martedì 25 novembre 2014

 IL LIBRO

A Longbourn house


Jo Baker autrice di "Longbourn house"


Chi sopportava le scottature tra le dita per arricciare col ferro caldo i capelli delle signorine Bennet? Chi scrostava il fango dai loro abiti di mussolina o si sobbarcava miglia al buio e sotto la pioggia torrenziale per rifornirle di rose da applicare alle scarpe da ballo? Chi svuotava i pitali dei pretendenti o preparava pasti leggeri per le convalescenti dalle pene d’amore?
Le si ami o le si odi le cinque ragazze Bennet di “Orgoglio e pregiudizio”, e tra loro soprattutto l’indimenticabile Elizabeth - da tempo sfuggita col suo Darcy alle pagine di Jane Austen per occupare quelli che un tempo si chiamavano sceneggiati, poi le fiction televisive, il grande schermo in prima persona o attraverso le continue citazioni in altri film (ricordate la passione smodata che per lei nutriva la Meg Ryan botox-free in “C’è posta per te”?) - delle Bennet, appunto, dei loro sospiri, batticuori, retropensieri, delle strategie al tavolino da té per assicurarsi un marito, sappiamo tutto. Nulla sappiamo, invece, di chi si muoveva e che cosa succedeva nelle stanze della servitù, quelle che oggi, anche grazie al successo di prodotti televisivi raffinati come Downton Abbey (e, a metà degli anni ’70, l’antenata Upstairs Downstairs della Bbc, da noi “Su e giù per le scale”, che ispirò appunto Julian Fellowes per la sceneggiatura di Gosford Park e poi per “Downton”), sono tornate di gran moda e suscitano curiosità.
Perchè ai “piani bassi”, almeno all’epoca, si riproducono le stesse dinamiche personali, le stesse tensioni e sopraffazioni, le gerarchie e le alleanze che dominano quelli “alti” e anche “downstairs” ci si strugge e si inganna, si maltrattano i sottoposti e si palpita per amore.
“Longbourn house” di Jo Baker (Einaudi, pagg. 373, euro 18,00, con l’ottima traduzione di Giulia Boringhieri) non comincia là dove finisce “Orgoglio e pregiudizio”, piuttosto racconta quelli che nel romanzo della Austen sono fantasmi, l’ipertesto dell’amore di Elizabeth e Darcy, di Jane e Bingley, la vita dei domestici nell’Inghilterra di inizio Ottocento, che consigliano e consegnano, cucinano e corrono, su e giù per le scale delle insuperabili differenze e diffidenze di classe.
Ecco Sarah, la giovane cameriera che si lascia abbindolare dalle attenzioni del valletto Ptolemy Bingley, Tol, l’esotico mulatto figlio del ricco Bingley e di una delle sue schiave. «Se siete una delle sue proprietà prendete il suo nome» spiega l’uomo alla ragazzetta, e la scena segue alla lettera il copione di Downton Abbey, quando il maggiordomo Carson chiama il cameriere arrivato dall’America al seguito del fratello di Lady Cora, Harold, col cognome del suo datore di lavoro, mettendo subito in riga l’irritazione del giovanotto yankee: «In questa casa vi chiamate come il padrone». C’è la signora Hill, saggia governatrice della piccola comunità dei domestici, la giovane Polly, salvata da un destino da orfana e messa subito a servizio, il silenzioso James, servitore dal passato misterioso racchiuso in uno zaino pieno di conchiglie, che lascia intuire come tante volte quello che l’autrice chiama il “sacco amniotico” tra i due mondi, servi e padroni, venga rotto, con conseguenze amare.
Dopo l’incursione nella Spagna delle guerre napoleoniche, al seguito di James (parentesi lunga, forse troppo, ma funzionale a dare sostanza al personaggio), il finale ricompone il quadro domestico delle ragazze Bennet, felicemente maritate o disonorate, ritagliando per la fida Sarah un ruolo da protagonista, ben diverso da quello della sedotta e rassegnata.
Come in “Piccole donne” ogni capitolo ha un piccolo sunto in corsivo e per le affezionate della Louisa May Alcott è una piacevole sorpresa scoprire che il “calicò”, cotone economico per i vestiti da casa delle signorine, di qua e di là dell’oceano, con grandi sogni di marito e piccoli mezzi, non è ancora andato in disuso.

twitter@boria_a


La scrittrice Jo Baker

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