Dimitra Theodossiou: sul Norman Atlantic cantavo le preghiere di Verdi
Il soprano greco Dimitra Theodossiou nel ruolo di Abigaille |
Gianpaolo Bisanti dirige l'Orchestra e il Coro del teatro Verdi di Trieste |
Neanche un mese fa, il 28 dicembre, Dimitra Theodossiou era a bordo del traghetto Norman Atlantic, andato a fuoco al largo delle coste albanesi. Diciotto ore d’inferno, in mezzo a fiamme, acqua e panico, prima di toccare terra, in salvo. Le vittime accertate del rogo sono undici, imprecisato il numero dei dispersi, tra cui i clandestini a bordo.
Il primo giorno del 2015, Theodossiou era di nuovo in scena, a Rimini, con questo “Nabucco” la cui tournée riparte ora da Trieste.
«Riprenderò mai la nave? Adesso dico di sì - esordisce - poi chissà quando sarà il momento di imbarcarmi davvero... È un trauma che non passa sopra la pelle, che ti si incide nell’anima». E il suo racconto ci riporta a quella notte.
Qual è il ricordo più vivo che le è rimasto?
«Quando ho preso la decisione di chiamare la mia famiglia, per l’addio estremo. Eravamo circondati dal fuoco, ormai l’unico pensiero era: “qui moriamo tutti”. Ho parlato con mio figlio, che ha ventuno anni. È stato il momento più tragico, piangevamo, siamo rimasti tutti e due traumatizzati. Adesso, quando ci sentiamo, quella telefonata salta spesso fuori nella conversazione. Ha cambiato anche la sua, di vita, non solo la mia».
È vero che ha assistito a scene di violenza tra i passeggeri?
«Certo. Io stessa sono stata più volte spinta e trascinata indietro. Il pavimento era scivoloso, pioveva, e anche il vortice d’aria creato dall’elicottero dei soccorsi rendeva quasi impossibile camminare. E in mezzo a tutto questo inferno, c’erano uomini, non europei, che usavano la forza su donne e bambini per mettersi in salvo. Ero terrorizzata che una di queste spinte mi facesse cadere in acqua. Diciotto ore sperimentando che cosa significa vivere con la paura di morire, ma non sapendo in quale minuto sarebbe successo».
A che cosa si è aggrappata?
«Alla fede e alla musica, che è psicoterapeutica. Mi ero congedata dalla mia famiglia, avevo sistemato tutto, non pensavo più di salvarmi anche perchè gli elicotteri caricavano uno cinque persone, l’altro due, e noi eravamo centinaia... Così cantavo e pregavo, pregavo e cantavo, tutte le arie verdiane che amo tantissimo: l’Ave Maria di Desdemona, di Stiffelio, l’Aria dei Lombardi, della Forza del destino».
Ha mai pensato alla sua voce?
«Quando mi sono trovata finalmente sull’elicottero ho pensato per la prima volta alla voce. Avevo respirato freddo, ghiaccio, fumo, ero ipotermica. I rimorchiatori, per spegnere il fuoco, ci avevano rovesciato addosso tonnellate d’acqua, eravamo fradici. Adesso - mi sono detta - arrivo in ospedale e mi rinchiudono per dieci giorni. Invece non ho preso neanche un’infreddatura. Il corpo sotto shock ha reagito con scariche di adrenalina che hanno neutralizzato tutto il resto».
Ha parlato con qualcuno durante quelle ore?
«No, a parte la telefonata a casa, sono rimasta sempre coperta per respirare il meno possibile. Alle 11 di mattina, poi, i telefoni satellitari sono stati chiusi, tutte le comunicazioni con i nostri cari si sono interrotte. C’erano molte persone che, come me, viaggiavano sole, ma in quei momenti, anche in mezzo a tanta gente, sei comunque solo. Gli unici a far gruppo erano i camionisti, che si conoscevano già tra loro. Alle otto di sera, poi, abbiamo perso le speranze. Ci dissero che non sarebbe venuto più nessuno a causa del fumo, del vento e della pioggia. Anche i rimorchiatori non si potevano avvicinare perchè il calore spezzava le corde. Quando ho visto l’elicottero da lontano, erano le 22, le 22.30, mi sono alzata e mi muovevo a fatica, camminavo come un pinguino per arrivare alla scala e raggiungere il punto più alto da cui ci avrebbero imbarcati. Salire è stato tremendo, c’erano due donne dietro a me che mi spingevano. Poi finalmente ho visto il cordone scendere...».
Il primo gennaio, dopo pochi giorni, lei era già in scena...
«È la mia salvezza, la mia forza. Il palcoscenico è magico, mi dà vita. Lì mi sono sentita in salvo. Ero tornata al mio mondo, al mio rifugio».
E, quasi per ironia della sorte, con una guerriera come Abigaille...
«Tutti i personaggi della mia carriera artistica hanno questa caratteristica. Sono anch’io così, guerriera di natura, per questo i ruoli che interpreto risultano veri, credibili. Mi viene da dentro. Il pubblico che mi ha visto subito in scena era stupito, certo, ma lo ero io per prima. Con la nostra intelligenza possiamo analizzare tutto nella vita, ma non ci sono parole per descrivere gli stati d’animo di chi aspetta la morte. Le parole sarebbero banali, solo chi ha vissuto questa situazione può capire che cosa si prova. Poi, ognuno di noi, supererà il trauma in modo diverso, chi con i farmaci, chi con la preghiera, chi con i pensieri, con le proprie risorse. Io ho un’altra forma di comunicazione, sul palcoscenico regalo emozioni e il pubblico sente che non sono artefatte, che sono parte di me».
Si sente cambiata anche come artista?
«No, ma sono io, come persona, che sto evolvendo in modo diverso, è quello che succede dentro di me che cambia. Cambiano alcuni valori, anche nel dosaggio, alcuni principi diventano più profondi. Sono più semplice nelle cose, vado verso il prossimo cammino in modo nuovo».
Che musica ascolta per rilassarsi?
«Classica, ma in realtà ascolto poca musica. Piuttosto leggo o ricamo a punto croce, mi piace tantissimo».
Qual è la prima cosa che ha detto a suo figlio quando ha potuto chiamarlo?
«”Buonasera, sono di nuovo qui con te”. E questa volta piangevo di felicità».
@boria_a
Il Nabucco al "Verdi" di Trieste (foto Parenzan) |
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