c’è un buco, che uomini o ambiente sono stati calpestati. E, loro sì, presenteranno il conto reale. 

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