giovedì 1 gennaio 2015

IL PERSONAGGIO

Mustafa Sabbagh, obbiettivo in nero

È considerato tra i cento fotografi contemporanei più influenti al mondo e tra i ritrattisti più innovativi, unico italiano. Mustafa Sabbagh, 53 anni, italo-palestinese nato ad Amman, in Giordania, ha firmato servizi sulle “bibbie” della moda, a cominciare da Vogue, ed esposto in gallerie italiane ed estere. Pochi sanno, però, che in quella doppia provenienza geografica, in quell’«italo» delle sue biografie ufficiali, si nasconde Trieste. Mustafa Sabbagh è “mulo” per parte di madre, ha vissuto e studiato da piccolo in città e si ripromette di tornarci presto, con un progetto speciale. Tra i protagonisti dell’ultima edizione della rassegna “Maravee” al Castello di Susans, Sabbagh è ora ospite con la personale “Identità migrante” a palazzo Elti di Gemona fino al 2 febbraio, dove propone la sua visione del corpo, dell’identità, della maschera. Di recente, la collezione di arte contemporanea della Farnesina ha acquisito un suo dittico, “Senza titolo”, del 2014. Ecco come Mustafa Sabbagh ci racconta la sua arte.



Mustafa Sabbagh

Ci racconta la sua prima foto e cos'ha provato quando l'ha guardata?
«Avevo all'incirca 6 anni, in Giordania, e a casa di una mia zia ho trovato, in un cassetto, una fotocamera Polaroid. Scattare una foto ai miei compagni di giochi, godere istantaneamente della cristallizzazione di un attimo e di una sensazione, e incantarsi come solo un bambino sa... Quando scatto sono ancora quel bambino incantato, che impara a scandire le parole e a comunicarsi attraverso un suo proprio esperanto: un frasario di luci e ombre, una grammatica di visioni e allucinazioni, costruite attraverso la sintassi di una mia imprescindibile, necessaria come l'aria, progettualità».
Adesso che è lei un "maestro" della fotografia, c'è qualcuno che riconosce come "suo" maestro?
«Qualcuno? Direi un'infinità, nella misura in cui inspiro ed espiro, incamerando, assorbendo e lasciando riaffiorare. È la mia forma di foto-sintesi. Ma, se dovessi fare un nome su tutti, direi Caravaggio. Il più grande fotografo di tutti i tempi. Del resto, non ho mai creduto nella ghettizzazione delle forme d'arte...».






È vero che non le piace essere definito anche "fotografo di moda"?
«Dipende. Non credo nell'etichettamento delle forme d'arte, perché ciò che più profondamente amo in esse è la loro comune matrice antropologica, la chiave di lettura che offrono della società che dipingono, o fotografano, o raccontano... o vestono. Amo il genio di McQueen, l'eleganza sussurrata ma raffinata del primo Margiela, le folli contaminazioni della Schiaparelli e le architetture visionarie di Rei Kawakubo... e poi Coco Chanel, che fece portare il pantalone alle donne, liberandole... Quando la Moda, in quanto Arte, è capace di liberare la mente e di generare cultura, sono orgoglioso di essere definito "fotografo di moda". Non lo sono quando la si tratta con logiche da basso mercato, o quando la si concepisce come nuovo strumento di omologazione delle masse, come oppio dei popoli della più alienante blogosfera 2.0».
Il nero domina nella sua opera. Perché?
«Ho sempre avuto percezione di me stesso come figlio dei nostri strani giorni, all'interno dei quali la contraddizione è un atto quotidiano, e della mia fotografia come conseguente specchio dei tempi e di me stesso, con cui tendo a essere costantemente in conflitto... E il nero è specchio del momento storico, così come è specchio di me stesso, ma non nel senso che ci si potrebbe aspettare. Amo il nero, perché accoglie. Perché mi offre l'opportunità di una sfida, nel dover conferire profondità al colore non-colore, nel dare valore allo #000. Lo amo perché non simbolizza solo la crisi, ma anche il riposo: quando sei stanco, chiudi gli occhi... e, nel sollievo, vedi nero. In definitiva, lo amo e lo scelgo perché nulla, più del nero, mostra che tutto ha una doppia chiave di lettura. Tutto dipende dalla porta che si desidera aprire».



Che cosa cerca nei corpi che fotografa?
«Cerco l'autenticità connaturata all'uomo. La verità è per sua definizione nuda, e il corpo, e la pelle, non mentono mai. Un certo retaggio culturale e religioso ha fatto sì che il corpo venisse percepito, tramandato - e tradito - come 'corpo del peccato', ma a mio avviso non è così. Il primo approccio con le persone è fisico: è odore, è pelle, è contatto, è chimica. Il medium è il messaggio, diceva Marshall McLuhan; nel mio caso, il messaggio è lo scatto, ma il medium è definitivamente il corpo - come diario, come microchip, come verità incapace di mentire a se stessa».
E perché copre i volti?




«Mi sono accorto di ottenere l'effetto diametralmente contrario a quello semplicisticamente più prevedibile: oscurare la vista, primo veicolo di pregiudizio, permette all'individuo di essere completamente in asse con se stesso, e di esprimersi per come è - e non per come il contesto imporrebbe che fosse. È in quel momento, mascherandolo e facendogli perdere contatto con le convenzioni, che il soggetto dismette la maschera, smette di recitare, e comincia ad essere».

  Lei ha preparato e fotografato gli abiti dei film di Pasolini e Fellini a Villa Manin per la mostra "Trame di cinema", disegnati da Danilo Donati. Come si è accostato a questi pezzi?
«Con lo stesso timore reverenziale attraverso il quale ci si accosta a un proprio mito, nel momento in cui si prende coscienza della sua umana, meravigliosa tangibilità. La sera in cui ho ricevuto quegli abiti, che hanno realmente contribuito a costruire il mio immaginario estetico, dormendo vicino ad essi sentivo di dormire vicino a Donati, a Pasolini, a Fellini, alla Gradisca di Amarcord, alla Giocasta dell'Edipo Re... Una volta sul set, ho dunque deciso - come da convinzione di un incoerente quale sono - che il modo migliore per rendere loro omaggio non fosse nel ricalcarne il solco, ma nel permettere loro di intraprendere un nuovo cammino. La scelta di coprire il loro volto, così, non mi è venuta tanto da un mio habitus artistico, quanto da un incommensurabile amore, un rispetto devoto».
Come fotografo, che cosa prova davanti all'imperfezione?
Come fotografo, esalto l'imperfezione, come segno distintivo della propria unicità. Come uomo, la amo, come chiave di lettura della propria umanità».
C’è un’immagine a cui è legato in modo speciale?
«Certo. L'ultima che ho scattato, sempre. In realtà mi sono reso conto che, probabilmente per una mia forma di autodifesa, mi ritrovo ad amare allo stesso modo ognuno dei miei progetti, e una volta terminati, ad archiviarli con lo stesso distacco proprio di chi è già posseduto da un nuovo amore... Ecco perché il progetto cui sono particolarmente legato è sempre quello in atto».




Lei tiene una Masterclass sulla fotografia di moda nell'ambito della mostra "Bellissima" al Maxxi di Roma sull'alta moda italiana dal '45 al '68. Che messaggio dà ai suoi "allievi"?
«Coerente nella mia incoerenza, abbiamo deciso - assieme ai curatori di Bellissima, Anna Mattirolo, Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi - che la mia masterclass apparterrà a Controcanto: una voce fuori dal coro, da chi tuttavia del coro conosce le armonizzazioni, per dimostrare che il punto di vista non è mai univoco. Del resto, quando insegno, non amo salire in cattedra, ma mi siedo al banco assieme ai colleghi che vengono ad ascoltarmi. Non credo nell'approccio didattico-tecnico, soprattutto se mi trovo a parlare di fotografia. È fotografia, non fotocopia. E un amore non lo insegni, lo puoi solo vivere e raccontare. Quello che cerco di raccontare dunque, e non di insegnare, è un atteggiamento di profonda apertura mentale, condicio sine qua non che può essere supportata solo da un'altrettanto profonda cultura».
Che cosa pensa dei talent televisivi per nuovi volti o modelle?
«Jean Genet scrisse "Creare non è un gioco un po’ frivolo. Il creatore si è impegnato in un'avventura terribile, che è di assumere su di sé, fino in fondo, i pericoli che corrono le sue creature". Un rapporto, per dirsi tale, non può essere frivolo né superficiale, perché include conseguenze dirette e altrettanto dirette responsabilità. Tantomeno può esserlo il rapporto tra fotografo e modella, che - per come lo concepisco io - non può non fondarsi sulla complicità. Certo, non è detto che questa si instauri, ma del resto ogni tipo di rapporto esclude la prevedibilità del finale. I talent, al contrario, sono così - per usare un eufemismo - noiosamente prevedibili...
Ci racconta il suo legame con Trieste?
«Il mio legame, che custodisco con lo stesso amore attraverso il quale custodisco i miei legami più cari, è tutto nei racconti d'infanzia di mia madre, e nei miei ricordi delle vacanze dalla Giordania e dei miei studi in via Fabio Severo... E poi, è nella potenza della bora. È nell'eleganza impeccabile delle persone anziane. È nel Castello di Miramare, e in quello di San Giusto. È nelle scalinate decadenti dell'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni... Come mi accade sempre, riesco a raccontare ogni mio legame più con un'immagine, che non a parole».
Che cosa ricorda di più della città?
«Ricordo la vista - il lunedì, affollato di persone provenienti dall'ex Jugoslavia, cariche di merci acquistate al mercato. Ricordo il gusto - il delizioso caffè “nero” che consumavo in via Carducci. Ricordo il suono - "Scusi, bel mulo..."».
Se le chiedessero di scattare un'immagine di Trieste, che cosa sceglierebbe?
«Il molo infinito di fronte a Piazza dell'Unità, reso vivo dai visi segnati dei vecchi marinai in sosta».
È possibile che qualche progetto la porti qui?
«È possibile, ed è molto probabile. Trieste è per me un punto di connessione, non una città di confine; in questo senso, sono curioso di connettermi al mio ricordo, e di scoprire se e quanta distanza c'è da esso».



Mustafa Sabbagh è considerato uno dei 100 fotografi contemporanei più influenti al mondo

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