lunedì 15 aprile 2024

MODA & MODI

 diet_prada: sono aspirazionale, non stupido 




 

Un paio di flip flop di Chanel in gomma a 975 dollari. Una microgonnapantaloncino (dicesi skort) di Gucci (“neanche un metro di tessuto”) a 2600. Diecimila 400 per un cestino di vimini firmato Hermès, di cui non puoi scegliere il colore (“sarà una sorpresa”, galvanizza la descrizione). Infine l’abito color caramello di Chemena Kamali, designer debuttante da Chloé, che svetta oltre i 26mila dollari.


La denuncia di diet_prada su Instagram ha scatenato una tempesta di commenti in rete. Titolo: “Il lusso nella moda sta per risvegliarsi bruscamente?” Sotto, foto dei prodotti con relativo prezzo. Se ci fosse la gonna-asciugamano di spugna di Balenciaga a più di 600 dollari il catalogo sarebbe completo: pezzi che si assomigliano da un brand all’altro, fatti in serie, senza materiali nè ricerca, dove l’heritage del fondatore, come ai modaioli piace chiamare il patrimonio di artigianalità, esclusività, sapienza manuale, si è perso completamente. Non c’è da stupirsi, denuncia diet_prada, che, dopo l’impennata post pandemia, quando il bisogno di gratificarsi e l’ubriacatura di ritrovata libertà avevano fatto schizzare in alto le vendite, il lusso sia in costante flessione e lo stesso colosso Kering preveda un meno venti per cento nei ricavi.


I commenti sotto il post tracciano il profilo di quello i brand stanno perdendo: il cliente “aspirazionale”. Chi è? La definizione sembra alludere a qualcuno che vorrebbe ma non può, che aspira ma non raggiunge: è così e non necessariamente in senso negativo. Non dunque il super ricco, indifferente al cartellino del prezzo e della composizione, ma un acquirente con una buona capacità di spesa, che in passato comprava il più abbordabile universo intorno al top di gamma. Non la Birkin di Hermès, ma la cintura, il foulard, il portamonete, il portachiavi della stessa griffe, che con questo mercato guadagnava parecchio.


Oggi l’aspirazionale si sente preso in giro e lo dice senza perifrasi. Un logo di lusso non garantisce qualità. Gli artigiani delle origini, e il loro patrimonio da tramandare di padre in figlio, non esistono più, nemmeno come memoria. Esistono i colossi, che hanno fatto del nome un logo spersonalizzato, ubiquo, spesso sproporzionato come il costo (c’è più CHANEL che gomma in quelle ciabatte...). E poi la beffa: ti vendo una spugna a centinaia di euro, sei tu che non la capisci. Una merda d’artista alla Piero Manzoni, ma senza alcuna carica dissacratoria.


L’aspirazionale guarda all’aspetto etico. Che lusso è se viene prodotto da lavoratori schiavizzati in paesi lontani (vedi Loro Piana, del gruppo LVMH di Arnault, accusato di sfruttare i tosatori peruviani per maglioni a 9mila dollari) o sotto i nostri occhi (il caporalato contestato dai giudici ad Armani Operations), vandalizzando l’ambiente? Ma il concetto che ricorre più spesso è quello del tempo, di chi aspetta e di chi realizza l’oggetto del desiderio. Il tempo dell’aspirazione e della confezione hanno lo stesso valore, il secondo non può bruciare il primo in nome del business. E poi le fonti: il lusso è conoscere le mani di chi l’ha creato. 

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