mercoledì 3 dicembre 2014

IL LIBRO

Il buon gusto del kitsch





Il pappagallo Loreto impagliato e i fiori in cornice dell’amica della nonna di Gozzano, sono rimasti in testa a generazioni di studenti come esempio scolasticamente ineludibile delle “buone cose di pessimo gusto”. Non tanto distante, almeno dal punto di vista degli arredi, è la candela con le gocce artificiali descritta da Heinrich Böll in “Opinioni di un clown”. Nella rete della volgarità è facile rimanere impigliati, non contano classe e mezzi, come dimostra Ludwig II di Baviera i cui castelli erano una stravagante accozzaglia di forme e stili diversi. Insomma, la gozzaniana Carlotta e il sovrano cugino di Sissi hanno in comune un tratto: il kitsch. O, che dir si voglia, quello che passa per cattivo gusto, contraffazione, “tamarraggine”, sia degli oggetti che degli atteggiamenti.
Di che cosa possa essere considerato kitsch tutti abbiamo un’idea e una sensazione, in base a una serie di codici estetici, di riferimenti culturali, di educazione. I nanetti in giardino (prima che Philip Starck li rendesse “in”...) e la bambola sul letto, ma anche la versione cinematografica di un capolavoro della letteratura: l’aveva rilevato lo stesso Vladimir Nabokov, senza troppa severità, per la lettura che della sua Lolita aveva fatto Stanley Kubrick. Dove, per “volgarizzazione”, si intende quell’inevitabile tradimento di un’opera che si fa passando da un mezzo a un altro, dalle pagine del libro al grande schermo.
Al contrario, la definizione di questa “categoria estetica” ha impegnato decine di studiosi, filosofi e antropologi, intellettuali e storici dell’arte, tutti sfidati sul campo sia dalla trasversalità del fenomeno, sia dalla sua capacità di adattamento e trasformazione nell’ambito delle oscillazioni del gusto.

 
Il celebre nanetto di Philip Starck


Il triestino Gillo Dorfles se ne è occupato in molteplici interventi oltre che nel suo celebre “Il kitsch. Antologia del cattivo gusto” (1968), dove cerca l’anello di congiunzione tra le caratteristiche di un oggetto e i comportamenti di un soggetto. In parole povere: non sono la Gioconda o la torre di Pisa a essere kitsch, ma la gente che fa la fila per vedere l’una e salire sull’altra e poi si compra la spilletta o la riproduzione in alabastro da salotto.
All’ingente biblioteca accumulata sul tema nei decenni, si aggiunge ora il saggio di Andrea Mecacci, docente di Estetica all’Università di Firenze, (Il kitsch”, euro 12,50, pagg.162, Il Mulino), volumetto agile da sfogliare, ma denso, minuzioso e impegnativo, irto di citazioni e bibliografia, dove si cerca di far chiarezza non solo su origini e significato del fenomeno, ma soprattutto sulle sue innumerevoli derive.

 
Il kitsch di Andrea Mecacci (Il Mulino)


E i problemi, per il kitsch, cominciano già dall’etimologia: il verbo “verkitschen” significa “svendere” o “dar via sottocosto”, ma c’è anche il secondo significato di un altro verbo, “kitschen”, che nel tedesco meridionale sta per “far spacciare dei mobili nuovi per antichi”. O, ancora, l’inglese “sketch”, schizzo”, che allude all’abitudine dei turisti inglesi e americani di acquistare a poco prezzo un quadro o una riproduzione.
La riflessione di Mecacci si articola in tre momenti. Nel primo, che abbraccia gli inizi fino alla metà del Novecento, il kitsch viene considerato un problema etico, un male insito nel sistema delle arti, che ispira addirittura modelli di comportamento e determina la bassezza morale dei soggetti piccolo-borghesi. Per lo scrittore austriaco Hermann Broch è uno specifico prodotto, anzi un vero e proprio “figlio” del Romanticismo. In quest’analisi vengono risucchiate, e triturate, tutte le fantasticherie e gli entusiasmi estatici di Emma Bovary, eroina antropologicamente kitsch per eccellenza: «Amava il mare solo quando era in tempesta e il verde solo quando ricopriva delle rovine...». E ancora: «Al corso di musica, nelle romanze che lei cantava, c’erano sempre angioletti dalle ali d’oro, madonne, lagune, gondolieri...».
La seconda fase del ragionamento dell’autore affronta invece il kitsch in relazione all'industria culturale, dove diventa sinonimo del gusto della massa, che ama il banale e il sentimento preconfezionato e rifiuta ogni complessità (un consumo culturale che promette al pubblico una falsa liberazione, dice Adorno).
Infine la dimensione della contemporaneità, in cui il kitsch si fonde nel postmoderno: in un'epoca in cui il divario tra arte e pseudo arte, autentico e inautentico, perde incisività, il kitsch diventa “neo” e non è più circondato da riprovazioni o condanne.
Nel 1988 lo scultore Jeff Koons crea “Banality”, che ne codifica l’abbraccio con l’arte in una serie colorata e fintissima di ninnoli, souvenir, porcellane. Insomma, La torre di Pisa d’alabastro, buona cosa di pessimo gusto, non è più un “surrogato” del modello autentico, ma essa stessa diventa “modello”.

 
"Michael Jackson and Bubbles" (1988) di Jeff Koons


Lo scultore invita il pubblico, tutti noi, a confrontarsi con la quotidianità, con l’accettazione del banale, e con il piacere che ne deriviamo. Ecco “Rabbit” (1986) e poi “Puppy” (un’enorme scultura di cucciolo di white terrier ricoperta di piante e irrigata da un sistema idrico interno all’installazione, 1992), dove i “pets”, i nostri cuccioli, fonti e veicoli di sentimentalismo immediato, sono promossi a opere d’arte. Secondo Mecacci, anche Paul McCartney - per anni accusato, dopo lo scioglimento dei Beatles, di produrre solo canzoncine - con la sua “Silly love songs” (1976) esprime l’orgoglio di rappresentare un mondo di sentimenti ordinari, ma proprio per questo condivisibili e quindi più veri di quelli ostili e incomprensibili dell’arte d’avanguardia.
Seguire il saggista in questo continuo e spesso iperbolico intreccio di teorie filosofiche, rimandi a romanzi, film, musica e brani tratti da opere di grandi autori, non è impresa semplice. E comunque ci si perde a tener dietro al bandolo della matassa, che termina accennando alle derive “camp” e “trash”. Ma il saggio è comunque efficace nel suo tentativo di offrire strumenti e chiavi di approfondimento per imbrigliare una categoria storica e concettuale non facilmente definibile, onnipresente e in evoluzione con la società. Tanto più che il kitsch non sembra proprio avere alcuna intenzione di abbandonare le nostre vite. Dopo quelli di Ludwig quanti contemporanei monumenti al cattivo gusto abbiamo visto?
twitter@boria_a

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